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    Criteri per risolvere i problemi



    Riccardo Tonelli

    (NPG 2004-05-58)


    In quel tempo, alcuni cristiani della Giudea vennero nella città di Antiòchia e si misero a diffondere tra gli altri fratelli questo insegnamento: “Voi non potete essere salvati se non vi fate circoncidere come ordina la legge di Mosè”. Paolo e Bàrnaba non erano d’accordo, e ci fu una violenta discussione tra loro. Allora si decise che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri andassero a Gerusalemme dagli apostoli e dai responsabili di quella comunità per presentare la questione. La comunità di Antiòchia diede a Paolo e a Bàrnaba tutto il necessario per questo viaggio. Essi attraversarono le regioni della Fenicia e della Samaria, raccontando che anche i pagani avevano accolto il Signore. Questa notizia procurava una grande gioia a tutti i cristiani.
    Giunti a Gerusalemme, furono ricevuti dalla comunità, dagli apostoli e dai responsabili di quella chiesa. Ad essi riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo di loro. Però, alcuni che erano del gruppo dei farisei, ed erano diventati cristiani, si alzarono per dire: “È necessario circoncidere anche i credenti non ebrei e ordinar loro di osservare la legge di Mosè”. Allora, gli apostoli e i responsabili della comunità di Gerusalemme si riunirono per esaminare questo problema.
    Dopo una lunga discussione si alzò Pietro e disse: “Fratelli, come voi ben sapete, è da tanto tempo che Dio mi ha scelto tra di voi e mi ha affidato il compito di annunziare anche ai pagani il messaggio del vangelo, perché essi credano. Ebbene, Dio che conosce il cuore degli uomini ha mostrato di accoglierli volentieri: infatti ha dato anche a loro lo Spirito Santo, proprio come a noi. Egli non ha fatto alcuna differenza fra noi e loro: essi hanno creduto e perciò Dio li ha liberati dai loro peccati. Dunque, perché provocate Dio cercando di imporre ai credenti un peso che, né i nostri padri né noi, siamo stati capaci di sopportare? In realtà, sappiamo che anche noi siamo salvati per mezzo della grazia del Signore Gesù, esattamente come loro”.
    Tutta l’assemblea rimase in silenzio. Poi ascoltarono Paolo e Bàrnaba che raccontavano i miracoli e i prodigi che Dio aveva fatto per mezzo loro tra i pagani.
    Quando essi ebbero finito di parlare, Giacomo disse: “Fratelli, ascoltatemi! Simone ci ha raccontato come fin da principio Dio si è preso cura dei pagani, per accogliere anche loro nel suo popolo. Questo concorda in pieno con le parole dei profeti. Sta scritto infatti nella Bibbia:
    Dopo questi avvenimenti io ritornerò;
    ricostruirò la casa di Davide che era caduta.
    Riparerò le sue rovine e la rialzerò.
    Allora gli altri uomini cercheranno il Signore,
    anche tutti i pagani che ho chiamati ad essere miei.
    Così dice il Signore. Egli fa queste cose, perché le vuole da sempre.
    Per questo io penso che non si devono creare difficoltà per quei pagani che si convertono a Dio. A loro si deve soltanto chiedere di non mangiare la carne di animali che sono stati sacrificati agli idoli. Devono anche astenersi dai disordini sessuali. Infine non dovranno mangiare il sangue e la carne di animali morti per soffocamento. Queste norme, date da Mosè, fin dai tempi antichi sono conosciute in ogni città. Infatti dappertutto ci sono uomini che, ogni sabato, nelle sinagoghe predicano la legge di Mosè”.
    Allora gli apostoli e i responsabili della chiesa di Gerusalemme, insieme a tutta l’assemblea, decisero di scegliere alcuni tra di loro e di mandarli ad Antiòchia insieme con Paolo e Bàrnaba. Furono scelti due: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, che erano tra i primi di quella comunità.
    Ad essi fu consegnata questa lettera: “Gli apostoli e i responsabili della comunità di Gerusalemme salutano i fratelli cristiani di origine non ebraica che vivono ad Antiòchia, in Siria e in Cilicia. Abbiamo saputo che alcuni della nostra comunità sono venuti fra voi per turbarvi e creare confusione. Non siamo stati noi a dare questo incarico. Perciò, abbiamo deciso, tutti d’accordo, di scegliere alcuni uomini e di mandarli da voi. Essi accompagnano i nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, i quali hanno rischiato la vita per il nostro Signore Gesù Cristo. Noi quindi vi mandiamo Giuda e Sila: essi vi riferiranno a voce le stesse cose che noi vi scriviamo. Abbiamo infatti deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose che sono necessarie: non mangiate la carne di animali che sono stati sacrificati agli idoli; non mangiate sangue o carne di animali morti per soffocamento. Infine astenetevi dai disordini sessuali; tenetevi lontani da tutte queste cose e sarete sulla buona strada. Saluti!”.
    Gli incaricati partirono e giunsero ad Antiòchia. Qui riunirono la comunità e consegnarono la lettera. Quando l’ebbero letta, tutti furono pieni di gioia, per l’incoraggiamento che avevano ricevuto (Atti 15).

    La comunità apostolica funziona bene, come funzionano di solito bene le piccole istituzioni nei momenti felici dell’inizio… ma anch’essa ha i suoi problemi.
    E non vanno minimizzati, se erano capaci di suscitare tensioni e sollecitavano i responsabili ad intervenire, convocando la comunità stessa e immaginando soluzioni alternative.
    Se aveva problemi, ci assomiglia. Ci interessa, di conseguenza, scoprire come si è comportata di fronte ad essi, per recuperare suggerimenti per la vita delle nostre comunità, che di problemi non ne hanno di certo pochi.
    Una cosa però va detta subito.
    A noi non interessano prima di tutto i problemi che hanno inquietato la comunità apostolica.
    Ci sono duemila anni di distanza e duemila anni lasciano inesorabilmente il segno anche sulla qualità dei problemi ecclesiali.
    Ci interessa, invece, scoprire cosa stava sotto i problemi inquietanti, come i primi discepoli sono riusciti a identificare in modo serio la qualità delle sfide, quali criteri hanno elaborato per produrre soluzioni, che reazione hanno suscitato le soluzioni suggerite.
    Ci interessa, insomma, il modo con cui ha saputo misurarsi con le sfide. In questo la comunità apostolica ha di sicuro qualcosa da suggerire anche a noi, gente che vive duemila anni dopo i fatti raccontati nel libro degli “Atti”.

    Il problema

    Incominciamo a scoprire quale sia il problema che ha messo in crisi la comunità apostolica.
    Per operare in modo serio, incominciamo dai fatti e poi cerchiamo di interpretarli, mettendo a frutto quello che ci dice il testo degli “Atti” e il contesto culturale che fa da cornice e, in qualche modo, anche le nostre sensibilità.
    Il racconto degli “Atti” descrive il problema in tutta la sua gravità, capace di suscitare dispute accese, tensioni e sospetti. Ci si chiedeva: coloro che si decidevano per la fede cristiana e non provenivano dal mondo giudaico, dovevano vivere sottoposti alla legge di Mosè? I punti scottanti erano soprattutto due: la pratica della circoncisione e l’astinenza da certi tipi di carne. La soluzione non era facile.
    Questo è quello che appare a prima vista.
    A monte però c’era una grave questione cristologica: Gesù è il salvatore, l’unico nome su cui ottenere la salvezza. Basta da solo… o ci vuole qualcosa d’altro? Mosè, le tradizioni, il rispetto e l’osservanza delle leggi, sono una condizione indispensabile aggiuntiva? Tutti erano d’accordo nel riconoscere la centralità assoluta di Gesù per la salvezza; si rendevano pienamente conto che la sua mediazione salvifica poteva essere incrinata se subentravano altre esigenze concorrenti. Era però difficile decidere la portata concreta di questo orientamento di fondo.
    Scavando un poco su questa situazione, ho l’impressione che ci sia qualcosa di ancora più impegnativo. Un poco alla volta passiamo così da problemi… vecchi a questioni di vivissima attualità.
    Se si discute sulla circoncisione o sulla sua abolizione, andiamo solo al passato. Se ci si chiede fino a che punto i discepoli di Gesù hanno il coraggio di riconoscere che la salvezza è dono gratuito di Dio in Gesù, non assicurabile né garantibile attraverso altre mediazioni… siamo già precipitati nel nostro oggi. Ma c’è ancora molto di più.
    I primi discepoli avevano la convinzione – incoraggiata da molte testimonianze – che i tempi fossero ormai brevi e la venuta del Signore fosse imminente. Si trovavano a vivere il presente con la coscienza della sua relatività e provvisorietà.
    In una situazione come questa, era proprio sciocco porsi dei problemi che sarebbero stati presto travolti dal futuro alle porte. Con questa consapevolezza, sapevano di essere costretti a scegliere le cose che contano, lasciando tra parentesi tante cose inutili o, almeno, marginali.
    E invece i tempi si allungano: il presente si stava facendo ampio, impegnativo, traboccante di incognite, punteggiato da una serie di urgenze ormai indilazionabili. Erano abituati, da buoni ebrei, a guardare il presente dalla prospettiva del passato. Avevano fatto una conversione radicale di mentalità per guardare il passato e il presente dalla parte del futuro… E adesso sono costretti a misurarsi con un presente che spinge quasi a dimenticare passato e futuro.
    La faccenda è teologica… perché il presente è il luogo del regno di Dio che sta realizzandosi nel tempo, come il piccolo seme diventa albero grande.
    Come vivere il regno di Dio tra ricordo, attesa, impegno?
    Non ne facevano una questione teorica. Era tutta pratica concreta. Se la ponevano non prima di tutto per loro, buoni ebrei, felici di esserlo. Nasceva nei confronti dei nuovi discepoli, che non venivano dall’ebraismo e non erano certo disposti a far coincidere la decisione per Gesù con l’inserimento in tradizioni religiose e culturali… che non godevano di una gran bella fama.
    Qualcuno tra i nuovi convertiti e, persino tra i vecchi ebrei, incominciava persino a formulare la questione anche in termini teorici. Se era proprio indispensabile diventare ebrei per riconoscere Gesù… è tanto grande l’esito che si è disposti a passare attraverso questa porta stretta… una specie di perla preziosa per conquistare la quale vale la spesa perdere tante altre cose. Gesù l’aveva detto e la sua parola confortava. Ma se, in ultima analisi, non era così indispensabile? Nella trama complicata di un presente che non accenna a finire, le questioni affiorano, senza pietà.
    Due risposte si scontravano.
    Qualcuno sosteneva che era necessario chiedere a tutti, soprattutto ai nuovi convertiti, di diventare, come loro, dei buoni Ebrei. Qualche altro suggeriva invece di bypassare l’ebraismo e le altre esperienze religiose, proprio come gesto pieno di fede in Gesù.
    Possiamo sorridere sulla questione della circoncisione, come cosa ormai superata… Ma la questione della scansione tra passato, presente e futuro, dell’impegno per il regno di Dio e delle condizioni, anche di natura etica, per dichiarare con i fatti che solo Gesù è il Signore… tutto questo ci riguarda da vicino.
    I problemi dei primi cristiani sono davvero anche i nostri: non nella forma, ma di sicuro nella sostanza.

    Intermezzo: l’atteggiamento dell’autorità costituita

    Il problema va risolto. E in fretta. Ne capitano di troppo inquietanti per lasciare andare avanti le cose senza intervenire. Non era vero, allora come oggi, che il tempo guarisce le ferite.
    Chi lo può risolvere?
    Gli “Atti” spalancano una finestra su un modo di gestire la comunità, che dà davvero da pensare.
    Tre movimenti si intrecciano, come le note di una sinfonia riuscita.
    Prima di tutto i cristiani si appellano all’autorità. Vanno da Pietro e dagli Apostoli e sottopongono ad essi la questione. La vita della comunità ecclesiale non è orientata dai pareri illuminati degli esperti, ma dalla responsabilità apostolica di quei fratelli cui Gesù ha consegnato il compito di guidare la comunità nell’unità verso la verità.
    Pietro e gli Apostoli non decidono da soli, chiudendo porte e finestre sulla realtà per non essere disturbati. Al contrario, convocano l’assemblea. Inventano il Concilio… la grande assemblea dei discepoli di Gesù, affidata allo Spirito, per ascoltare assieme la sua voce e trovare assieme le vie per realizzare il suo progetto nel tempo.
    L’assemblea di Gerusalemme (il primo Concilio, come mi piace dire) non è un’accozzaglia di pareri, dove gode di ascolto chi grida di più o riesce a influenzare più astutamente le decisioni degli altri. Si tratta di un’assemblea “gerarchicamente costituita”. È guidata da Pietro. In essa parlano prima di tutto gli Apostoli. Il documento conclusivo è firmato dallo Spirito santo e da “noi” (Pietro e gli Apostoli).

    I criteri per affrontare e risolvere i problemi

    Torniamo al problema e alla sua soluzione.
    Il racconto degli “Atti” ci consegna un contributo bellissimo a proposito dei criteri proposti per affrontare e risolvere i problemi. Questo davvero supera date e questioni aperte, per arrivare fino a noi in tutta la sua freschezza carismatica. L’assemblea di Gerusalemme non cerca di spezzare un capello in quattro, raffinando analisi e documentazioni. Neppure cerca quel tanto di compromesso che assicura l’unanimità sul minimo. Propone, al contrario, una conclusione innovativa attraverso una criteriologia di verifica assai originale.
    Pietro racconta la sua esperienza… quell’avventura stranissima di cui è stato protagonista a Giaffa. La riporto.
    “Il giorno dopo, […] Pietro salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare. Gli venne fame e voleva prendere cibo. Ma mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi. Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In essa c’era ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: Alzati, Pietro, uccidi e mangia! Ma Pietro rispose: No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo. E la voce di nuovo a lui: Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano.
    Questo accadde per tre volte; poi d’un tratto quell’oggetto fu risollevato al cielo. Mentre Pietro si domandava perplesso tra sé e sé che cosa significasse ciò che aveva visto, gli uomini inviati da Cornelio, dopo aver domandato della casa di Simone, si fermarono all’ingresso. Chiamarono e chiesero se Simone, detto anche Pietro, alloggiava colà.
    Pietro stava ancora ripensando alla visione, quando lo Spirito gli disse: Ecco, tre uomini ti cercano; alzati, scendi e va’ con loro senza esitazione, perché io li ho mandati. Pietro scese incontro agli uomini e disse: Eccomi, sono io quello che cercate. Qual è il motivo per cui siete venuti? Risposero: Il centurione Cornelio, uomo giusto e timorato di Dio, stimato da tutto il popolo dei Giudei, è stato avvertito da un angelo santo di invitarti nella sua casa, per ascoltare ciò che hai da dirgli. Pietro allora li fece entrare e li ospitò. Il giorno seguente si mise in viaggio con loro e alcuni fratelli di Giaffa lo accompagnarono. Il giorno dopo arrivò a Cesarèa. Cornelio stava ad aspettarli ed aveva invitato i congiunti e gli amici intimi. Mentre Pietro stava per entrare, Cornelio andandogli incontro si gettò ai suoi piedi per adorarlo. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: Alzati: anch’io sono un uomo! Poi, continuando a conversare con lui, entrò e trovate riunite molte persone disse loro: Voi sapete che non è lecito per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra razza; ma Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo. Per questo sono venuto senza esitare quando mi avete mandato a chiamare (Atti 10, 9-30)”.
    Pietro, da buon discepolo di Gesù, che si riconosce pieno dello Spirito, sembra dirci: ascoltiamo i fatti; in essi parla lo Spirito, se ci lasciamo guidare da lui. Nel fatto citato lo Spirito dichiara, attraverso l’interpretazione autorevole di Pietro: “Dio che conosce il cuore degli uomini ha mostrato di accoglierli volentieri: infatti ha dato anche a loro lo Spirito Santo, proprio come a noi. Egli non ha fatto alcuna differenza fra noi e loro: essi hanno creduto e perciò Dio li ha liberati dai loro peccati”.
    Poi interviene un altro riferimento decisivo, frutto della sapienza di Pietro e di Giacomo… un altro di quei criteri che riesce a portare a decisioni di futuro, costringendo a schizzare fuori delle beghe intellettualistiche.
    Pietro e Giacomo propongono di spostare l’attenzione dai principi a quella esperienza normativa fatta da tutti loro stando con Gesù: la possibilità di sperimentare la bontà di Dio. Continuando la prassi di Gesù, bisogna far sperimentare agli uomini chi è Dio: il Padre buono e accogliente, che non chiede cose inutili, come invece fa chi comanda per il gusto di farsi obbedire. Non è possibile annunciarlo nella verità, se la parola proclamata viene poi accompagnata da una serie di pretese inutili, motivate sul compromesso e sulla paura.
    Sollecita a questa lettura di Atti 15 la meditazione delle pagine di commento che Paolo ha indirizzato ai Galati (Gal 5).
    Ritorna lo stesso tema. Paolo riprende la conclusione dell’incontro di Gerusalemme: la coscienza della grande libertà cui Gesù ci ha chiamati e la raccomandazione di astenersi dalle carni sacrificate agli idoli. Il documento conclusivo proponeva questo impegno a tutti i cristiani. Poteva sembrare il compromesso dell’ultimo momento, per accontentare anche le minoranze intransigenti. Paolo invece commenta in termini diversi la raccomandazione. Sa d’essere libero: può mangiare qualsiasi genere di carni, per la libertà cui Cristo ci ha liberati. Non può però usare della sua libertà come gesto di disprezzo e di offesa per il fratello più debole, che ne rimarrebbe male impressionato. La sua inesauribile libertà termina quando incomincia il dovere sommo della carità fraterna.
    Come posso annunciare il Dio di Gesù Cristo, come Padre buono e accogliente, se provoco il fratello nelle sue convinzioni più profonde, se lo metto in crisi nel nome della maturazione che ho acquisito? La logica è la stessa di Giacomo. Paolo la porta alle conseguenze più radicali. Per risolvere i problemi pastorali che la comunità cristiana è chiamata ad affrontare lungo lo sviluppo della sua storia, il criterio è quello rivelato nella prassi di Gesù: l’esperienza che il Dio di Gesù è un Dio per l’uomo.

    Una decisione che suscita gioia

    Con premesse teologiche di questo respiro non meraviglia per nulla la reazione suscitata dal documento conclusivo, inviato alle comunità da cui erano nate le questioni.
    Lo dice il racconto degli “Atti”: “Tutti furono pieni di gioia, per l’incoraggiamento che avevano ricevuto”.
    La lettura del documento suscita gioia e speranza. La suscita in tutti. E non può essere che così. Non ci sono vincitori che gridano e vinti che si rammaricano.
    Capita raramente che non ci siano né vinti né vincitori, quando qualcuno è chiamato a dirimere una questione spinosa. E non basta neppure scegliere la via comoda del compromesso: esso avrebbe fatto diventare tutti perdenti con arrabbiatura da parte di tutti.
    Qui invece sono tutti vincitori, anche quelli che avevano fatto appello all’autorità degli Apostoli per confermare la loro decisione di far passare tutti sotto il gioco della legge mosaica.
    Hanno vinto tutti perché lo Spirito di Gesù ha restituito quella libertà a cui la morte e la resurrezione di Gesù ci aveva consegnato. Hanno vinto tutti perché la legge si è piegata all’unica grande legge, quella dell’amore, che Gesù ha affidato ai suoi discepoli per la vita e la speranza di tutti.
    Un modo di affrontare e risolvere i problemi come è quello vissuto al “Concilio” di Gerusalemme, scatena per forza gioia e responsabilità.
    E oggi?


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