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    Una pastorale giovanile alle prese con problemi nuovi?



    Riccardo Tonelli

    (NPG 2003-08-13) 


    I lettori affezionati possono facilmente constatare come questo dossier si collochi in una tradizione abbastanza consolidata, quella che spinge, con un ritmo biennale, Note di pastorale giovanile a fare il punto sulla situazione concreta della pastorale giovanile italiana, per suggerire priorità e strategie.

    I contributi degli anni precedenti sono stati graditi e, sulla voce di molti lettori, utili. Non pretendiamo di tracciare percorsi e neppure ci impalchiamo a chi la sa lunga e pretende di avere la chiave risolutiva dei problemi. Una sola preoccupazione anima la nostra riflessione: sollecitare e aiutare a “pensare”.
    Sembra un poco giù di moda l’impegno di pensare, in una stagione dove prevalgono le frasi ad effetto e dove molti, stretti da problemi gravi, cercano soluzioni facili e pronte, o sono disposti a consegnarsi a figure sicure e seducenti. E invece, proprio nella fatica di pensare immaginiamo possa risiedere la capacità di risolvere, in modo coraggioso e fedele, le difficoltà che incontriamo e l’abilità a trarre dal tesoro dell’esperienza cose vecchie e cose nuove.
    Aiutare a pensare significa cercare di dare un nome a quello che sta attraversando la nostra cultura, collegare eventuali elementi comuni e far intravedere linee di futuro da sperimentare e su cui scommettere. Aiutare a pensare comporta anche la presa d’atto delle cose grandi che hanno riempito il nostro vissuto, per non immaginare che tutto sia da inventare, come certamente nulla può essere ripetuto passivamente.
    Questa è la nostra pretesa. Per questo, a ritmi non programmati, Note di pastorale giovanile cerca di fare il punto sull’oggetto centrale del nostro servizio e della nostra passione.
    Le pagine che seguono hanno una storia alle spalle. Va ricordata per dare autorevolezza maggiore alle proposte e sollecitazione più ponderata all’invito a pensare.
    La redazione di Note di pastorale giovanile si compone di un gruppo di amici, esperti di diversi ambiti. Molti sono direttamente impegnati sul campo; altri, studiosi di differenti discipline, sono comunque molto attenti ai diversi vissuti ecclesiali. Ci troviamo una volta al mese per studiare assieme alcune grosse questioni. L’esito della riflessione redazionale viene rilanciato poi sulla rivista. Qualche volta è strutturato in dossier. Altre volte, come in questo caso, confluisce in un articolo di largo respiro.
    Quest’anno abbiamo dedicato diversi incontri a studiare la situazione della pastorale giovanile “alle prese con problemi nuovi”. Le ipotesi iniziali si sono progressivamente configurate. Sono nate nuove attenzioni. Sulle questioni più impegnative ci siamo confrontati per raggiungere accordi di massima.
    Non vogliamo certamente elaborare un documento programmatico, limato fino ad assicurare l’accordo persino sui particolari. La redazione indica le grandi direzioni di cammino. Poi qualcuno mette in gioco la sua sensibilità e competenza e riorganizza il tutto in uno studio: a più mani, nei casi dei dossier classici, a firma unica in altri casi.
    La responsabilità è dell’autore. L’ispirazione, le scelte, le prospettive sono della redazione.
    Tutto questo incoraggia e giustifica l’invito a pensare… per progettare una pastorale giovanile incarnata, coraggiosa e profetica.


    È pacifico, almeno per i lettori della rivista, che una riflessione sulla pastorale giovanile ha come ambito lo studio sui processi che permettono la proposta, il consolidamento e la personalizzazione dell’esperienza cristiana nelle giovani generazioni. Sappiamo però che questa stessa preoccupazione può essere studiata da tanti punti di vista. E nessuno di essi può essere considerato quello decisivo.

    UNA INTESA “PREVIA” SULLA PROSPETTIVA

    In questa situazione di pluralismo va dichiarata la prospettiva in cui ci si colloca. È necessario, per correttezza di riflessione e, soprattutto, per assicurare la possibilità di condividere in modo serio qualcosa tra amici, che sanno essere critici anche su quanto può sembrare scontato e si lasciano provocare da quello che non condividono.

    Pierino e il latino

    Sulla vita cristiana sappiamo tutto o quasi: abbiamo una lunga tradizione alle spalle e una rassegna ricchissima di modelli esemplari. È sufficiente fare riferimento a questo materiale prezioso e concentrare la ricerca sul come intervenire per aiutare i giovani di questo nostro tempo ad interiorizzare questo progetto di vita, aggiungendo, al massimo, qualche attenzione ai processi psicoeducativi che riguardano l’acquisizione di informazioni e l’abilitazione a comportamenti coerenti?
    Se questo fosse il problema principale, la ricerca riguarderebbe soprattutto il metodo. Si potrebbe paragonare anche questa questione a quella classica del far apprendere il latino al Pierino di turno. Prima sembrava decisivo solo conoscere bene il latino. Poi qualcuno ha aggiunto la necessità di conoscere anche Pierino. Oggi gli esperti del settore ricordano l’urgenza di attivare procedure di apprendimento corrette. Pochi si chiedono cosa ha fatto di male il povero Pierino per essere costretto ad imparare il latino…
    Per non ridurre il processo ad una indebita intrusione nella vita dei giovani (giustificata da amore e buona volontà finché si vuole…), la ricerca sul consolidamento della vita cristiana va collocata ad un livello diverso.
    Dove vogliamo arrivare? Cosa desideriamo consolidare, per dichiararci soddisfatti dell’impresa? Quale giovane sogniamo, per poter dichiarare “questo è un giovane che vive veramente la sua fede cristiana in modo autentico e maturo”?
    Altri interrogativi riguardano qualcosa che sta più a monte ancora.
    La questione della pastorale giovanile interessa solo noi educatori o, in qualche modo, desta interesse anche nei giovani stessi? Certamente, si tratta di una esigenza che riguarda la qualità oggettiva del processo di maturazione della fede. Viene vissuta dai giovani come una loro reale esigenza o, almeno, può essere progressivamente maturata in una reale esigenza soggettiva? E in che modo?
    In una stagione come è la nostra, in cui appare dominante la tendenza verso l’autonomia e l’indipendenza, dichiarare che si tratta di una cosa necessaria e, in qualche modo, oggettiva, non produce grandi convincimenti e entusiasmi. Sono entrate in crisi, infatti, le pretese oggettivistiche, quelle che danno riferimenti e suggerimenti che dovrebbero funzionare da norma e da criterio di valutazione di tutto. Alla “cosa in sé”, al dato sicuro e certo, viene sostituito il “per me”. La categoria della tolleranza o del rispetto della diversità diventa principio che distingue tra ciò che è bene e ciò che è male. È interessante constatare quanto questa mutazione progettuale non sia più considerata un cedimento (come la consideravano i modelli culturali che ci sono stati consegnati), ma una crescita in umanità, un cammino obbligato verso la libertà e la pienezza di vita e di responsabilità.

    Un percorso diverso per convincere Pierino a studiare il latino…

    Gli interrogativi appena ricordati pongono il problema. Non ho però intenzione di affrontarlo ora. Lo riprenderò in seguito. Mi sta a cuore, in questo momento, indicare la prospettiva in cui invito a pensare.
    Chi cerca un punto di confronto che renda possibile un dialogo che interpelli tutti i giovani e sia realizzato parlando lo stesso linguaggio, deve partire dall’unico riferimento davvero comune: la vita quotidiana e la ricerca di felicità.
    Di qui possiamo partire… per risolvere la questione del latino e di Pierino o, fuori metafora, per interrogarci su come i giovani percepiscono il bisogno di personalizzare la loro fede.
    Sappiamo quanto la maturità e l’autenticità dell’esperienza cristiana siano oggi minacciate proprio dal modo con cui viene compresa e vissuta la vita. La qualità della vita condiziona infatti la qualità dell’esperienza religiosa. Lo diciamo a proposito della crisi vocazionale in atto, del clima di permissivismo esasperato che i giovani respirano, della difficoltà a prendere decisioni coraggiose e stabili… solo per citare i casi più ripetuti.
    L’alternativa non è tra esperienza cristiana e qualità umana di vita. Sarebbe una falsa alternativa, perdente in partenza in una stagione che fa brillare la felicità come un diritto inalienabile, nel presente e nello sperimentato. L’alternativa è più drammatica: tra vivere una vita matura e piena, in una solidarietà che attraversa l’avventura dell’umanità nella storia di tutti, e rinunciare per lasciarsi vivere nel disimpegno e nella disperazione.
    Prima della questione sulla vita cristiana sta, dunque, come interrogativo di fondo che la richiama, la invoca e in qualche modo la esige, la questione più radicale della vita e del suo senso. Cosa è vita? Quale esperienza di vita è autentica, pienamente e radicalmente “mia”, degna di essere accolta, vissuta, amata e offerta?
    A chi sceglie l’autenticità possiamo proporre l’incontro con Gesù, unico nome in cui essere nella vita.
    Questa è la prospettiva in cui ci riconosciamo. Ce ne sono altre, certamente. Tutte hanno una loro ragion d’essere e, forse, nel confronto la ricerca sulla pastorale giovanile e la proposta di un progetto nuovo possono veramente avanzare e consolidarsi.

    ALLO SPARTIACQUE TRA MONDI DIVERSI

    Non posso, certo, in questo contesto tracciare la storia recente della pastorale giovanile. Racconterei quello che molti di noi hanno vissuto e evocherei, troppo sveltamente, fatti che i lettori più giovani ignorano.
    Voglio solo mostrare come quei modi di fare nei quali oggi ci impegniamo con passione o sui quali oggi discutiamo con accanimento, hanno radici comuni, ma non basta di certo tornare ad esse per avere soluzioni sicure.
    Il patrimonio comune è esploso sotto la pressione dei cambi culturali. I diversi modelli teologici e antropologici, frutto nella Chiesa del clima conciliare, le differenti esperienze che hanno segnato gli operatori di pastorale giovanile, il fascino di leaders e di movimenti, il bisogno di rispondere a situazioni nuove… hanno prodotto dei modi di fare pastorale giovanile originali e assai poco convergenti.
    Troppe volte ci siamo ignorati reciprocamente o abbiamo portato lo sguardo sui limiti più appariscenti di chi non era del nostro giro. Questo ha prodotto ricchezza progettuale, anche se ha aperto nella Chiesa una stagione di pastorale giovanile “alla carta”.
    Ora, i problemi sono tanto urgenti che è tempo di convergere nella diversità e di raccogliere stimoli e suggerimenti da tutte le frontiere. In questo contesto non voglio dire né cosa né come. Qualche accenno lo farò in seguito. Voglio solo ricordare quello che abbiamo vissuto, quando si lavorava assieme e quando le strade si sono separate, per dare al tutto uno sguardo disincantato e critico.

    Erano davvero felici i “bei tempi”?

    Da sempre la comunità ecclesiale ha fatto cose speciali per i giovani. Basta pensare all’ambito dell’educazione (scuole cattoliche) e a quello degli spazi di aggregazione (oratori, sport, catechesi…).
    Il fatto è innegabile e chiunque ama i giovani e vuole servire la loro vita deve esserne fiero. Anche il giudizio di valutazione deve prendere atto di sensibilità e attenzioni molto diverse da quelle attuali.
    Non credo però sia corretto considerare quei tempi… come tempi felici, di cui avere nostalgia e per la cui riproduzione oggi impegnarsi.
    In genere si trattava infatti di un’attività circoscritta e realizzata in ambienti protetti, affidata quasi in esclusiva ad addetti ai lavori. E, inoltre, tolte poche eccezioni, l’attenzione riguardava i giovani “presenti” o avvicinabili con qualche iniziativa. La dimensione missionaria verso tutti era abbastanza scarsa.
    Un altro fatto non possiamo dimenticare, facendo memoria di quei tempi.
    L’attenzione alla pastorale giovanile era abbastanza ristretta e l’interesse verso i giovani passava in secondo piano, per far posto da una parte al mondo dei fanciulli e dei preadolescenti, e a quello degli adulti, dall’altra.
    Nei documenti ufficiali del Magistero episcopale italiano si parla pochissimo della pastorale verso i giovani. La ragione è presto detta: in genere la tendenza ufficiale portava a far coincidere la pastorale giovanile con la vita associativa, in modo speciale con l’Azione Cattolica o, al massimo, con l’associazionismo ufficiale, con la conseguenza di leggere in quest’ottica ristretta le crisi e le soluzioni.

    La svolta del Concilio

    Il Concilio Vaticano II, pur essendo un grande concilio “pastorale”, non ha detto nulla di speciale sulla pastorale giovanile. Ha posto però premesse importantissime per il rinnovamento pastorale in genere e per dare una collocazione specifica alla pastorale giovanile. Una di queste è la consapevolezza di trovarsi come allo spartiacque di due mondi.
    Conosciamo tutti la dichiarazione di Gaudium et spes: “Le condizioni di vita dell’uomo moderno, sotto l’aspetto sociale e culturale, sono profondamente cambiate, così che è lecito parlare di una nuova epoca della storia umana” (GS 54).
    La constatazione sul cambio epocale non rappresenta l’unico contributo del Concilio alla pastorale giovanile. Molti altri aspetti vanno ricordati per raccogliere il contributo del Concilio al rinnovamento della pastorale giovanile.
    Essi fanno parte del nostro vissuto e ci aiutano a interpretare i germi preziosi di vita cristiana rinnovata che stanno alla base del rinnovamento della pastorale giovanile, scaturito, almeno indirettamente, dal Concilio stesso.
    Per esempio:
    • la rinnovata figura di Chiesa, che ha sollecitato ad una partecipazione più ampia, ad una vicinanza più intensa nei confronti delle situazioni di vita, ad una esigenza irrinunciabile di corresponsabilità;
    • la messa in discussione di molte strutture ecclesiali (di aggregazione e di attrazione giovanile… quelle in cui normalmente veniva realizzata la pastorale giovanile) sotto la spinta della necessità di riconoscere nella “vita quotidiana” (anche a livello strutturale) il luogo privilegiato dell’esperienza cristiana;
    • la crisi dell’associazionismo tradizionale (istituito e “discendente”) e il contemporaneo emergere di un associazionismo spontaneo, legato agli interessi e/o agli impegni (la riscoperta dell’impegno politico come espressione della carità teologica), fino alla contestazione dei modelli dominanti verso l’invenzione di nuove modalità ecclesiologiche (le comunità di base…);
    • alla radice di questo sta il profondo rinnovamento teologico, di cui alla pastorale giovanile sono giunti soprattutto gli esiti: spiritualità, salvezza, mistero di Dio, centralità cristologia…;
    • la riappropriazione dei momenti e degli strumenti della vita cristiana: dalla scoperta della Bibbia e della Liturgia… alla crisi dei modelli tradizionali di partecipazione sacramentale e di esperienza etica…;
    • la grande ventata del rinnovamento liturgico che ha investito soprattutto la celebrazione eucaristica (molto meno il sacramento della riconciliazione… quasi affatto gli altri sacramenti…), legato alla esperienza biblica (recuperata nella preghiera personale e comunitaria e nella riflessione personale e di gruppo… con una certa selezione);
    • la grande esperienza di libertà, come qualità della vita cristiana, collegata ad atteggiamenti di solidarietà che diventa responsabilità (e si esprime in gesti i più disparati: dall’impegno politico, al volontariato, al servizio, alla sensibilità ecologica…);
    • in modo riflesso nelle frange più attente e colte, la forte “coscienza ermeneutica”, legata alla riscoperta dell’evento dell’Incarnazione, che ha portato a fare i conti, in modo critico, con la cultura e ad assumere l’esistente come una specie di grande luogo teologico (la vita).

    Finalmente la pastorale giovanile diventa questione ecclesiale

    Nella Chiesa italiana i fatti appena ricordati hanno prodotto – con tempi innegabilmente lunghi e con incidenze pratiche non facilmente verificabili – cambi profondi nell’azione pastorale ecclesiale. La pastorale giovanile ne ha guadagnato in qualità e in incidenza.
    Si sono moltiplicati studi, convegni, pubblicazioni, sulla pastorale giovanile. Da questione ridotta al cerchio ristretto degli addetti ai lavori, la pastorale giovanile è diventata una questione veramente ecclesiale. Ogni diocesi si è data una sua organizzazione, favorendo di conseguenza l’attenzione e il coinvolgimento di tante persone.
    Sul piano degli orientamenti di fondo si è passati da una pastorale giovanile attenta agli ambienti specializzati della vita dei giovani (oratori, gruppi, associazionismo, scuole cattoliche…) ad una pastorale giovanile spalancata sulla vita concreta e quotidiana dei giovani. La pastorale giovanile è diventata “di vita quotidiana”, allargando interessi e prospettive sulla misura della vita reale… fino a mettere qualche volta in crisi coloro che erano abituati a gestirla in proprio, nelle strutture specializzate.
    Anche a livello ufficiale, di Conferenza Episcopale Italiana, le cose sono cambiate profondamente.
    Come ho già ricordato, i documenti prima degli anni 90 ignoravano la questione o, al massimo, tendevano a far coincidere pastorale giovanile con associazionismo, interpretando la sua crisi e le sue riprese con la situazione dei gruppi istituzionali e dei movimenti. Il convegno ecclesiale di Palermo ha segnato una svolta radicale. E così, nei documenti successivi (si veda per esempio la nota CEI “Evangelizzazione e testimonianza della carità” del 1990 che contiene indicazioni molto belle e concrete) è diventato un denominatore comune qualche paragrafo dedicato esplicitamente ad una pastorale giovanile aperta a tutti i giovani nei loro ambienti di vita.
    Non è possibile dimenticare tutto quello che le GMG hanno significato per la pastorale giovanile. Non è stata certamente solo un’avventura di entusiasmo e di novità. Là dove sono stati presenti educatori attenti, le GMG hanno segnato un rinnovamento della pastorale giovanile, sul piano della missionarietà, del coinvolgimento, dell’approfondimento.
    Vanno poi ricordati, ancora a questo proposito, il coinvolgimento dei laici nella realizzazione della pastorale giovanile e la intensa rinascita di gruppi, movimenti, associazioni che hanno saputo riorganizzare e rivitalizzare l’azione pastorale della Chiesa e delle diverse istituzioni religiose.

    E oggi? La pastorale giovanile tra crisi e sfide

    Oggi siamo in una stagione nuova e abbastanza originale. Molti sono impegnati a consolidare quello che è stato costruito. Altri lo mettono in discussione per i motivi i più diversi.
    La Chiesa italiana ha riscoperto, per esempio, che la responsabilità della comunità non è delegabile, nemmeno quando si constata la sua incapacità a dialogare con i giovani. Si approfondisce la convinzione che un principio forte di rinnovamento ecclesiale sta proprio nel caricare la comunità, nel suo insieme, dei compiti che non sono delegabili.
    Viene inoltre riaffermata la funzione insostituibile degli adulti e delle famiglie (anche se in crisi…), nell’ambito dell’educazione dei giovani e della pastorale. Questo aiuta a superare le così dette “pastorali del genitivo”, per ritrovare la costitutiva unità della pastorale.
    La contestazione nei confronti dei modelli di pastorale giovanile, pensati troppo all’insegna del tempo libero o delle istituzioni tradizionali, scaturisce dalla coscienza di doversi decisamente impegnare in una rinnovata assunzione di responsabilità sociali e politiche. Viene superata la strumentalizzazione o la divisione di ambiti per recuperare la qualità: possiamo parlare di Gesù, Signore della vita, solo restituendo vita (e possibilità concreta) a chi ne è privo.
    L’attenzione alla vita concreta produce, inoltre, come conseguenza, il superamento delle distinzione classica tra “vicini” e “lontani” e una valutazione diversa sulle attese e sulle domande dei giovani.
    Sta emergendo, a livello giovanile e in molti operatori di pastorale giovanile, una forte riscoperta e esperienza di spiritualità e delle espressioni conseguenti (preghiera, confronto con la Parola di Dio, vita sacramentale…).
    Proprio questa mentalità, nuova e coraggiosa, sta facendo germinare, qua e là, interrogativi originali e provocanti.
    Alcuni di essi riguardano il senso e la ragione di una pastorale giovanile come azione specializzata della comunità ecclesiale, in una stagione in cui emerge con forza la coscienza della globalità.
    Ci si rende conto che è scelta rischiosa quella che affida i compiti ad alcuni educatori specializzati, invece di caricare adulti e comunità, ecclesiali e civili, delle proprie responsabilità. Tra l’altro questa strana divisione del lavoro potrebbe allargare ulteriormente le tentazioni giovanilistiche, emergenti nella cultura attuale.
    Altri interrogativi sono più radicali. Di fronte a cambi culturali che hanno capovolto punti di prospettiva che sembravano intangibili, qualcuno si chiede: siamo ancora attuali?
    Come riusciamo a confrontarci seriamente con i modelli culturali, diffusi e dominanti oggi (una forte tendenza alla soggettivizzazione e all’esperienzialismo anche in ordine al vissuto religioso, la crisi di fondazione e di consapevolezza riflessa sul significato, il contenuto, la prospettiva dell’esperienza cristiana, il presentismo esasperato, che ignora il passato e guarda con incertezza verso il futuro…)?
    Al di sopra di ogni discussione resta però un dato che dà da pensare.
    Oggi, molte ricerche documentano l’incidenza delle grandi convocazioni giovanili (con tutte le esperienze collegate) e dell’approfondimento del senso di appartenenza ecclesiale assicurato attraverso di esse, in ordine alla maturazione e personalizzazione della fede. Il divario tra giovani appartenenti e non appartenenti, in ordine all’identità cristiana e all’impegno ecclesiale, a differenza di quanto si poteva constatare solo qualche anno fa, si è decisamente consolidato e allargato, anche se in molti altri ambii dell’esistenza si può constatare una specie di attraversamento trasversale di idee e di comportamenti.
    Non basta però affermare l’urgenza di una pastorale giovanile specializzata, come non basta metterla in discussione per le stesse ragioni che portano ad affermarla.
    Si tratta, invece, di cogliere, in modo attento e riflesso, quali sono le sfide con cui è chiamato oggi a misurarsi chiunque si impegni nell’affascinante missione di annunciare ai giovani il Signore Gesù, nella comunità ecclesiale.
    La constatazione dei profondi cambi culturali in atto e dei relativi cambi teologici e antropologici che ne danno risonanza, sollecita a verificare su quali provocazioni siamo chiamati a misurarci, a quali urgenze siamo sollecitati a dare priorità, come possiamo interpretare il grido, quello esplicito e quello spesso solo sofferto, che sale dal mondo giovanile.
    La consapevolezza di essere, oggi più che mai, come allo spartiacque di due mondi, chiede a chi si impegna nella pastorale giovanile non solo di decidere da che parte stare (la cosa è semplice e la scelta è facile…), ma soprattutto come ripensare il progetto che ci è affidato e di cui non siamo proprietari, per restituire ad esso la forza di bella notizia per la vita e la speranza di tutti.
    Questo è, in fondo, il drammatico problema di oggi.

    LE RISORSE CHE IL RECENTE VISSUTO CI CONSEGNA

    In questi anni il cammino della pastorale giovanile italiana è stato certamente molto ricco. Disconoscerlo o dimenticarlo significa chiudere gli occhi sulla realtà o lasciarsi sedurre solo dalle proprie tristi nostalgie.
    Di fatti se ne possono elencare moltissimi, per documentare l’affermazione.
    Mi sembra più urgente fare la fatica di interpretarli, nelle loro dimensioni più significative, per cogliere qualcosa che possiamo assumere come patrimonio prezioso, costruito assieme, da consegnare a chi è chiamato a continuare la stessa affascinante avventura.
    Nella ricerca redazionale che sta alla radice dell’attuale proposta, abbiamo chiamato l’elenco “un indice di punti di non ritorno”, proprio per la convinzione che il vissuto ecclesiale di questi anni ci regala dei riferimenti preziosi, che non possiamo disattendere anche in vista di un rinnovamento e di un impegno verso il futuro. Non tutti saranno d’accordo sull’elenco… ma questo è il nostro punto di vista.
    Su questi temi è sufficiente indicare qualche battuta di richiamo. Note di pastorale giovanile, consapevole della importanza, ha dedicato in questi due anni una rubrica, per riprendere e approfondire molti di essi, in vista della maturazione di questa visione globale negli operatori di pastorale giovanile.

    La fiducia sull’educazione

    La comunità ecclesiale ha vissuto sempre un rapporto privilegiato con l’educazione. I segni di questo atteggiamento di fiducia verso l’educazione li conosciamo tutti:
    • la funzione propositiva e autorevole degli adulti;
    • la fiducia verso strutture educative, cariche di capacità aggregativa e protettiva;
    • la sicurezza verso la meta del processo;
    • una certa soffusa strumentalizzazione dei processi educativi in ordine alla educazione alla fede.
    Le logiche di fondo erano quelle tipiche dei modelli teologici e antropologici, presenti prima del rinnovamento conciliare. Così la pastorale considerava l’educazione soprattutto in modo funzionale. I giovani venivano facilmente valutati come un “problema” da affrontare e risolvere, orientandoli nella direzione delle risposte.
    L’intreccio tra cambi culturali e orientamenti teologici e pastorali proposti dal Concilio ha modificato decisamente il rapporto tra azione pastorale e educazione.
    È cambiata la figura stessa di educazione. Soprattutto ci si è resi progressivamente conto della indisponibilità dei modi di fare tradizionali in vista del raggiungimento degli obiettivi che stavano a cuore.
    I giovani, almeno a fatti, non si sono rassegnati ad essere considerati “problema”, perché diversi rispetto alle attese degli educatori e delle istituzioni; e hanno concretamente preteso di avere qualcosa da prospettare, proprio in ragione della diversità. Sono diventati “risorsa”, proprio nella loro originalità.
    Molti adulti sono precipitati in una crisi di ruolo, che li ha confinati in un atteggiamento di silenzio rassegnato.
    Anche le istituzioni, abitualmente responsabili della proposta di senso e di valori, hanno perso di credibilità e di incidenza.
    L’educazione è entrata in crisi, facendo ricadere sulla pastorale la propria crisi.
    Eppure, mai come oggi, l’attenzione verso l’educazione rappresenta una base consolidata del fare pastorale giovanile, un luogo privilegiato dell’azione pastorale. Note di pastorale giovanile assume e rilancia questa posizione.
    Certo, questo chiede di ripensare a fondo la figura di educazione. E noi abbiamo lanciato con passione l’animazione, come modo concreto di fare educazione.
    Richiede una sua precisa collocazione nel rapporto con la pastorale e le sue esigenze specifiche. E così abbiamo parlato di attenzione all’educazione in un ambito “indiretto” rispetto alla maturazione della fede: per creare le condizioni che permettano ai giovani di apprezzare la proposta di fede e di integrarla nella loro struttura di personalità.
    Recentemente si è anche individuato un ambito preciso di confronto e di dialogo tra educazione e pastorale: quello della qualità della vita. All’educazione compete immaginare una figura di qualità di vita, sostenere la sua praticabilità e assicurare la possibilità di sperimentarla. La fede si inserisce dentro questo terreno propizio, lo ispira nelle incertezze della ricerca e lo porta a pienezza nella logica sconvolgente della pasqua del Signore risorto.

    Il modello ermeneutico

    È importante il confronto con la tradizione… ma non è sufficiente. Molti elementi vanno ricavati con coraggio anche dal presente, sapendo fare opera di discernimento. La meditazione dei Vangeli e della loro struttura storica ha spinto infatti a riconoscere nei documenti radicali della nostra esperienza cristiana la presenza continua di “fede” e “cultura”, di avvenimenti che sono tutti dalla parte di Dio che si fa vicino ad ogni uomo, e fatti, momenti, esperienze che sono la nostra storia e la nostra vita.
    Da questa constatazione cresce e si consolida quell’atteggiamento che in questi anni abbiamo chiamato ripetutamente “ermeneutico”.
    L’atteggiamento ermeneutico riguarda ogni processo comunicativo. Ha un peso notevolissimo quando in questione c’è la comunicazione della fede e il riferimento all’esperienza cristiana. Per questo esso riguarda intensamente proprio la pastorale e il suo compito fondamentale di evangelizzazione.
    Le parole pronunciate dall’evangelizzatore e quelle espresse da colui che accoglie o rifiuta la proposta, non sono in assoluto l’evento di Dio che si piega verso l’uomo e l’accoglienza (o il rifiuto) di questa offerta da parte dell’uomo. Sono sempre invece una realtà che tenta di rendere presente qualcosa che resta mistero insondabile e inverificabile.
    Da una parte, riconosciamo così che il segno, attraverso cui sveliamo il mistero di Dio e la decisione dell’uomo, è sempre di tipo culturale. Per questo è collocato in situazione di fragilità e, in qualche modo, di relatività. Dall’altra siamo spinti a dire il Vangelo di Gesù in una fedeltà che sa rinnovarsi, sotto le provocazioni dei cambi culturali. Non si tratta, infatti, di ripetere passivamente l’esperienza cristiana, ma di renderla vitalmente e comprensibilmente presente in altre culture.
    Oggi il compito è particolarmente urgente e impegnativo, visto che viviamo in una stagione di larga multiculturalità, gomito a gomito con persone e storie che vengono da lontano rispetto ai nostri modelli e, nella loro diversità, sono portatrici di istanze e di provocazioni preziose per la nostra esistenza.
    Non possiamo di sicuro ridurre il processo di evangelizzazione ad un semplice gioco linguistico la cui forza è legata alle mille sottili astuzie del nostro quotidiano conversare. La potenza dello Spirito rende questa “parola” capace di suscitare ed esprimere la fede. Tutto avviene però sotto il segno della “sacramentalità”: quello che si vede, si sente e si costata rivela (e, nello stesso tempo, nasconde: “ri”-vela) la realtà misteriosa di cui è segno. Lo fa nella trama delle logiche umane quotidiane cui ha deciso di non sfuggire neppure la parola di Dio.
    Tutto questo riempie ogni azione e riflessione pastorale di un’esigenza qualificante: alla comunità ecclesiale e ad ogni evangelizzatore si richiede uno stile assai originale di “fedeltà”. L’atteggiamento ermeneutico (e il conseguente sospetto ermeneutico) rifiuta ogni figura di fedeltà che cerchi di riprodurre nel presente quello che abbiamo accolto dal passato. Questo modo di fare, che assomiglia eccessivamente alla ripetizione, è poco saggio e molto pericoloso, perché pone sullo stesso piano l’evento e le espressioni culturali in cui esso si rende presente.
    L’atteggiamento da assumere è assai diverso: una profonda azione di discernimento, da attuare nella comunità ecclesiale e sotto la guida autorevole di coloro che nella comunità hanno il ministero di condurci nell’unità alla verità, per guardare con coraggio in avanti profondamente radicati nel passato, alla ricerca di parole e gesti che risuonino nel presente come “buona notizia” per la vita e la speranza di tutti.

    Riaffermare l’annuncio ripensandolo coraggiosamente

    Qualcuno ha accusato la pastorale giovanile degli anni Novanta di essere poco attenta all’annuncio.
    Il giudizio è poco generoso, anche se siamo concordi nel riconoscere la necessità di ritrovare il coraggio di un annuncio, chiaro e forte.
    L’alternativa non è tra il silenzio e un certo modo di evangelizzare. L’alternativa è di sostanza: riguarda la qualità e l’intenzione e, di conseguenza, la modalità comunicativa. In questi anni si è lavorato molto su queste frontiere. Rilanciamo l’urgenza dell’annuncio, ricordando il cammino percorso e consolidato.

    La qualità

    In questi anni molta attenzione è stata concentrata sulla verifica della qualità dell’annuncio, per assicurare alla proposta dell’esperienza cristiana la capacità di risuonare come bella notizia, capace di entusiasmare e di restituire senso e speranza all’esistenza quotidiana.
    Abbiamo così studiato e sperimentato percorsi logico-comunicativi adeguati a comunicare la verità del Vangelo in modo significativo e credibile.
    Non sono mancate le difficoltà e le incertezze. Ora appare tanto consolidato da rappresentare un prezioso punto di non ritorno, nonostante i tentativi di riportare in primo piano nella evangelizzazione i modelli deduttivi e oggettivistici.
    I correttivi e l’integrazioni sono preziosi e, per alcuni aspetti, urgenti, ma all’interno di una logica comunicativa che privilegia l’esperienza come fonte di attenzione e di stupore.
    L’abbiamo espresso con una formula, che può funzionare come una specie di sintesi operativa:
    • modello comunicativo da evitare: “è vero → dunque ti deve interessare → se accogli la proposta, scoprirai quanto è bello…”;
    • modello comunicativo da sperimentare e realizzare: “è bello → dunque mi interessa → vediamo… se è anche vero → per me sta bene”.

    La centralità di Gesù

    Nella evangelizzazione, proprio in ordine alla vita, in questi anni è ritornata con forza la preoccupazione di assicurare sempre la piena e totale centralità di Gesù il Signore in ogni annuncio.
    Anche questo è un punto prezioso di non ritorno, da cui ripensare anche la preoccupazione contenutistica che ogni tanto giustamente riaffiora.
    Non può che essere così.
    La vita “piena e abbondante” (Gv 10, 10) è il riconoscimento della sovranità di Dio su ogni uomo e su tutta la storia, fino a confessare che solo in Dio è possibile possedere vita e felicità. Questo Dio, però, di cui proclamiamo la signoria assoluta, è tutto per l’uomo. Il credente è tanto consapevole di questa esperienza, da consegnare a lui la sua fame di vita e di speranza.
    Il Dio di Gesù è un Dio di cui ci si può fidare. Lo attestano le cose meravigliose compiute per il suo popolo e soprattutto quelle operate in Gesù.
    Dove appare lui, l’Uomo del Regno, scompare l’angoscia, la paura di vivere e di morire; ritorna la libertà e la gioia di vivere, nel nome di Dio.
    Per questa ragione narriamo sempre la storia di Gesù e quella della fede che la sua persona ha suscitato, secondo l’attuale esperienza ecclesiale.

    Lo stile: nella stessa struttura dei vangeli

    Precisato il contenuto ci siamo chiesti, in questi anni, “come” evangelizzare Gesù il Signore. La risposta nasce ancora dal confronto con il Vangelo.
    Ne è nata una esperienza e proposta che suggerisce di riportare nei processi di evangelizzazione la stessa struttura comunicativa dei Vangeli: la narrazione.
    I racconti evangelici non sono la cronaca degli avvenimenti che riguardano la persona di Gesù né, tanto meno, possiamo immaginare che i discorsi riportati siano il resoconto stenografico delle sue parole. Fatti e parole sono la trascrizione, in una ispirazione specialissima dello Spirito di Gesù, della esperienza di fede dei suoi discepoli. Fatti e parole non sono comunicati per informare su particolari sconosciuti, ma per suscitare nuove esperienze di fede.
    Per questo, i Vangeli sono, in ultima analisi, un documento tessuto di fede e di storia, pieno di avvenimenti documentabili e traboccante della vita concreta di chi scrive e di chi legge. Questo modello speciale di scrittura rende i Vangeli capaci di suscitare altre esperienze di fede, come è capitato all’inizio e continua a capitare nell’esistenza di tante persone.
    La preferenza verso i modelli narrativi ha portato a suggerire persino, per l’evangelizzazione dei giovani, una nuova struttura linguistica: l’“amorese” (la lingua in cui diciamo agli altri il nostro amore) al posto del “matematichese” (la lingua in cui siamo abituati a descrivere “scientificamente” le nostre conoscenze e i fatti impegnativi della nostra esistenza).
    La prospettiva è tutta da sperimentare e richiede l’elaborazione di modelli comunicativi e di sintesi contenutistiche che sappiano aprire verso la novità, senza smarrire le esigenze della sistematicità e della verità.
    Il compito è impegnativo, ma la prospettiva suggerisce uno dei punti di non-ritorno, ormai ricchi di letteratura, sul piano delle giustificazioni teoriche e delle proposte pratiche.

    L’appartenenza ecclesiale

    Il Concilio ha proposto una nuova affascinante figura di Chiesa, decentrata rispetto a pretese normative, verificata sulla condivisione della causa di Gesù, aperta verso una corresponsabilità anche pratica.
    La proposta è caduta in un terreno specialissimo:
    • soprattutto a livello dei giovani e degli educatori più attenti ha suscitato entusiasmo e voglia di sperimentare;
    • molti responsabili hanno prodotto resistenze, interpretazioni restrittive, tentativi di involuzione…;
    • l’entroterra culturale tipico della stagione che si stava vivendo, non ha favorito l’interiorizzazione pacata delle prospettiva… esacerbando le linee concrete di soluzione;
    • non era né diffuso né consolidato un modello formativo adeguato per sostenere e portare a maturazione l’entusiasmo. Infatti sono crollati in genere i luoghi dove tradizionalmente veniva realizzata l’iniziazione cristiana dei giovani.
    Oggi stiamo faticando non poco a immaginare e realizzare spazi nuovi, capaci di sostenere, incoraggiare, sollecitare l’interiorizzazione dell’esperienza cristiana a livello personale.
    Non possiamo però né rinunciare all’esperienza di appartenenza ecclesiale, solo perché spesso siamo sopraffatti dalle difficoltà, né rilanciare i modelli precedenti, come se nulla fosse capitato in questi anni e fosse sufficiente ritornare qualche capitolo all’indietro, per rendere nuovamente interessante la lettura del libro della fede e della vita.
    Quello dell’appartenenza ecclesiale, del suo significato e delle condizioni che ne assicurino l’esperienza, è un tema ancora da studiare. Non basta citare qualche affermazione solenne per risolvere le difficoltà. E neppure sono sufficienti a consolare coloro che si pongono seriamente dalla parte dei giovani, di tutti i giovani e dei più poveri prima di tutto, i risultati certamente interessanti suscitati dalle grandi manifestazioni ecclesiali di questi anni.
    Anni fa il gruppo rappresentava il luogo di partenza. Oggi potrebbe diventare soprattutto un obiettivo, anche se parziale, proprio in vista dell’appartenenza ecclesiale, della sua comprensione e della sua esperienza.
    Si richiede, nello stesso tempo, un grosso lavoro di ricostruzione educativa nei confronti degli spazi istituzionali di appartenenza, per restituire ad essi la capacità di intercettare la vita quotidiana dei giovani, senza diventare per questo luoghi di consumo di appartenenza e, in modo speciale, per restituire ad essi la funzione di “luoghi educativi”, per permettere che in essi si faccia autentica esperienza di Chiesa, capace di allargarsi verso le altre impegnative esperienze ecclesiali.

    Verso il futuro: qualche priorità

    Non ho nessuna intenzione di concludere questa lunga riflessione offrendo una proposta, precisa e articolata. Una proposta di questo tipo… non ha molto senso qui: essa verrebbe superata dalle trasformazioni in atto e da quelle che non riusciamo a prevedere, proprio nel momento in cui arriva al lettore. Ed è anche inutile, perché molte cose sono già state scritte sull’argomento, nella pagine della rivista e soprattutto da voci più autorevoli della mia. Basta riordinare i frammenti di tante cose suggerite per arrivare a qualcosa di completo e organico.
    Anche a nome del gruppo redazionale che ha pensato a questi temi, preferisco suggerire una specie di griglia di priorità, al cui interno configurare i progetti e riorganizzare gli interventi, verso una pastorale giovanile capace di ancorarsi saggiamente nella memoria del vissuto ecclesiale e di guardare in avanti senza nostalgie né rassegnazioni.
    Di priorità ne suggerisco cinque:
    • rilanciare la santità per i giovani d’oggi;
    • narrare fatti e parole di speranza;
    • ritrovare la responsabilità missionaria nella scelta vocazionale evangelica;
    • formare educatori per un mondo che cambia;
    • riaffermare l’urgenza del fare progetti: tra fantasia e strategie.
    Nello sviluppo di questi temi il lettore affezionato troverà molte cose già lette sulle pagine della rivista. Spero che non si annoi e si arrenda: ci sono suggerimenti nuovi e soprattutto vorrei che fosse… rinnovata almeno la prospettiva generale. A chi invece ha l’impressione di essersi infilato in un ginepraio, dove tante affermazioni non sono chiare… perché non è chiaro quello che ci sta a monte, gli chiedo il coraggio di allargare e organizzare la prospettiva di comprensione, ricorrendo ad altre pagine della rivista, dove questi temi sono sviluppati in modo più organico.
    Questo è il limite (e la funzione) del tentativo di una riflessione che cerca solo di fare il punto, per invitare soprattutto il lettore a pensare… con testa e cuore.

    RILANCIARE LA SANTITÀ PER I GIOVANI D’OGGI

    Da molte parti risuona forte l’invito alla santità. Ne sono destinatari i giovani: tutti i giovani e i giovani di questo tempo. Chi ne parla, riconosce di farsi eco coraggiosa alle parole esplicite del Papa.
    Come reagire a questo invito?
    Certamente non possiamo lasciarlo cadere, cercando giustificazioni rinunciatarie facili. Anche per la nostra rivista la raccomandazione è di grande profilo e corrisponde pienamente ad attese e sensibilità diffuse nel mondo giovanile attuale.
    La questione è un’altra, molto più impegnativa. L’invito sollecita la comunità ecclesiale ad impegnarsi nella ricerca di modelli e di esperienze di spiritualità e santità del nuovo millennio o riguarda solo l’invito a riproporre, con forza e coraggio, quello che fa parte del nostro patrimonio consolidato?

    Ridefinire la figura di giovane cristiano

    C’è una grossa questione su cui siamo chiamati a prendere posizione e su cui la comunità ecclesiale si gioca in direzione di futuro. Essa è l’altra faccia, quella concreta, dell’invito alla santità. Consiste nella definizione di una figura ideale di “giovane cristiano”.
    Chi si impegna nella pastorale giovanile ha in mente una meta globale: aiutare i giovani a diventare cristiani… ma che significa oggi vivere da cristiani come giovani? Cosa possiamo proporre a chi ci chiede cosa deve capitare nella sua esistenza, se decide di affidarsi pienamente al Signore Gesù, come un bambino nell’abbraccio di sua mamma?
    Il tema ne evoca moltissimi, a grappolo. Attraverso espressioni più tradizionali, si può parlare di santità, di esperienza religiosa matura, di stile globale di esistenza da cristiani. Ciò che fa problema non sono le espressioni utilizzate per evocare la questione, quanto invece il suo significato globale e la sua collocazione tra esigenze normative e confronti culturali.
    Veniamo da una stagione in cui sapevamo tutto sulle dimensioni costitutive dell’essere cristiano e ce lo tramandavamo con sicurezza. In fondo il problema non era sulla meta ma solo di coerenza personale nei confronti della meta stessa. Poi, in questi ultimi anni, sotto la spinta dei cambi culturali e della forte coscienza ermeneutica, queste sicurezze si sono sfaldate. Le incertezze riguardano la meta stessa e solo successivamente – in un atteggiamento di ulteriore relativizzazione personale – la coerenza con la meta.
    Possiamo immaginare un modo di essere cristiani che debba per necessità riprodurre quello che nei lunghi anni della vita della Chiesa è stato progressivamente sperimentato, consolidato e proposto… oppure le profonde mutazioni di questa nostra stagione culturale ci sollecitano a ripensare tutto, quasi da capo?
    Le risposte sono molte e diverse e basta guardarsi d’attorno per constatarlo.
    È urgente fare scelte.

    Diventare “cristiani” o essere “cristiani giovani”?

    Una prima questione si pone come pregiudiziale.
    Il titolo cerca di esprimerla in una forma provocatoria. Stiamo cercando un modo di essere cristiani che vada bene per tutte le stagioni e che possa adattarsi, con progressivi aggiustamenti, ai giovani, riconoscendo il loro essere giovani in questo tempo come una fase parziale e transitoria dell’esistenza? Oppure, al contrario, dobbiamo riconoscere tanto l’indiscussa originalità dell’essere giovani in questo tempo da concludere sulla necessità di pensare alla santità, alla spiritualità, alla vita cristiana… quasi “alla carta”… sulla misura dei singoli soggetti?
    Esistono alternative a queste due polarizzazioni?
    Espresse in questi modi sembrano teoriche, opposte e, di conseguenza, inconciliabili. Sul piano pratico ci vuol poco a constatare come di fatto ci si orienti verso l’una o l’altra posizione, nelle mille raccomandazioni che punteggiano il nostro servizio educativo e pastorale.
    A questa questione pregiudiziale proponiamo una risposta, attraverso alcune indicazioni da comprendere in modo unitario.
    Anzitutto va affermata la funzione insostituibile della comunità ecclesiale che rappresenta il luogo concreto e quotidiano in cui incontrare “dal vivo” l’esperienza cristiana.
    La proposta non è infatti un’operazione intellettuale né l’offerta di contenuti, elaborati e pronti all’uso, ma un incontro con amici, testimoni nel loro vissuto, e una relazione interpersonale alta e significativa. La comunità cristiana è una specie di “grembo materno” che nutre, sostiene, fa maturare ogni nostra esperienza di fede.
    La ricerca e il confronto tra la tradizione e la sensibilità attuale, tra le esigenze irrinunciabili e i modelli culturali in cui si esprimono… avvengono nel “grembo materno” di una comunità concreta, sperimentabile e significativa. L’esito è così un modo di essere cristiani nell’oggi, fedele alla tradizione e pienamente inserito nei profondi cambi culturali in atto, interpretati in uno sguardo di fede.
    La funzione della comunità ecclesiale è veramente generatrice: riferimento nella ricerca, sostegno nella decisione, propositiva di un modo di essere e di agire che sa coniugare la funzione orientativa della tradizione e la novità dell’essere giovane in questa stagione.
    L’esito è un modo di essere cristiani e santi per l’oggi. Non cerchiamo un cristiano sulle misure approssimate dell’essere giovane. Cerchiamo un cristiano in cui i giovani di oggi possano felicemente riconoscersi e in cui essi possano offrire a tutti uno spiraglio di futuro.
    In questo modo è possibile anche assicurare una dimensione, oggi particolarmente urgente: il confronto tra le generazioni. Il confronto diventa reciprocamente arricchente. I giovani sono sollecitati dagli adulti a controllare meglio la spontanea emotività giovanile. Gli adulti sono aiutati a guardare verso il futuro, rinunciando a quegli atteggiamenti nostalgici e ripetitivi che possono diventare, un poco alla volta, sostegno e sicurezza.

    Chi è il cristiano?

    Quale figura alta di santità possiamo proporre ai giovani nella comunità ecclesiale di oggi? Chi è il cristiano? Quello di sempre e quello che possiamo riesprimere in situazione giovanile?
    La vita cristiana è un affidamento, totale e gratuito a Dio in Gesù. Per questo essa ha alla radice la consapevolezza, gridata a tutti i livelli, che solo Dio è il Signore. Siamo stati salvati nella croce del Risorto, perché la nostra vita è fiorita piena e abbondante, proprio quando sembrava che tutto fosse spalancato verso il fallimento. Siamo vivi per dono di Dio, nella morte di Gesù.
    Non siamo cristiani solo perché ci impegniamo a fare cose buone e sagge per la vita di tutti, buttandoci in impegni sociali e in uno lavoro politico serio e responsabile. Non siamo cristiani perché ci comportiamo bene dal punto di vista etico e osserviamo i comandamenti e tutti gli altri precetti. Non lo siamo neppure perché raccontiamo la storia di Gesù per la vita degli uomini. Siamo cristiani davvero “solo se ci decidiamo ad adorare Dio nella sua assolutezza; solo se cerchiamo di amarlo con un ardire in apparenza del tutto sproporzionato alle nostre forze; se ammutoliti, capitoliamo di fronte alla sua incomprensibilità e accettiamo tale capitolazione della conoscenza e della vita come l’evento della massima libertà e della salvezza eterna” (K. Rahner).
    Riconosciamo Dio radicalmente diverso da tutte le altre realtà che fanno la nostra terra. Non è uno dei tanti nostri interlocutori. E neppure è quell’ultima risorsa che serve a pareggiare i bilanci in situazione di crisi. Solo lui è la realtà vera. Di fronte a lui diventa irreale tutto quello che consideriamo come realtà salda e consistente.
    Egli è il grande “sogno di futuro”, mistero incomprensibile e sempre presente, che tutto sorregge e orienta, proprio mentre tutto relativizza.
    Ci dà la parola. E ci sprofonda nel silenzio, dove le parole non bastano più.
    Veniamo da una radice che non abbiamo seminato; pellegriniamo lungo una strada che sfocia nell’incomprensibile libertà di Dio; siamo protesi tra cielo e terra e non abbiamo né il diritto né la possibilità di rinunciare a nessuno dei due dati. Non sappiamo neppure, in modo assolutamente certo, come la nostra libertà stia concretamente orientandosi nel gioco della nostra esistenza.
    L’esistenza del cristiano è perciò un salto nell’abisso sconfinato di Dio, in Gesù, l’unico nome in cui essere nella vita per la solidarietà con la sua morte e resurrezione, e nel grembo materno della comunità ecclesiale, il sostegno, il sacramento, la guida della nostra confessione di fede e di vita.
    La nostra speranza risulta praticabile e sensata solo mediante quel fondamento che non possiamo comprendere né manipolare.
    Il riconoscimento della croce di Gesù spinge il cristiano a vivere immerso nel mistero, distaccato da tante cose che invece affascinano i suoi amici, capace di concentrarsi sulle cose che contano, pieno di nostalgia per il futuro che attende con ansia e che anticipa con trepidazione.
    Nello stesso tempo però vive con i piedi ben piantati sulla terra. Della sua terra ha una grande passione. Per essa si impegna, cercando la compagnia di tutte le persone che amano la vita e la vogliono abbondante e felice per tutti. Sa che la pienezza di felicità è riservata a quando sarà finalmente tornato a casa. Ma intanto non vuole rinunciare ad essa e la cerca, con l’ansia dell’assetato che brancica verso sorgenti d’acqua fresca.
    Della casa del Padre – la sua vera dimora e l’esito di tutti i suoi sogni – ha nostalgia, ma non ha nessuna fretta di raggiungerla. Sa di non poter cantare i canti del Signore finché percorre le vie di questo mondo, eppure condivide con gioia e con entusiasmo giovanile i canti festosi che inondano le strade della nostra storia.
    Una immagine aiuta a dire questa strana originalità: il cristiano è uno che “siede a mensa con tutti – da solitario”. Per scoprire il significato della espressione, invito a pensare ad alcune persone speciali che, di tanto in tanto, abbiamo la fortuna di incontrare. Sanno ridere e scherzare con tutti. Sono gente di compagnia gradita e ricercata. Ogni tanto però si estraniano pur restando in mezzo alla folla: sembra che il loro pensiero stia correndo alla rincorsa di alcune questioni impegnative, che esigono quel livello di concentrazione che il brusio della folla non riesce ad assicurare. Non sono dei solitari, desiderosi di silenzio quasi come condizione normale di esistenza. Sono… dei solitari nella compagnia convinta e felice con tutti.
    Il cristiano è fatto così.
    La sua fede e la condizione della speranza lo sollecitano ad una immersione intensa nella vita di tutti. Non pretende un tavolo riservato, quando si siede a mensa, perché la compagnia con gli altri commensali è gradita e ricercata. Possiede però sensibilità, intuizioni, passioni… riconosce esigenze e avverte urgenze che lo costringono ad una parola originale, scomoda, inquietante.
    Quando tutti scivolano verso la disperazione, sa offrire una parola di speranza che permette di risalire la corrente. Quando serpeggia la convinzione di avere finalmente risolto tutti i problemi o, almeno, di possedere la chiave del futuro, riporta con i piedi per terra e ridimensiona i sogni troppo sicuri.
    Sa parlare di morte e di vita. Propone il confronto con la morte per amare veramente la vita. Rilancia la vittoria della vita per restituire a tutti la gioia di essere signori persino della morte.

    Qualche dimensione pastorale da riaffermare

    Chi è impegnato nell’affascinante avventura di chiamare anche i giovani di oggi alla santità, non si accontenta di possedere criteri intelligenti e neppure gli basta una figura ideale di cristiano, capace di andare alla radice della sua esperienza credente. Ha bisogno di linee orientative, che guidino la sua proposta.
    Ne abbiamo sperimentate tre di respiro pastorale, riflettendo sull’attuale vissuto ecclesiale dalla prospettiva appena delineata. Le rilancio.

    Maturare nella santità è un cammino

    Anche nell’ambito della santità e della vita cristiana va riconosciuta l’istanza diffusa oggi sul “diritto alla giovinezza”, per ripensare un ritratto di giovane cristiano “giovane oggi”. In questa prospettiva è importante affermare anche che l’esistenza cristiana è un processo di crescita (a tutti i livelli) e non un dato di cui verificare presenza o assenza (o le percentuali di presenza o assenza).
    Di conseguenza, va ricordato con forza lo stato di tensione, di processo, di cammino, lento e progressivo. La santità, come la maturità umana di cui è misura ed espressione, non è certo qualcosa da conquistare, una volta per tutte. È invece un cammino progressivo, segnato dall’incertezza e da quel ritmo fragile e esitante che è tipico del vivere quotidiano.
    In questo cammino l’essere giovane di questo tempo non può essere considerato come uno stato provvisorio e transitorio, in attesa di arrivare a quella situazione esistenziale conclusiva (che, del resto, non si sa bene quale sia, visto che solo la morte segna la conclusione del cammino di maturazione di una persona…). Ciascuno è “santo” (cristiano impegnato) per quello che è, nella stagione in cui vive… e non esiste un parametro di riferimento, derivato da altre stagioni e da altre scelte di vita, che debba funzionare come verifica.

    Una vita cristiana tra conoscenze, emozioni e responsabilità

    Siamo in una stagione dove sembra prevalere la dimensione emotiva, come linea di verifica e di proposta. La constatazione è importante. Ripensando santità ed esistenza cristiana non la possiamo trascurare. Riteniamo però urgente ricostruire un tessuto nuovo di capacità riflessiva e critica, in una specie di piattaforma di razionalità pensosa, come condizione fondamentale per una progressiva maturazione cristiana.
    L’attenzione alla razionalità pensosa anche nella proposta e nell’esperienza di santità non coincide tranquillamente con la nostalgia, oggi diffusa, verso modelli in cui prevalga l’aspetto cognitivo, quasi bastasse “conoscere” bene per vivere bene… o in cui la crisi etica sia riconducibile alla crisi cognitiva. Il richiamo alla razionalità, come dimensione importante dell’esistenza cristiana, non lo vogliamo interpretare in questa linea. Per noi si tratta di una “razionalità sapiente”, orientata a raccogliere l’urgenza di una capacità espressiva corretta (in parole e fatti) della propria fede, per dire questa stessa fede nella comunità ecclesiale, secondo la testimonianza di tutti (nel passato e nell’oggi) ); e di una razionalità capace di fare spazio alle emozioni e ai sentimenti, così decisivi nella qualità di vita di un giovane.

    Un correttivo alla soggettivizzazione

    La stagione attuale sta introducendo modelli di esistenza cristiana in cui prevale eccessivamente e pericolosamente la soggettività personale. L’esperienza di fede stenta a diventare autentica esperienza etica. L’impegno religioso sta lasciando in secondo piano l’attenzione e la responsabilità sociale e politica o, viceversa, sotto l’urgenza dei problemi, affiora una strana autosufficienza. L’incontro con il Signore Gesù si traduce in esperienze molto personali, in cui predomina l’entusiasmo o la pressione di gruppo. La vita liturgica e sacramentale manifesta poco un quadro maturo e organico di spiritualità. La conoscenza dei contenuti della fede, nonostante gli sforzi persino eccessivi, lascia ancora molto a desiderare.
    Una delle manifestazioni della soggettivizzazione diffusa è la forte tendenza verso atteggiamenti di sincretismo religioso.
    Non tutto del sincretismo dovrebbe preoccuparci. Esso può diventare riconoscimento del significato di altre esperienze religiose e ci può aiutare a superare, in modo intelligente, la tendenza verso il fondamentalismo.
    Certo, non possiamo dimenticare che le radici – che non giustificano anche se fanno comprendere – di questa eccessiva soggettivizzazione stanno proprio nel modello esasperatamente oggettivistico in cui è stata presentata la vita cristiana: sarebbe strano cercare rimedi, recuperando quei modi di fare che hanno originato la disfunzione.
    Esistono al contrario dei… controlli interni, che riportano l’esperienza cristiana nella direzione della maturità.
    Un correttivo al sincretismo e alla soggettivizzazione sta, per esempio, nella riscoperta seria e disponibile della profezia del Vangelo per non ridurre il confronto con la cultura ad un’operazione di buon senso e di aggiustamenti che svuotano l’esigenza della radicalità.
    Questa riscoperta aiuterà a prendere posizione di fronte alle provocazioni e alle sfide che la vita quotidiana continuamente ci lancia, senza scivolare in visioni fanatiche, ma sapendo evitare anche il rischio di un perbenismo riduttivo che non ha proprio più nulla di evangelico.
    Inoltre, una specie di verifica continua è offerta dalla capacità di reagire alle sfide che l’esistenza quotidiana lancia, sapendo coinvolgere, come criterio decisivo e fragile nello stesso tempo, la propria esperienza credente. Il cristiano vive la sua fede nella trama della esistenza, personale e collettiva. La segna continuamente, sul livello dell’interiorità personale e della dimensione sociale e politica.
    In sintesi, però, il controllo verso i rischi della soggettivizzazione viene dalla riproposta delle esigenze di quello stile di esistenza cristiana che in questi anni abbiamo identificato (e qualche volta dimenticato) nell’espressione “integrazione tra fede e vita”.
    Come sappiamo, integrazione tra la fede e la vita significa riorganizzazione della personalità attorno a Gesù Cristo e al suo messaggio, testimoniato nella comunità ecclesiale attuale, riorganizzazione realizzata in modo da considerare Gesù Cristo il “determinante” sul piano valutativo e pratico.
    Gli elementi importanti ci sono tutti. Al centro sta Gesù Cristo, incontrato e accolto come “il salvatore”, fino a farlo diventare il “determinante” della propria esistenza.
    Il riferimento a Gesù Cristo nel personale sistema di significati non può essere vissuto come l’incontro con uno stimolo in più, che si va ad aggiungere agli altri su cui la persona ricostruisce la propria identità.
    Neppure può essere considerato come un valore alternativo rispetto agli altri elaborati autonomamente, una specie di concorrente spietato che mette bastoni tra le ruote nella organizzazione della personalità.
    La formula “integrazione tra la fede e la vita” ricorda che il riferimento a Gesù Cristo, nella elaborazione dell’identità personale, funziona come un’esperienza centrale, dotata di una sua struttura veritativa, che riorganizza i processi cognitivi, interpretativi e operativi.

    NARRARE LA SPERANZA

    Siamo in una stagione dove la disperazione o la rassegnazione sembrano rappresentare l’unica reazione possibile a quello che constatiamo e sperimentiamo. Cerchiamo spesso ragioni di speranza per sopravvivere, ma abbiamo l’impressione di essere costretti a scivolare verso promesse poco controllabili e meno ancora verificabili. In questa situazione, “tanti uomini e donne sembrano disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questi stati d’animo”, ricorda, con molto realismo, il documento pontificio Ecclesia in Europa.
    La constatazione ci provoca come discepoli del Crocifisso risorto. L’impegno riguarda tutte le dimensioni dell’esistenza quotidiana e ogni compito pastorale. Nell’ambito della pastorale giovanile la constatazione rappresenta un compito urgente.
    Anche i primi discepoli hanno attraversato la regione buia della disperazione, quando sembrava che tutto fosse concluso nel peggiore dei modi, nella morte violenta del Maestro. Ma tutto è cambiato, quando lo Spirito ha restituito ad essi la gioia del futuro, nell’esperienza del risorto. Noi, come quelli della prima ora, siamo impegnati a rivivere e far riscoprire anche oggi quella parola di speranza che è risuonata nella comunità ecclesiale apostolica, in tempi di certo non meno tristi degli attuali: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1, 17-18).
    Non è sufficiente però l’entusiasmo e la buona volontà generica. Si richiede un percorso preciso e competente per fare della pastorale giovanile una grande narrazione di speranza.

    Una diagnosi seria

    La prima operazione da compiere riguarda un modo di parlare di speranza che eviti le frasi facili e le diagnosi campate in aria, per imparare a misurarsi con i fatti di disperazione che quotidianamente constatiamo.
    Dobbiamo interpretare con coraggio questi fatti di disperazione che rappresentano la sfida alla speranza. Per farlo è urgente riuscire a penetrare nel profondo dei fatti per arrivare a distinguere tra ragioni di disperazione, dovute a motivi strutturali e culturali, e invece motivi di disperazione dovuti alla cattiva volontà delle persone.
    È veramente molto interessante confrontarsi con la lunga riflessione che introduce il documento pontificio Ecclesia in Europa. Esso parte dall’interpretazione della situazione di disperazione diffusa, per ripensare il Vangelo, la sua urgenza e la sua qualità proprio all’interno di queste provocazioni.
    Ricordo alcune battute.
    “Tra i tanti aspetti, ampiamente richiamati anche in occasione del Sinodo, vorrei ricordare lo smarrimento della memoria e dell’eredità cristiane, accompagnato da una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia. […]
    A questo smarrimento della memoria cristiana si accompagna una sorta di paura nell’affrontare il futuro. L’immagine del domani coltivata risulta spesso sbiadita e incerta. Del futuro si ha più paura che desiderio. Ne sono segni preoccupanti, tra gli altri, il vuoto interiore che attanaglia molte persone, e la perdita del significato della vita.
    Tra le espressioni e i frutti di questa angoscia esistenziale vanno annoverati, in particolare, la drammatica diminuzione della natalità, il calo delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, la fatica, se non il rifiuto, di operare scelte definitive di vita anche nel matrimonio.
    Si assiste a una diffusa frammentazione dell’esistenza; prevale una sensazione di solitudine; si moltiplicano le divisioni e le contrapposizioni. Tra gli altri sintomi di questo stato di cose, l’odierna situazione europea conosce il grave fenomeno delle crisi familiari e del venir meno della stessa concezione di famiglia, il perdurare o il riproporsi di conflitti etnici, il rinascere di alcuni atteggiamenti razzisti, le stesse tensioni interreligiose, l’egocentrismo che chiude su di sé singoli e gruppi, il crescere di una generale indifferenza etica e di una cura spasmodica per i propri interessi e privilegi.
    Agli occhi di molti, la globalizzazione in corso, invece di indirizzare verso una più grande unità del genere umano, rischia di seguire una logica che emargina i più deboli e accresce il numero dei poveri della terra.
    Connesso con il diffondersi dell’individualismo, si nota un crescente affievolirsi della solidarietà interpersonale: mentre le istituzioni di assistenza svolgono un lavoro lodevole, si osserva un venir meno del senso della solidarietà, di modo che, anche se non mancano del necessario materiale, molte persone si sentono più sole, lasciate in balia di se stesse, senza reti di sostegno affettivo.
    Alla radice dello smarrimento della speranza sta il tentativo di far prevalere un’antropologia senza Dio e senza Cristo. Questo tipo di pensiero ha portato a considerare l’uomo come “il centro assoluto della realtà, facendogli così artificiosamente occupare il posto di Dio e dimenticando che non è l’uomo che fa Dio ma Dio che fa l’uomo. […] La cultura europea dà l’impressione di una apostasia silenziosa da parte dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse” (Ecclesia in Europa 7-10).
    Tutto questo va ripensato nel concreto della situazione giovanile e sulla misura dei differenti contesti culturali e sociali in cui i giovani vivono.
    Il documento dell’ultimo Capitolo Generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che ha scelto, come prospettiva globale del progetto di rinnovamento affidato all’Istituto, l’impegno di testimoniare la speranza sulle tante frontiere del mondo moderno, parla in modo molto concreto di queste situazioni di disperazione con cui fare i conti: “Il nostro è un tempo complesso e pieno di contrasti, attraversato da fenomeni che definiscono il cambio di epoca. Abbiamo colto in modo più consapevole la realtà della globalizzazione – non solo come fenomeno economico, ma anche sociale, politico – nella universalizzazione di modelli culturali, religiosi e di problematiche che riguardano il nostro pianeta nella sua totalità. Le situazioni di squilibrio ambientale, la mondializzazione del mercato e delle risorse, la concorrenzialità e l’indebolimento delle economie nazionali più fragili, il divario crescente tra paesi ricchi e poveri e l’emergere di nuove forme di impoverimento economico e sfruttamento dei minori sono grandi sfide con cui quotidianamente ci confrontiamo. La globalizzazione sta omologando i modelli di vita e di cultura, le aspirazioni, i comportamenti della gente e, nello stesso tempo, crea divisioni e ingiustizie che colpiscono interi popoli” (CGXXI 18).

    Una pastorale giovanile che sa restituire speranza

    Non possiamo vivere senza speranza: un’esistenza senza speranza, sarebbe votata all’insignificanza e diventerebbe insopportabile. Sull’impegno di restituire e consolidare la speranza, la pastorale giovanile attuale ritrova uno dei suoi compiti prioritari e, soprattutto, la prospettiva generale da cui ripensare se stessa e le sue responsabilità. Lo ricorda molto bene il grande orientamento della Chiesa latinoamericana, che vuole “una pastorale giovanile [...] della gioia e della speranza, che trasmette il lieto messaggio della salvezza ad un mondo tanto spesso triste, oppresso e disperato, in cerca di liberazione” (Puebla. L’evangelizzazione nel presente e nel futuro dell’America Latina, 1205).
    È facile elencare quali siano questi compiti. Ciascuno trova poi l’occasione di aggiungere qualche urgenza nuova, appena si confronta con l’elenco che gli è consegnato.
    Ci rendiamo conto però che, in una stagione di frammentazione, è davvero rischioso prendere questi compiti singolarmente, come se fossero frammenti isolati, sulla cui organizzazione e ricomposizione ognuno gioca le sue sensibilità.
    Abbiamo bisogno di una prospettiva unificante, capace di dare armonia ai differenti interventi elaborati sotto l’urgenza dei problemi e dei suggerimenti.
    Un tempo abbiamo giocato tutto sull’impegno educativo, alla ricerca di strutture ed esperienze capaci di farsi proposta. Poi è subentrata la stagione della scoperta e della prassi politica. Ci sono stati tempi in cui sul gruppo abbiamo investito tantissime risorse. Si è fatta strada la riscoperta della Parola di Dio, il rilancio di modelli di preghiera e di meditazione di questa Parola.
    Risuona oggi l’invito forte alla santità e alla riscoperta di una spiritualità adeguata al rinnovamento teologico e antropologico.
    Sono tutti temi di grande risonanza, la cui urgenza non è mai spenta. Quello che potrebbe essere considerato in modo originale è l’invito a fare di qualcuno di essi il principio unificatore degli altri.
    La scelta dipende soprattutto dalle urgenze del momento.
    La ricostruzione della speranza, in una stagione di disperazione diffusa, può rappresentare un principio di riunificazione originale e attuale: fa recuperare le esigenze di sempre e quelle più nuove, su un principio di riorganizzazione fortemente attento all’oggi, ai segni dei tempi, come si diceva una volta, in positivo e come provocazione.
    Attorno alla speranza è possibile infatti riportare ad unità tutto il grosso lavoro educativo, vissuto in questi anni, riabilitando ad un’attenzione realistica alle situazioni, raccogliere con gioia l’invito verso una rinnovata e coraggiosa evangelizzazione, perché solo nel nome di Gesù possiamo dare consistenza alla speranza, riaffermare la chiamata vocazionale alla santità, perché solo uomini e donne “spirituali”, narratori di speranza sul loro vissuto, possono tessere nel quotidiano uno stile di esistenza credibile e significativo, e infine rilanciare l’esperienza di gruppo e di comunità ecclesiale, per possedere luoghi concreti dove far sperimentare la speranza.
    Nella narrazione della speranza contano molto i fatti: la speranza non si regge sulle parole; le parole servono solo ad interpretare i fatti.
    Per questo, chi vuole narrare speranza si impegna a produrre fatti di speranza: una ricostruzione dell’accoglienza e dell’esperienza del “mistero”, accettando il ritmo del tempo del mistero, tanto diverso dal “subito” del presentismo attuale, la gratuità, il perdono…
    Nello stesso tempo, chi si impegna a narrare la speranza avverte la gioiosa responsabilità di riconoscere i tanti fatti di speranza già presenti nel tessuto della vita quotidiana.
    Chi vuole narrare la speranza in parole significative e credibili prima di tutto si sforza di dare risonanza alle parole già presenti: ai fatti (avvenimenti, persone, testimonianze…) che parlano già di speranza.

    RINNOVARE LA RESPONSABILITÀ MISSIONARIA NELLE SCELTE VOCAZIONALI

    Fino a poco tempo fa, quando si parlava di “vocazione”, l’attenzione correva quasi unicamente alla vocazione sacerdotale e alle vocazioni (maschili e femminili) alla vita religiosa. Oggi, per fortuna, il termine “vocazione” indica qualcosa di comune, ad ogni uomo e ad ogni cristiano. L’abbiamo scoperto e sperimentato, quando ci siamo progressivamente resi consapevoli che la vocazione del cristiano è unica, anche se viene vissuta per mille sentieri di pari dignità e di servizio promozionale reciproco.
    Tutto questo riguarda decisamente la pastorale giovanile.
    È ormai un dato pacifico l’integrazione tra pastorale giovanile e pastorale vocazionale.
    L’impegno verso il futuro si gioca nel tradurre questa convinzione in prassi quotidiana vissuta, su tutte e due le frontiere e, soprattutto, nel riempire la pastorale, quella giovanile e quella vocazionale, di una forte e coraggiosa sensibilità missionaria.
    In altre parole, non si tratta di aggiungere alla pastorale giovanile tradizionale qualcosa che le manca, ma di ripensare a fondo pastorale giovanile e pastorale vocazionale, in reciproca unità e da una prospettiva di rinnovamento che assicuri il dialogo, il confronto reciprocamente arricchente e soprattutto la capacità di caricarsi di responsabilità nuove.
    La categoria del rinnovamento reciproco è costituita dalla dimensione missionaria.
    Pastorale giovanile e pastorale vocazionale sono impegnate su compiti di respiro intensamente missionari.
    Tante cose possono essere ricordate e, di fatto, abbiamo testi e esperienze di confronto di grande valore. In questo contesto voglio solo ricordare alcune preoccupazioni.

    Ripensare la qualità della vocazione

    La prima piattaforma di confronto è costituita dall’impegno di comprendere, in dialogo, quale sia il centro della scelta vocazionale, per dare alla vocazione una forte risonanza missionaria.
    Per evitare che pastorale giovanile, pastorale vocazionale e impegno missionario percorrano ciascuna la propria strada, ignorandosi reciprocamente o integrandosi solo su manifestazioni esteriori, si richiede la convergenza verso qualcosa che assicuri unità profonda e che supporti, nello stesso tempo, specificità e diversità.
    Questo elemento comune esiste. L’hanno vissuto, in qualche modo, tutti i discepoli di Gesù, nel lungo cammino della vita ecclesiale. Lo dobbiamo riscoprire e vivere all’interno delle sensibilità e provocazioni che l’oggi ci lancia.
    Esso è la condivisione appassionata della causa di Gesù, come espressione concreta della sua centralità nell’esistenza cristiana.
    Per scoprire quale sia questa causa e cosa significhi mettere il Signore Gesù al centro della nostra vita, dobbiamo meditare i Vangeli.
    I Vangeli non dicono di Gesù tante cose che ci piacerebbe invece conoscere. Una cosa però dicono in modo forte e sicuro: Gesù è uno che ha una passione enorme per una causa specialissima.
    La causa di Gesù è chiarissima, ha appassionato tutta la sua esistenza e l’ha trascinato fino alla morte sulla croce: far nascere vita dove c’è morte, nel nome e per la gloria di Dio. Come lui stesso ha dichiarato, ha fatto della causa della vita, “piena e abbondante” per tutti (Gv 10, 10), la “perla preziosa” per acquistare la quale bisogna essere disposti a vendere tutto il resto (Mt 13, 45-46).
    Il compito che il Padre gli ha affidato, Gesù lo consegna ai suoi discepoli. Gesù dice ai suoi amici: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20, 21). Anello dopo anello, viene costruita una grande catena di persone, impegnate per la salvezza del mondo. I discepoli chiamano altri e li mandano. E così la catena dei chiamati si allunga: i nuovi discepoli chiamano altri con la stessa passione con cui hanno pronunciato il loro sì all’invito, e li mandano. Il compito che ci è affidato è lo stesso che ha appassionato l’esistenza di Gesù: la causa della vita.
    Su questo compito il cristiano misura la sua esistenza. Siamo ed esistiamo per continuare a servire la vita, come ha fatto Gesù.
    Questa convinzione, ritrovata nella fedeltà al Vangelo vissuta dai discepoli di Gesù, ci ha aiutato, in questi anni, a formulare una specie di grande obiettivo vocazionale: nel nome di Gesù, confessato con gioia e con progressiva consapevolezza, fare della propria esistenza un servizio totale alla vita di tutti, perché sia piena e abbondante, e ritrovi nell’affidamento al mistero di Dio il fondamento di una speranza che sa andare anche oltre la morte.
    Su questo obiettivo si orienta la pastorale giovanile e quella vocazionale, in modo unitario. Assieme ritrovano quella dimensione missionaria che le deve segnare nel profondo.
    Il cristiano si ritrova con una sensibilità raffinatissima verso la vita e le sue manifestazioni. Possiede una spontanea reattività nei confronti della morte e delle sue quotidiane espressioni. Ne decifra la presenza inquietante, anche quando tutto gli sembra tranquillo. Avverte il grido che sale da tanti uomini, abbandonati, oppressi, rattristati dalla ricerca inevasa di ragioni per vivere e per sperare. Lo sente chiaro e distinto, anche quando risuona solo soffocato e disturbato.
    La sua passione per la vita diventa “compassione” per la vita di tutti: impegno, paziente e premuroso, perché tutti abbiano la vita, e ne abbiano in abbondanza.
    Così ogni decisione vocazionale, quella normale di ogni cristiano e quella speciale nella vita consacrata, diventa intensamente missionaria.
    Non cerca proseliti, ma promuove la vita di tutti.

    Ripensare i processi formativi

    Abilitare i giovani cristiani ad amare tanto intensamente la vita, la propria e quella degli altri, da essere disposti a perdere la vita perché tutti ne abbiano in abbondanza, non è certo una cosa facile. Su questa frontiera la pastorale giovanile e quella vocazionale hanno molte ragioni di rinnovamento.

    Un modello rinnovato di esistenza spirituale

    I modelli di esistenza cristiana in cui siamo cresciuti sono in genere sbilanciati verso il futuro. La vita quotidiana funziona come una specie di banco di prova, in cui mostrare la voglia di eternità e operare scelte coerenti con questa prospettiva. La coscienza delle difficoltà che investono la proiezione della vita quotidiana verso il suo esito definitivo spinge a moltiplicare controlli e raccomandazioni.
    In questa visione, la vita quotidiana non è considerata risorsa, ma problema. Sono risorse tutte quelle strumentazioni formative che sanno controllare la vita, che spingono a collocare altrove i propri progetti, che assicurano la capacità di transitare dal provvisorio al definitivo, dal quotidiano all’eterno, dal presente al futuro.
    Chi invece condivide l’obiettivo proposto riconosce nella vita, nelle persone, nei suoi sogni, esperienze, progetti, la grande risorsa per lanciarci verso realizzazioni più alte. Possiamo, infatti, fare della nostra vita un servizio alla pienezza di vita solo quando abbiamo imparato ad amare questa vita per noi, per farla amare agli altri.
    In fondo, come si nota, è una questione di orientamento di vita dall’esperienza dello Spirito di Gesù. Il riconoscimento della vita come risorsa formativa – per ragioni teologiche – spalanca verso un rinnovamento della spiritualità.

    Un modo di essere e di fare controcorrente

    Può sembrare almeno strano l’invito a giocare le risorse disponibili per far amare la vita, soprattutto nei confronti dei giovani di oggi che l’amore alla vita l’hanno nel sangue e lo respirano nei modelli culturali che ci circondano.
    Si tratta di educare ad amare la vita nella logica evangelica: l’amore alla vita diventa passione perché tutti abbiano la vita secondo il modello evangelico, l’unico che dà autenticità alla vita e al suo servizio e si esprime, per forza di cose, nel ritmo della vita quotidiana e nel contatto con tutti coloro che la condividono e, comunque, l’attraversano.
    Il richiamo alla logica evangelica, con cui concretizzare la passione per la vita, indica una qualità originale, che porta decisamente controcorrente: noi vogliamo diventare capaci di amare e servire la vita, riconoscendoci continuamente “soltanto servi”.
    Quest’atteggiamento Gesù lo raccomanda in modo esplicito: “Questo vale anche per voi! Quando avete fatto tutto quello che vi è stato comandato, dite: Siamo soltanto servitori. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare” (Lc 17, 10). Il riferimento concreto è Maria: madre di Dio come “serva” dello Spirito.
    L’invito del Vangelo rappresenta un punto di riferimento qualificante per una costruzione della vita e della speranza.
    Chi vuole la vita, si pone come Gesù al servizio della vita, con la coscienza che la vita è il grande dono di Dio. Richiede fatica e disponibilità. Richiede capacità di decentrarsi sugli altri, facendosi attenti ai loro bisogni e alle loro richieste. Pone soprattutto in primo piano l’esigenza di “dare la vita” perché la vita sia piena e abbondante per tutti.
    Il primo grande servitore è perciò Gesù di Nazareth. Nella fatica della croce ha imbandito la festa della vita, perché tutti – e soprattutto i più poveri – possano essere in festa. La sua esistenza è stata il servizio totale per la festa di tutti.
    Per questo, il credente lotta per la vita e resiste alla morte in uno stile che risulta spesso radicalmente opposto a quello corrente.
    Nella cultura che ogni giorno respiriamo, il possesso infatti significa la necessità di conquistare, di arraffare, di tenere ben strette le cose. Possiede la vita chi se la tiene stretta, come un tesoro prezioso. Magari la nasconde sotto terra, per paura dei ladri, come ha fatto il servo sciocco della parabola dei talenti (Mt 25, 14-28).
    Nel progetto di Gesù, possiede invece la vita chi la sa donare, chi la butta per amore: come il chicco di grano che diventa vivo solo quando muore (Gv 12, 24; cf anche Mt 16, 25).

    La misura: verso tutti

    La terza sottolineatura pone in primo piano la qualità missionaria della pastorale giovanile e vocazionale.
    Nella nostra stagione è facile incontrare giovani disposti ad un impegno vocazionale anche alto, ma con una prospettiva molto autoreferenziale. L’esperienza cristiana è maturata all’interno di alcune esperienze, si è tessuta della vita di un gruppo e di un movimento. La decisione e la disponibilità riguarda questo stesso ambito.
    Ci fa paura questo modo di vivere il progetto vocazionale. Ha troppo il sapore di un modello raffinato di proselitismo o di una riduzione della vita ecclesiale.
    Una corretta dimensione missionaria richiede l’attenzione reale verso tutti, incominciando da coloro che sono più facilmente abbandonati proprio dai giovani più impegnati. Sollecita ad atteggiamenti molto meno autoreferenziali e molto più ecclesiali, partendo dalla consapevolezza che il servizio alla vita nasce dal dono di Dio e riguarda veramente tutti.
    In questa prospettiva, la pastorale giovanile e quella vocazionale diventa sempre più capace di entrare in collaborazione con tutti coloro che stanno dalla parte della vita, nello spazio concreto di esistenza.

    Restituire a ciascuno la responsabilità personale

    Impegnarsi vocazionalmente al servizio della vita di tutti comporta, per ciascuno, la faticosa scoperta di quale è il progetto di Dio sulla propria vita e quale progetto di Dio dobbiamo aiutare a costruire e a consolidare negli altri.
    Passiamo così da un mondo di indicazioni sicure, dove diventa urgente aiutare i giovani a trovare il proprio posto in una trama di servizi, assicurati e consolidati, ad un’operazione in cui la soggettività di ogni persona è chiamata in causa.
    Non è certo una soggettività all’insegna dei gusti personali: ciò che siamo chiamati a scoprire e a servire è il progetto che Dio ha su ciascuno.

    Non c’è più posto per le paure…

    Una pastorale giovanile e vocazionale al servizio della vita, nel nome e per la potenza del Dio di Gesù, diventa, infine, una proposta “per un mondo che cambia”, e non una resistenza nei confronti del cambio.
    Rinuncia alla paura, che è sempre mancanza di fede e pessima consigliera nelle scelte. Sa controllare la patologia della stanchezza, che porta all’inerzia e alla ripetitività rassegnata, per spalancarsi verso scelte che tentano di anticipare e concretizzare, nell’oggi, il futuro di Dio. La paura e la rassegnazione cedono il posto alla fede e alla speranza.

    EDUCATORI PER UN MONDO CHE CAMBIA

    Il vissuto di questi anni ci consegna una attenzione forte verso l’educazione, anche nell’ambito dell’educazione alla fede.
    Oggi, anche coloro che condividono questa preoccupazione sono segnati almeno da due interrogativi. Vanno affrontati in modo serio per raccogliere, in termini consapevoli e promozionali, la fiducia sull’educazione.
    Il primo interrogativo riguarda proprio la scelta di fondo: ha ancora senso “scommettere sull’educazione”? Siamo in una stagione in cui sembrano vincenti solo le proposte forti, segnate da una dose alta di seduzione, non è sciocco rinunciare a questo (vista persino la disponibilità dei giovani verso questi modelli) e mettersi a battere la strada lunga della motivazione e della presa di consapevolezza, proprio in quell’ambito in cui si deve accettare il rischio di consegnarsi al mistero che avvolge tutta la nostra esistenza?
    Il secondo interrogativo è la conseguenza di un tipo di risposta offerto al primo.
    Esiste un’alternativa seria tra le forti proposte e l’atteggiamento rassegnato? Se c’è, su quali educatori la pastorale giovanile è chiamata a scommettere? Come può impegnare risorse per un processo adeguato di formazione?
    All’incrocio di questi due interrogativi si colloca la priorità che sto esaminando.

    Scommettere per l’educazione

    Educazione è una parola magica. Su essa l’assenso è assicurato finché si resta sul generico. I primi passi verso il concreto scatenano distinzioni e tentativi di differenziazioni. Per questo, la prima cosa da fare riguarda proprio un confronto serio sul significato globale della sua funzione.
    Questo è il mio punto di vista: educare è istituire una relazione tra soggetti diversi (felici… di essere differenti), attraverso cui essi si scambiano frammenti riflessi e motivati di vissuto, per restituirsi reciprocamente quella gioia di vivere, quella libertà di sperare, quella capacità e responsabilità di essere protagonisti della propria e altrui storia, di cui purtroppo siamo continuamente deprivati.
    Al centro dello scambio di esperienze c’è la qualità della vita: dignità, speranza, felicità, libertà… come dimensioni costitutive di questa qualità. In una stagione di pluralismo come è quella che stiamo vivendo, non è facile dare spessore concreto a queste espressioni. Per farlo, abbiamo bisogno di un confronto e di una collaborazione allargata.
    Per questo, chi crede all’educazione e cerca ragioni sicure per fondare senso e speranza, sollecita il contributo operativo di tutti, mettendo a frutto orizzonti culturali e religiosi, competenza, esperienza
    Attorno alla qualità della vita siamo tutti protagonisti; chi si tira indietro su questa ricerca mette prima di tutto in crisi se stesso.
    Ma tutto questo… serve a qualcosa?
    Possiamo arrivare a trovarci d’accordo sul fatto che al centro dei problemi sta la vita (la sua qualità) e la speranza (la sua sicurezza in prospettiva di futuro).
    Viene spontaneo tentare di verificare se l’educazione è davvero lo strumento più adatto per affrontare questi problemi e per risolverli.
    È facile elencare quali siano oggi questi problemi. Vanno dal terrorismo al disimpegno, dalla crisi di valori alla perdita di responsabilità personale e sociale, dalla fragilità delle istituzioni tradizionali alla voglia di trasgressione, dalla caduta di religiosità ad una sua ripresa un poco troppo magica.
    Anche i rimedi sono sulla bocca di tutti: controlli più raffinati, la pretesa di avere il diritto al “primo colpo”, rigidità delle leggi e chiarezza di intenti, riforme e recupero dell’autorevolezza, prospettive economiche e proposte religiose e culturali forti…
    Suggerire di “scommettere sull’educazione” significa avanzare un’alternativa: l’educazione è una forza di trasformazione formidabile, che attraversa, verifica, contesta e risolve tutti gli altri rimedi.
    E questo in tutti gli ambiti dell’esistenza quotidiana: quello politico, quello economico, culturale e istituzionale, e soprattutto quello religioso.
    La validità delle scommesse non si può dimostrare a fil di logica, altrimenti che scommesse sarebbero! Si verificano alla prova dei fatti, anche se non possiamo dire in anticipo quanti fatti servono a dimostrare la validità della scommessa e a quale punto ci si debba arrendere sulla forza dell’evidenza contraria.
    L’invito è dunque sulla scommessa, uscendo dal terreno sicuro delle dimostrazioni e delle sole procedure razionali.
    L’operazione riguarda anche l’ambito dell’esperienza di fede e della sua proposta.
    Scegliendo di giocare la sua speranza nell’educazione, il credente sente di essere fedele al suo Signore. Con lui crede all’efficacia dei mezzi poveri per la rigenerazione personale e collettiva, e crede all’uomo come principio di rigenerazione: restituito alla gioia di vivere e al coraggio di sperare, riconciliato con se stesso, con gli altri e con Dio, può costruire nel tempo il Regno della definitività.

    Quale educatore per scommettere sull’educazione?

    La scommessa sulla forza trasformatrice dell’educazione riguarda tutti gli adulti, impegnati a realizzare una relazione con i giovani. Tutti sono, in quanto adulti, almeno “educatori informali” dei giovani. Essa chiama in causa, però, in un modo tutto speciale, l’esperienza e la responsabilità di quelle persone che condividono il compito educativo e se ne fanno carico in modo formale.
    Per determinare la figura dell’educatore concentro la mia attenzione proprio su questo compito. Mi piace, come ci ha insegnato il Concilio, pensare all’identità rivolgendo lo sguardo alla missione.

    L’uomo dell’accoglienza incondizionata

    Noi veniamo da una tradizione educativa e pastorale sicura e un poco arrogante, giustificata dalla coscienza dell’oggettività e dal servizio alla verità.
    All’inizio degli anni Settanta, molti di questi modelli sono entrati in crisi e si è progressivamente consolidata una mentalità educativa e pastorale molto diversa, sperimentata spesso, magari in modo sofferto, come una conquista irrinunciabile. Gli esempi sono facili: un certo ritegno nel fare proposte, nel nome del rispetto della libertà e responsabilità; il ridimensionamento della funzione dell’adulto in quanto educatore; la voglia di far prevalere il “per me” sulle esigenze normative; la contrapposizione tra esperienza e razionalità…
    Oggi ci troviamo in una situazione particolare.
    Da una parte, l’esperienza di questi ultimi anni ha ridimensionato molte cose che nell’entusiasmo di vent’anni fa sembravano una conquista formidabile. Dall’altra, è facile constatare la presenza di fatti che provocano e sollecitano verso direzioni nuove.
    Dobbiamo cercare e sperimentare alternative serie e praticabili, capaci, alla prova di fatti, di riconciliare, nella stessa persona e nello stesso gesto, quelle tensioni pratiche che in questi anni abbiamo spesso contrapposto.
    Questa alternativa esiste ed è particolarmente interessante proprio perché ci riconduce alla radice della nostra esperienza di credenti, a quella prassi di Gesù in cui il Dio ineffabile prende volto e si fa parola per noi.
    Essa consiste nella capacità di una accoglienza incondizionata che diventa, nello stesso tempo, promozionale ed esigente, confortata dall’atteggiamento di Gesù nei confronti di Zaccheo, raccontato dal Vangelo di Luca al capitolo 19.
    L’accoglienza non è un’operazione rinunciataria, perché il riconoscimento e l’accettazione incondizionata non rappresentano la rassegnazione o una forma di libertinaggio culturale.
    Chi ha ritrovato la dignità perduta è sollecitato a vivere nella novità che ha sperimentato. Questa novità di vita è il sogno e l’esito della relazione educativa. L’educatore scommette che può essere raggiunta e consolidata soprattutto attraverso una presenza, capace di testimoniare in ogni caso la radicale fiducia nella dignità personale.
    Egli vuole la trasformazione, a differenza dei modelli permissivi. Non sceglie però uno stile impositivo e autoritario, ma testimonia che ogni giovane è capace di crescere come persona nuova, quando viene restituito alla consapevolezza della sua dignità.

    Restituire la coscienza del limite

    L’adulto è chiamato a rappresentare presso i giovani un principio impegnativo di realismo. Oggi questa responsabilità è particolarmente urgente. Mette in gioco un modo di essere educatore.
    Viviamo infatti in una stagione di onnipotenza diffusa e pervasiva. Pretendiamo di conoscere i rimedi a tutti i mali. E se ancora non li abbiamo disponibili… ci manca poco: basta attendere e sperimentare.
    Molti, sedotti dalla promessa di una felicità costruita sul possesso delle cose, si affannano disperatamente. Ma non è affatto vero che le cose sono disponibili a tutti. Al contrario, sembra che non bastino per tutti, anche perché ce le spartiamo in una logica di sopraffazione e di egoismo. E così, chi resta a mani vuote si sprofonda in una disperazione tanto nera che porta, non poche volte, al suicidio.
    Anche coloro che se ne sono accaparrate in misura sufficiente, si accorgono presto che le cose non ci bastano davvero a risolvere i problemi dell’esistenza. Ogni tanto infatti il meccanismo si inceppa. Riaffiorano i problemi di sempre. Ci scontriamo con limiti imprevisti e imprevedibili. E così riaffiora una disperazione molto più profonda, perché radicata sulla incapacità di convivere sinceramente con quella esperienza di limite che le cose non sono in grado di risolvere.
    La disperazione è una soluzione. Non è l’unica, però: la coscienza riconquistata del limite può restituirci al coraggio della verità sulla nostra vita.
    A questo livello vedo una funzione urgente dell’educatore. L’educatore si propone come “coscienza del limite”. L’educatore non si accontenta però di restituire ai giovani una matura coscienza del limite. Si impegna verso un salto di qualità: diventa “testimone di speranza”, per colui che ha scoperto il proprio limite e sa conviverci gioiosamente.

    Narrare speranza in una stagione di orfanità

    Il dono del senso ci è sempre venuto dagli adulti, dagli educatori impegnati, dalle diverse istituzioni che avevano responsabilità sulla nostra esistenza. Sembra che le cose (quelle da possedere o almeno quelle da sognare) stiano sostituendo queste agenzie, proprio perché esse sono entrate in crisi, a causa della rottura violenta del rapporto di trasmissione intergenerazionale. Nella logica della società dei consumi le cose passano così da un significato funzionale, orientato cioè a risolvere problemi concreti e contingenti, alla pretesa di diventare proposta e esperienza di senso per l’esistenza.
    Il rapporto generazionale (quello attraverso cui si trasmette il senso e la speranza) è in crisi per eccesso di padri: stiamo diventando orfani sul senso e sulla speranza perché abbiamo troppi padri: un numero esagerato di “padri”, di agenzie che pretendono di dirci qualcosa sul senso della esistenza.
    Su questa constatazione si colloca la funzione dell’educatore come “narratore di speranza”. Egli è chiamato a farsi padre speciale di tanti orfani, diventando un narratore di speranza.
    Sulla urgenza e sul modo di realizzare questo compito, ho appena parlato, commentando un’altra priorità. Riamando a quelle pagine.

    Intercettare la vita quotidiana

    L’educatore che vuole narrare la speranza è impegnato ad inventare e a consolidare luoghi in cui sia possibile narrare e “far sperimentare” la speranza. Per questo egli è chiamato alla fatica di intercettare la vita quotidiana.
    Come sappiamo, i giovani definiscono sempre di più la loro identità personale, colgono i problemi ed elaborano le risposte al di fuori dei luoghi educativi tradizionali. I luoghi della vita quotidiana dei giovani sono i luoghi di fatto in cui l’educatore è chiamato ad esercitare la sua funzione, ricomprendendo, di conseguenza, la sua figura.
    Anche su questa frontiera mi sembra urgente un’opera concreta di riconciliazione di tendenze che spesso sono vissute come alternative.
    La tradizione educativa (soprattutto quella che ha caratterizzato il servizio ecclesiale) ha sempre fatto grande affidamento sui luoghi formativi ufficiali. Di ragioni ce ne erano davvero molte e non le possiamo certamente cancellare con qualche rapida battuta. Essi, per esempio, rappresentavano uno spazio sicuro e protetto, dove le proposte potevano essere facilmente filtrate e dove era più facile diventare propositivi proprio sulla forza del clima e dei modelli significativi. La convinzione di questa preziosa funzione portava, di conseguenza, a spendere molte risorse per assicurare a questi spazi educativi quel tanto di fascino che poteva funzionare da invito, controllo, sollecitazione.
    Questa è la storia dei nostri oratori, dell’associazionismo, dei gruppi di impegno e di catechesi, delle molte esperienze formative messe in atto.
    Tutto questo è stato attraversato da una ventata contestativa, in cui oscillava la forza di fatti incontrollabili e la seduzione di mille strane ragioni.
    Il luogo educativo per eccellenza è diventata la “piazza” (il gruppo dei pari, i luoghi di incontro spontaneo e non strutturato…).
    Qualcuno ha persino messo in vendita a saldo gli spazi che altri avevano costruito con fatica e amore.
    Anche a questo livello il vissuto ha offerto suggerimenti preziosi. Gli educatori accorti hanno scoperto di non poter “descolarizzare” l’educazione, sperando di poter far diventare luogo di esperienze maturative gli spazi anonimi, impersonali, destrutturati.
    Neppure però possiamo sognare il ritorno ai vecchi schemi: il loro consolidamento richiederebbe “spese” (soprattutto culturali…) sproporzionate e non giustificate.
    Abbiamo bisogno di educatori capaci di collocarsi negli spazi di vita quotidiana dei giovani, intercettandoli nella conoscenza, convivenza, presenza gioiosa e condivisa.
    Nella sua persona e nelle strutture educative ed ecclesiali che sa far funzionare non propone un’alternativa alla vita quotidiana, ma un luogo di verifica, riprogettazione, esperienza di speranza, per assicurare una qualità nuova di vita nella vita di tutti.

    Fare proposte facendo fare esperienze

    Un altro tratto della figura dell’educatore gli deriva dal compito di fare proposte, forti e coraggiose, utilizzando un modello propositivo significativo, coinvolgente, rispettoso della libertà e della responsabilità. Per questo, in questi anni abbiamo spesso legato il “fare proposte” al “far fare esperienze”. Anche questa volta, per ragioni di chiarezza, apro un confronto con i modelli tradizionali, per sollecitare verso alternative.
    In una cultura della oggettività, il diritto e la possibilità di collocare una proposta dove si cerca e si produce il senso della vita, era segnato prevalentemente dalla discriminante vero/falso. Quando una proposta era oggettivamente vera, possedeva il diritto di essere offerta con decisione. Al diritto del proponente corrispondeva il dovere di ogni persona saggia di accogliere. Al massimo, difficoltà e resistenze erano tollerate sul piano della prassi spicciola, per rispetto della costitutiva debolezza dell’uomo.
    Oggi – ci piaccia tanto o poco o nulla – le logiche sono molto diverse. La discriminante è tracciata sulla frontiera della significatività. Solo quello che è sentito come soggettivamente significativo, perché si colloca dentro gli schemi culturali che una persona ha fatto ormai propri, merita di essere preso in considerazione. Ci si interroga sulla verità solo dopo aver risposto affermativamente alla domanda della significatività. Quando la proposta è avvertita come poco espressiva, è fuori gioco, perché è fuori dal gioco personale.
    È facile constatare i limiti dei due modelli. Meno facile risulta l’invenzione di alternative. La mia ipotesi percorre la via della significatività per accedere a quella della verità: fare proposte, facendo fare esperienze. Far fare esperienze è un modo, intelligente e maturante, di fare proposte.
    Chi sollecita altri a fare precise esperienze, gli fa di fatto proposte impegnative e incidenti. Quando una proposta è offerta attraverso una esperienza, essa ritrova una carica particolarissima di significatività. Diventa capace di superare la scorza dell’indifferenza e quella, non meno pericolosa, di una specie di falsa tolleranza che il pluralismo sembra esigere, per toccare veramente le corde dell’esistenza. La forza comunicativa, evocata dalle esperienze, sollecita spontaneamente verso decisioni impegnative e coinvolgenti, anche in un tempo di basso investimento sul piano dei progetti.

    La formazione degli educatori

    La figura di educatore, appena delineata nei suoi tratti più impegnativi, richiede un processo formativo adeguato.
    Lo stiamo ripetendo da tante parti. Spesso, le riflessioni sull’educatore e sulla sua funzione si concludono con la dichiarazione di intenti sulla sua formazione.
    Sono convinto che sia davvero una pregiudiziale fondamentale.
    La questione è un’altra: quale formazione? Se la figura di educatore risulta nuova rispetto a molti modelli tradizionali – come tra le righe è stato ripetutamente ricordato – non può che diventare nuovo il progetto e il processo formativo adeguato.
    In quale direzione? Sono troppo scarse le indicazioni e le realizzazioni di cui dispongo, per tentare suggerimenti seri.
    Questo è un tema che ci ripromettiamo di studiare in un prossimo futuro, su qualche numero della rivista. Per ora rimando alla letteratura disponibile (per esempio: la recentissima pubblicazione dell’Istituto di Teologia pastorale dell’Università salesiana: Pastorale giovanile: problemi – sfide – prospettive). Nell’intervista al Rettor Maggiore dei salesiani, riportata in questo stesso numero della rivista, ci sono indicazioni molto stimolanti, proprio su questo tema.

    RIAFFERMARE L’URGENZA DEL FARE PROGETTI: TRA FANTASIA E STRATEGIE

    L’ultima priorità verso cui mi piace richiamare l’attenzione riguarda una questione su cui, in questi anni, nella comunità ecclesiale italiana si sta discutendo molto, sul piano teorico e, soprattutto, su quello pratico: inserire le logiche progettuali anche nella pastorale giovanile (come abbiamo fatto nell’ultimo decennio… senza risultati entusiasmanti) o liberare l’azione pastorale ecclesiale da queste pastoie, un poco burocratiche e molto poco rispettose dell’affidamento allo Spirito (come qualcuno sta suggerendo con mille interessanti ragioni e con la passione dei fatti)?
    Non è questione di decidere chi ha ragione, perché non compete a me fare da giudice del vissuto, e soprattutto sono convinto che un po’ di ragione stia da tutte e due le parti.
    L’attenzione verso la priorità chiede di verificare le motivazioni di fondo delle diverse posizioni e propone un rilancio del “fare progetti”… con aggiustamenti non piccoli.

    Riaffermare le ragioni del “fare progetti”

    La tradizione educativa e pastorale era poco sensibile all’ipotesi di pensare all’educazione alla fede in termini di progetti, di programmazioni, di metodi. Molti operatori di pastorale avevano l’impressione che questo modo di fare fosse carico del rischio di mettere in secondo piano la consapevolezza che il protagonista assoluto e decisivo di ogni esperienza di fede è sempre lo Spirito di Gesù, per far prevalere la nostra attenzione, la nostra preparazione, in qualche modo persino le nostre astuzie metodologiche. E così l’azione pastorale è stata realizzata all’insegna di una buona volontà che non accettava di essere troppo condizionata da programmi e previsioni.
    Le stesse resistenze riguardavano le scelte e gli interventi a carattere educativo. Restava la consapevolezza che molto dipendesse dall’entusiasmo, dalla passione, dall’esperienza di chi era chiamato ad agire. E se questa persona aveva passioni educative forti, non aveva di certo bisogno di lasciarsi imprigionare da strutture formali. E se poi questa passione forte l’educatore non l’aveva, era davvero inutile immaginare di fargliela crescere attraverso l’elaborazione di tecniche e di organizzazioni procedurali.
    Poi le cose sono cambiate. L’attenzione alle scienze dell’educazione anche nell’ambito dell’educazione alla fede ha spinto coloro che sono impegnati nella pastorale a dare molta fiducia a tutto quello che rientra nell’ambito della progettazione. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una intensa opera di programmazione. È diventato, quello della programmazione, un compito consegnato ad ogni comunità educativa e pastorale. Sul livello di realizzazione di progetti e di programmazioni le comunità sono state ripetutamente invitate a verificarsi.
    Forse a quest’operazione è stata consegnata una fiducia troppo alta. Molte volte gli esiti non sono stati adeguati alla fatica spesa nell’elaborare progetti intelligenti. Non poche volte ci siamo resi conto che quello che era stato pianificato con arte, con passione, con amore, non ha dato certamente i frutti che ci saremmo aspettati.
    Oggi, sotto la spinta di queste constatazioni, il tempo del fare progetti sembra un tempo lontano, e l’invito a inserire nell’azione pastorale una intelligente programmazione sembra una preoccupazione di altre stagioni. Molti operatori di pastorale stanno rilanciando, con espressioni rinnovate, i vecchi modelli in cui tutto era affidato al riconoscimento della potenza dello Spirito di Gesù e all’entusiasmo di chi era impegnato direttamente nell’azione.
    La constatazione è facile. Molto meno facile è decidere come reagire a questa constatazione. Non ci piace né ritornare al passato solo perché il presente lascia deluse molte attese. Ma neppure ci sembra saggio riaffermare senza un minimo di senso critico quello che è stato vissuto, convinti che i limiti possono essere superati, ma in fondo la strada era quella buona. I problemi con cui siamo chiamati a fare i conti ci costringono a ripensare con maggiore capacità prospettica quello che va rilanciato.
    Come collocarci allora di fronte alla contestazione sui progetti o di fronte alla loro riaffermazione?
    Il modello teologico in cui ci riconosciamo e che ha progressivamente ispirato le scelte a cui fa riferimento la nostra rivista, ci sollecita a riaffermare con forza la necessità di farci attenti alle scienze dell’educazione anche nei processi di educazione alla fede e, di conseguenza, ci sollecita ad assumere tutte le metodologie che queste discipline propongono a chi è impegnato nei processi educativi.
    La scelta di fare spazio nell’educazione alla fede a programmazione e a progetti è dunque per noi una scelta fondata su serie ragioni teologiche. Contestarla o eliminarla dal nostro vissuto pastorale significa mettere in discussione il modello teologico globale in cui invece ci riconosciamo a partire dalla meditazione dell’evento dell’Incarnazione.

    Il nuovo ha qualcosa da dirci

    La convinzione di Note di pastorale giovanile che sto riferendo, è precisa, come ho appena ricordato. Il cammino percorso in questi anni rappresenta un punto di non ritorno, nonostante i cambi culturali in atto e le sensibilità nuove che stanno affiorando.
    Ma la ricerca non può chiudersi su questa affermazione. Se facessimo così, giustificheremo l’impressione che quello che in questi ultimi anni sta emergendo in molte comunità e nella coscienza di molti operatori sia soltanto qualcosa da rifiutare come un tentativo di cancellare il bello che è stato vissuto per riandare con nostalgia a scelte di un tempo.
    Pensando con attenzione a quello che è stato realizzato e cercando di riconoscere le ragioni che stanno facendo crescere una certa sfiducia sul fare progetti, ci sembra di incontrare una serie di elementi davvero preziosi. Essi ci spingono a ridisegnare decisamente la figura concreta del fare progetti: è urgente continuare a lavorare per progetti, alla condizione che fare progetti sia seriamente ripensato prendendo atto dei cambi culturali attuali, delle novità che il vissuto ci suggerisce, delle istanze a cui farsi sensibili.
    Il progetto ha aiutato gli operatori di pastorale ad operare con mentalità nuova, al di fuori della superficialità e della improvvisazione, a coscientizzare l’azione educativa, a fondarla con l’aiuto della riflessione pedagogica. Soprattutto il lavorare per progetti ha reso possibile il lavoro comune, la collaborazione e la corresponsabilità nell’elaborazione e nella condivisione dei compiti. Tutto questo ha portato frutti. Non sono mancati però dei limiti. Ed è proprio la coscienza di essi che ci sollecita a operare un coraggioso ridimensionamento.
    Il progetto è diventato, in non poche circostanze, un punto di riferimento eccessivamente obbligante. La definizione delle mete e la scelta degli strumenti con cui intervenire sono stati non poche volte messi davanti alle persone come qualcosa con cui misurarsi senza incertezze. Sono servite per dare dei criteri di verifica abbastanza stringenti, giustificando l’atteggiamento di chi si sente impegnato a dichiarare che cosa funziona e che cosa non funziona.
    Inoltre la logica del progetto sembra immaginare dei modelli culturali stabili, tali da permettere delle previsioni in tempi abbastanza lunghi. Chi cercava di modificare qualcosa sui progetti consegnati si sentiva rispondere che non erano ancora trascorsi i tempi minimi revisionali, e che era necessario usare le risorse per realizzare e non per cambiare.
    E così la fatica di guardare verso il futuro è stata risolta nell’invito a contemplare e a realizzare quello che avevamo già previsto nella direzione del futuro.
    I fatti però sconfessano i piani decennali e anche quelli… quinquennali.
    Gli stessi protagonisti del progetto, gli educatori da una parte e soprattutto i giovani dall’altra, cambiano rapidamente. Molti hanno avuto la percezione che appena conclusa l’elaborazione del progetto fosse tempo di ricominciare da capo, perché coloro di cui il progetto parla e coloro che si sono impegnati per la sua realizzazione non sono più gli stessi di prima. In questa situazione di cambi frequenti e imprevedibili c’è il rischio che un buon progetto sia troppo autoreferenziale: si preoccupi poco dei giovani e degli educatori, per concentrare l’attenzione su quello che è stato deciso e sulle strutture che sono state messe in opera.
    In questi anni si è cercato un rimedio intelligente di fronte a queste difficoltà. Tutti ricordano l’invito a lavorare per itinerari. Si è cercato, in qualche modo, di dare dinamicità al progetto. Qualcuno, con un poco di fantasia, ha parlato di “mettere le gambe al progetto”.
    L’itinerario ha risolto in parte le difficoltà appena denunciate a proposito di progetto. Ma ne ha introdotte altre.
    Chi è abituato ad operare in termini sicuri, rigidi, ha riportato la sua mentalità anche nell’itinerario, e così è riuscito a rendere rigido e statico quello che era stato immaginato mobile e dinamico.
    Sull’altra frontiera non sono mancate le contestazioni, certamente motivate, al rischio implicito nella scelta dell’itinerario, di far passare in secondo piano l’attenzione verso i contenuti, verso quelle espressioni “oggettive” in cui la comunità ecclesiale dice la sua fede e propone la qualità irrinunciabile della vita cristiana.
    Nell’itinerario non era facile infatti trovare uno spazio logico per i contenuti, dal momento che anche le proposte andavano realizzate “facendo fare esperienza”, e all’attenzione verso i contenuti veniva sostituita quella verso gli atteggiamenti.
    Progetto e itinerario sono stati pensati, soprattutto in modo teorico, all’interno di un processo ermeneutico. La traduzione dalla teoria alla prassi concreta, a questo proposito, è stata davvero poco facile. Il confronto ermeneutico è diventato, non poche volte, sollecitazione per partire soltanto dal dato di fatto, ridimensionando le esigenze più oggettive o, al contrario, per riaffermare le esigenze oggettive, soprattutto quelle che riguardano i contenuti, passando un poco sulla testa della realtà.

    Ripensare seriamente al progetto

    Le difficoltà sono serie e le obiezioni motivate. Certamente non è sufficiente riaffermare l’importanza del lavorare per progetti nell’ambito dell’educazione e dell’educazione alla fede dei giovani.
    Quello che abbiamo vissuto, la maturazione acquisita e le critiche avanzate in questi anni ci sollecitano a ripensare con calma al progetto, proprio nel momento in cui ne vogliamo riaffermare tutta l’urgenza.
    Ripensare al progetto significa per noi farci attenti ad alcune dimensioni che dovrebbero caratterizzare ogni buon progetto. Le ricordo.
    Prima di tutto va affermato con forza la funzione strumentale del progetto. Il progetto non è la meta ultima per la cui realizzazione convergono tutte le risorse e sulla cui attuazione vengono attivate le verifiche. Un progetto è sempre e soltanto uno strumento. Se il progetto è buono, cioè è fatto bene ed è gestito in modo intelligente, esso è un strumento buono. Quando il progetto non è fatto bene oppure quando è gestito in modo rigido, non ci permette di arrivare alla meta prevista… anzi ne ostacola seriamente il raggiungimento.
    La meta è un’altra: la vita e la speranza dei giovani, la cui realizzazione vogliamo assicurare attraverso un attento processo di collaborazione, tra persone diverse, che riconoscono il dono della reciproca diversità.
    Il progetto ha solo una funzione strumentale, perché esiste un riferimento esterno al progetto stesso, che riguarda direttamente le singole persone, al cui servizio il progetto si pone. Il progetto si ridimensiona continuamente sulla misura delle persone concrete, e non viceversa.
    Questa consapevolezza introduce nel fare progetti una variabile che davvero non può essere dimenticata: la verifica. La verifica è quella operazione che confronta le tre variabili in gioco: i protagonisti del progetto, la meta verso cui esso tende, la selezione e organizzazione delle risorse, prevista e attuata dal progetto.
    Le tre variabili hanno tutte un peso decisivo per un buon progetto, per renderlo duttile, mutevole, riorganizzabile. La meta individua i bisogni formativi reali dei protagonisti concreti. Quando la meta non è stata raggiunta, una ipotesi da verificare riguarda anche la raggiungibilità e la funzionalità della meta stessa. La selezione e organizzazione delle risorse può essere una causa del fatto che la meta non è stata raggiunta. Non si può raggiungere esiti nuovi utilizzando risorse vecchie, e tutti sanno quanto le risorse vecchie siano dure a morire. La verifica lo valuta e riscrive coraggiosamente il progetto. I protagonisti sono i referenti fondamentali del progetto. Ma vanno accolti, compresi bene, amati nel progetto globale al cui servizio si collocano i nostri progetti educativi e pastorali. Un progetto educativo è, infatti, prima di tutto un processo capace di inserire i soggetti coinvolti in un orizzonte esistenziale globale, finalizzato a scoprire il senso della propria vita, le ragioni di speranza che la percorrono, le condizioni che rendono possibile tutto questo. I progetti istituzionali si collocano, in modo funzionale, all’interno dell’impegno di ogni persona di costruirsi un suo progetto di vita e alla responsabilità che ogni comunità riconosce di avere a questo proposito.
    Un buon progetto senza tempi sicuri di verifica e di riformulazione… è un sogno che non diventerà mai realtà.
    Abbiamo ormai acquisito come dato irrinunciabile la consapevolezza che costruire vita e speranza non è mai un’operazione né isolata né risolvibile in termini individualistici: assieme ci aiutiamo a vivere, assieme mettiamo in crisi la speranza, assieme ricostruiamo un futuro di speranza. Il progetto è condizione indispensabile per poter fare tutto questo tra persone che accettano di collaborare proprio perché mettono in gioco la propria ricchezza esistenziale.
    Per queste ragioni, il progetto non è concepito come il denominatore minimo comune che permette la collaborazione tra diversi, ma diventa il riferimento, maturato assieme, verificato continuamente assieme, per poter veramente mettere le proprie risorse al servizio di esigenze più grandi, che giudicano ogni nostra realizzazione.
    Un buon progetto inoltre assicura la praticabilità. Senza realismo non ci può essere progetto. Realismo significa capacità di sognare mete di futuro con i piedi ben radicati nel presente, di individuare le risorse che siano veramente disponibili per tutti, di decidere di quali risorse servirsi e quali risorse abbandonare nel concreto del confronto tra la situazione delle singole persone e il futuro verso cui ogni persona è in cammino, per creare le condizioni favorevoli al raggiungimento personale della meta che sta dinanzi al nostro cammino.

    Un capitolo nuovo: le strategie

    Abbiamo pensato al progetto come esigenza educativa e pastorale lasciandoci provocare anche dai tempi in cui ci siamo messi a pensare. Se i tempi sono cambiati, anche la nostra fiducia nei confronti del progetto e la sua ricomprensione dovranno tener conto di queste circostanze nuove.
    La frammentazione e la complessificazione investono e attraversano soprattutto i giovani più attenti all’oggi e più inseriti nelle sue dinamiche. Scegliere modelli operativi forti e organici (come potrebbero diventare alcuni progetti) può far correre il rischio di reagire a limiti innegabili, attivando procedure che taglieranno fuori i più deboli, quelli che di fatto sono maggiormente sensibili alle logiche e alla cultura dominante. Anche questo è un modo di fare discriminazione.
    Su queste provocazioni ci siamo messi a pensare. È spuntata così non un’alternativa alla serietà del fare progetti, ma una specie di preoccupazione generale e una esigenza che può servire da apertura e conclusione del fare progetti.
    La chiamo la scelta della “strategia”. Strategia significa indicazione di priorità su cui organizzare le risorse disponibili e elaborazione di sequenze concrete e operative, orientate ad assicurare il raggiungimento della meta prevista.
    Dove sta la differenza tra progetto e strategia?
    Suggerire la scelta delle strategie significa contestare ogni improvvisazione, quel vivere alla giornata e sotto la spinta dei fatti che va tanto di moda in una stagione come è la nostra, e che viene qualche mistificata con parole solenni e devote. La strategia è tutta dalla parte del progetto: ne riconosce l’importanza, per rispettare la serietà del processo e per assicurare la condizione di corresponsabilità e collaborazione in situazione di pluralismo.
    Affermata la continuità, posso ricordare la differenza.
    La strategia assomiglia ad un modo di fare più debole del progetto, che sa scommettere su qualche scelta capace, dal piccolo e dal soggettivo, di raggiungere l’insieme e il tutto. Con una figura, la chiamo l’introduzione nel progetto della logica delle ciliegie.
    Chi vuole servirsi di qualche ciliegia da un piatto di servizio comune e non vuole immergere le sue mani come fossero una pala, spera di riuscire ad afferrare quella ciliegia che sia capace di trascinare con sé molte altre, misteriosamente embricate su quella scelta. Studia i gesti e i momenti… e poi rischia.
    La ciliegia giusta è una strategia saggia. Scegliere la logica, un poco debole, delle strategie significa rischiare di arrivare a quanto si desidera raggiungere, individuando tempi, interventi, collegamenti su cui si scommette.
    L’attenzione verso la strategia, per ridimensionare un poco il processo forte caratteristico del progetto, ne riconosce l’importanza ma si impegna a ridimensionare qualcosa in attenzione alla situazione sociale e culturale dei destinatari.
    Come si nota, non sto suggerendo una inversione di tendenza, dopo il tempo e la fatica dedicati, in questi anni, a pensare in termini di progetti, di itinerari, di processi ben strutturati.
    Tutto questo è urgente: lo era dieci anni fa e continua ad esserlo oggi.
    Nel progetto tutto è stabilito in partenza (obiettivo e metodo), con la possibilità di assicurare una buona verifica, misurando l’esito raggiunto su quello che era stato previsto.
    La categoria dominante è quella della coerenza. Questo va bene ed è prezioso. L’interrogativo dice: è possibile andare oltre?
    Nella strategia il già consolidato e le ipotesi di partenza sono considerate preziose, ma non rappresentano il dato sicuro e il riferimento per la coerenza. L’elemento qualificante è offerto dall’attenzione all’oggi e al presente (in chiave educativa, perché non è mai rassegnazione) e dalla capacità di inventare e di scommettere su direzioni di futuro.
    L’invito ad assumere la prospettiva delle strategie suggerisce la scelta di dare una maggiore dinamicità al progetto e soprattutto di individuare gli elementi particolarmente significativi su cui giocare tutte le risorse, per poter assicurare meglio il raggiungimento della meta del progetto e l’utilizzazione intelligente delle risorse.


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