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    Qualità della vita



    Riccardo Tonelli

    (NPG 2003-04-70)

     

    Chiunque si impegna a fare progetti seri si scontra, presto o tardi, con la questione della “qualità della vita”. “Qualità della vita” significa stile di esistenza, orientamenti e valori in cui ci riconosciamo, insieme armonico degli atteggiamenti verso cui siamo in tensione.
    Dall’ambito culturale ed educativo l’attenzione sulla qualità della vita sta investendo anche i processi relativi all’educazione dei giovani alla fede.
    L’allargamento di prospettiva è corretto?
    Questo contributo cerca una risposta all’interrogativo, affrontando la questione da una doppia prospettiva: prima di tutto indica le ragioni per cui siamo impegnati a pensare alla qualità della vita anche nei processi pastorali; in secondo luogo suggerisce alcune dimensioni concrete di qualità di vita.

    Uno sguardo al vissuto

    Sulla questione il consenso si sta ampliando, perché ciascuno di noi è convinto che ci debbano essere dei punti di non ritorno, nell’educazione e nell’educazione alla fede. Spesso, il richiamo alla qualità della vita funziona come una specie di orizzonte che giustifica l’elenco dei problemi e l’indicazione di prospettive per risolverli.
    Poi, però, quando si tratta di fare scelte concrete e di orientare verso decisioni precise, quello che sembrava pacifico si dimostra, non raramente, assai conflittuale.
    Possono essere tantissimi gli esempi che mostrano quanto sia difficile intendersi sui contenuti della qualità della vita. Ne propongo un paio.
    Tutti sappiamo che senza fatica e senza l’accettazione di una buona dose di sacrifici non si riesce certamente a raggiungere le mete più impegnative. Ne siamo tanto convinti che abbiamo formule magiche a portata di buoni consigli e reagiamo nei confronti di quei modelli educativi che preferiscono rendere tutto facile e annullano ogni riferimento alla rinuncia. Diventiamo facilmente critici nei confronti della cultura attuale che sembra orientata a collocare sul possesso delle cose la soluzione di quei problemi che la tradizione educativa affidava invece alla fatica e al sacrificio. In concreto, però, non ci troviamo mai d’accordo sulla quantità di sofferenza necessaria e preferiamo concentrare gli sforzi sull’impegno e sulla buona volontà e, di fronte all’insuperabile, spostiamo l’attenzione sulla promessa della felicità futura. In molti suggerimenti resta l’impressione che rinuncia e sacrificio non siano parte della qualità della vita e vadano invece considerati come un incidente di percorso da dimenticare in fretta.
    Veniamo da una tradizione educativa che ha parlato moltissimo di “coerenza”. Questo atteggiamento virtuoso era considerato una delle componenti irrinunciabili della maturità personale. In molti modelli educativi, legati alla cultura attuale, la coerenza è invece un ricordo ormai lontano, privo di significato e di prospettiva. Basta un minimo di capacità riflessiva per cogliere le ragioni dell’entusiasmo di un tempo e della crisi dell’attuale. A monte della coerenza sta, infatti, un’antropologia. Quando la scansione temporale privilegiava il passato e interpretava il presente come esito del passato, la coerenza era virtù indiscutibile: aiutava a collocare il presente nella sua radice, lo giustificava o lo orientava. In una scansione temporale tutta centrata sul presente, che ignora o contesta il riferimento al passato, la coerenza (la dipendenza del presente dal passato) perde ogni significato e si riduce a qualche bizzarro frammento di nostalgia. Eppure, il richiamo alla coerenza continua ad essere frequente nelle raccomandazioni educative e pastorali.
    Chi considera il senso del sacrificio e la coerenza come atteggiamenti irrinunciabili anche oggi, avverte la responsabilità di rilanciarli con forza, nonostante le reazioni culturali contrarie. Chi invece ha scoperto ragioni sufficienti per giocare altrove le sue preoccupazioni, potrebbe evitare l’uso di luoghi comuni… se non vuole passare per un educatore che cita il passato perché non sa più cosa dire oggi.
    Gli esempi scelti riguardano l’ambito educativo, in senso stretto. Le stesse preoccupazioni possono essere estese e ampliate anche nei confronti dell’educazione alla fede?

    L’attenzione alla qualità della vita nella educazione alla fede

    L’educazione alla fede è orientata, di natura sua, al consolidamento nell’esistenza personale della decisione di accogliere il dono di salvezza e di novità di vita che la Pasqua di Gesù ha immesso definitivamente nella trama della storia.
    Essa ha come suo ambito e suo oggetto specifico la “vita cristiana”: l’esistenza da creatura nuova nello Spirito del Crocifisso risorto.
    Tutto questo rappresenta una innegabile novità e, di conseguenza, una rottura rispetto alla vita quotidiana, non trasformata dallo Spirito. L’attenzione alla qualità della vita potrebbe essere inutile e, persino, un poco dannosa, se non viene condotta dalla prospettiva del Risorto e dello Spirito che ci ha donato: inutile se pretende di inventare gli orientamenti secondo lo Spirito, dal momento che essi ci sono offerti ormai dal vissuto di Gesù e dei suoi discepoli; dannosa se viene condotta mettendo in secondo piano la radicalità della proposta evangelica.
    Molti lo pensano e non pochi lo teorizzano, cogliendo su questo cedimento uno dei drammi pastorali di questa nostra stagione culturale.
    La prospettiva che orienta queste riflessioni è invece assai differente. Va colta in tutta la sua rilevanza, anche per interpretare bene i modelli di qualità di vita che saranno proposti nella seconda parte del contributo.

    Il centro della vita cristiana: fede, speranza, carità

    La consapevolezza di vivere immersi nella salvezza di Dio e di essere diventati in Gesù Cristo “creature nuove” (come ricorda Rom 8) è una esperienza totale, che unifica l’esistenza. Ad essa fa riscontro la decisione radicale di accogliere questo dono di salvezza, mediante una risposta all’iniziativa di Dio, ancora totale ed unificante. Come ogni espressione esistenziale, questo orientamento globale può essere compreso e manifestato attraverso dimensioni particolari e tematiche. Nella tradizione cristiana, per dire l’orientamento globale della propria vita, si parla spesso di fede, speranza, carità. La fede, la speranza e la carità sono una specie di trama, armonica e articolata, dell’esistenza cristiana, un modo di esprimere a temi la risposta personale dell’uomo a Dio, la scelta radicale di Gesù Cristo come “il salvatore”.
    L’esistenza si fa confessione di Gesù il Cristo, quando l’uomo accetta l’atto rivelatore di Dio nel sì totale della fede: il sì della fiducia e della sottomissione nell’amore. In questo senso, l’esistenza cristiana è esistenza di fede.
    L’esistenza è fiduciosa attesa della manifestazione futura di Gesù. È sperare in lui nel Dio che si promette ad ogni uomo. Così l’esistenza cristiana è esistenza di speranza.
    L’esistenza è anche donazione personale a Gesù Cristo, compiuta nell’amore effettivo per il prossimo. L’amore a Gesù Cristo e, in lui, al Padre che per primo ci ha amati, si concreta nell’atteggiamento di fronte al prossimo: è vero cristiano solo colui che adempie le esigenze dell’amore al prossimo. In questo senso, l’esistenza cristiana è esistenza di carità.

    Vita quotidiana e fede, speranza, carità

    Fede, speranza, carità sono dono di Dio, perché solo in Gesù Cristo è possibile credere, sperare e amare. Sono però un dono che sollecita la risposta dell’uomo e rende l’uomo capace di rispondere. Per questo richiedono disposizioni umane che traducano sul ritmo della esistenza quotidiana il significato di vita che rappresentano.
    Appellano ad un sostegno alla libertà dell’uomo che dia al movimento dialogico, di dono di Dio e di risposta dell’uomo sulla forza di questo dono, una dimensione veramente umana. In ultima analisi, investono la qualità della vita quotidiana e gli interventi educativi che ne servono la maturazione.
    Pensiamo ad un esempio, classico nella riflessione teologica tradizionale.
    1Gv 4 ricorda che non è possibile amare veramente Dio se non si ama il prossimo. La motivazione è legata al fatto che Dio non lo si vede, mentre il prossimo lo si vede. C’è quindi un ambito di intervento concreto, sperimentale (l’amore al prossimo), in cui si manifesta, si realizza, quasi si misura, il proprio rapporto con Dio.
    Ci si può educare ad atteggiamenti di servizio, di promozione dell’altro, di rispetto. O si possono apprendere atteggiamenti di sopraffazione, di manipolazione, di sfruttamento. Si tratta sempre di atteggiamenti umani, che riguardano quell’impegno di progettazione personale che ogni uomo è chiamato a realizzare: sono, in ogni caso, dimensioni di una qualità di vita. Nello stesso tempo, essi hanno un peso determinante nell’atteggiamento fondamentale cristiano della carità teologale. Senza l’abitudine a questi atteggiamenti corrispondenti, non è possibile vivere di carità: affermare di amare Dio significa proclamare il falso, perché non si ama il prossimo. Per fare della propria vita una risposta al dono di Dio nella carità, si richiede una costante disposizione a vivere in atteggiamento di servizio verso il prossimo.
    Il dono teologale della carità diventa atto concreto di carità soltanto in colui che è stato educato a mettersi in atteggiamento di servizio nel confronti dei fratelli. La carità è atteggiamento fondamentale dell’esistenza cristiana. La disponibilità al servizio è atteggiamento corrispondente, acquisito: acquisito perché si sviluppa per via di educazione; corrispondente, perché nel suo formarsi si ispira al dono della carità e abilita a risposte di carità nelle concrete situazioni di vita.
    Le riflessioni fatte a proposito della carità che si fa servizio vanno generalizzate per tutte le dimensioni dell’esistenza cristiana.
    L’esistenza quotidiana è nella verità esistenza cristiana solo quando la maturazione di personalità è orientata verso atteggiamenti umani, sulla linea e nello stile della fede, speranza, carità. In caso contrario, l’orientamento cristiano esplicito e formale, espresso nelle proclamazioni solenni, nelle formule di preghiera, nei richiami e nelle raccomandazioni… resta un fatto vuoto, perché non trova la corrispondenza di una vita che dia consistenza a quanto è espresso.
    Si può dire, in conclusione, che la qualità della vita ha un riferimento tanto stretto con la vita cristiana, da vanificare persino il dono teologale della fede, della speranza e della carità. Sul nostro modo di essere uomini e donne di questo tempo ci giochiamo la possibilità di essere cristiani di questo tempo e di offrire un dono di vita e di speranza a tutti.

    La qualità della vita per vivere di fede, speranza, carità

    Quale “qualità di vita”?
    Qualche esempio concreto sarà suggerito nell’ultima parte del contributo. Non possiamo avere però eccessiva fretta, soprattutto in una stagione come è la nostra, in cui sono in crisi i modelli che vengono dalla tradizione educativa e ci rendiamo conto che senza una acuta operazione di discernimento non possiamo di sicuro affidarci ai modelli dominanti.
    Abbiamo bisogno di un supplemento di riflessione.
    La consapevolezza di quanto sia urgente il capitolo della qualità della vita, ci spinge ad elaborare una specie di criteriologia operativa, a cui affidare la fatica di individuare le sue dimensioni concrete. Il confronto con la fede, la speranza e la carità fornisce un punto di riferimento, ma non risolve da solo il problema.

    Un modello “autentico” di qualità di vita?

    Il lettore attento si è certamente reso conto che nelle cose su cui stiamo riflettendo c’è una specie di onda di ritorno, sempre presente.
    Ci interroghiamo sulla qualità della vita dalla preoccupazione esplicita di assicurare la possibilità di una vita cristiana, in una stagione di profondi cambi culturali come è quella che stiamo attraversando. Continuamente però affiora la constatazione che la preoccupazione sulla qualità della vita non è questione interna alla vita cristiana. Essa riguarda la stessa esperienza umana e la ricerca della sua autenticità.
    Non capita sempre così, quando ci si mette a studiare qualcosa dell’ambito formalmente pastorale. Molte cose sono comuni. Molte altre sono specifiche.
    La riflessione, per esempio, sui sacramenti e sulla loro partecipazione attiva interessa chi è convinto dell’importanza dei sacramenti e ha già fatto una precisa scelta di vita cristiana, anche se sa che questa decisione, come tutte le esperienze umane, deve crescere, verificarsi, consolidarsi. Quello della qualità della vita è invece un tema che riguarda direttamente l’esistenza di ogni uomo e donna. Ci chiediamo non tanto come lavorare per far nascere dei cristiani, ma come aiutare noi e gli altri – tutti gli uomini e le donne di questo nostro tempo – a vivere la loro umanità in modo autentico e pieno. Sappiamo che senza questo livello di maturazione non c’è spazio per una responsabile esistenza cristiana. Ma cerchiamo qualcosa che sta dalla parte di tutti… e non qualcosa che risulta solo funzionale rispetto ad obiettivi “parziali”, anche se preziosi e promozionali, come consideriamo l’esperienza cristiana e la decisione di riconoscere in Gesù il Signore e il Salvatore.
    La ridefinizione di una nuova qualità di vita non propone perciò qualcosa che interessa solo i cristiani, ma qualcosa che riguarda tutti, perché è un problema di vita di speranza, orientato a sperimentare modalità ed esercizio di un fondamento, cercato e accolto, per credere alla vita e fidarsi di essa, nonostante le mille perturbazioni che l’attraversano. Troppi fatti di cronaca quotidiana ne documentano l’urgenza: non rappresentano solo le schegge impazzite di una logica corretta… nasce il dubbio che sia la logica dominante stessa a risultare abbastanza impazzita.

    La fede come ispirazione in una stagione di profondi cambi culturali

    La fede cristiana non fa da spettatore nella trama di questa ricerca. Non possiamo scatenare il confronto ed attendere i risultati, per far scattare poi su essi il proprio lavoro progettuale.
    Per dirci cosa significhi vivere autenticamente la nostra umanità, è indispensabile il confronto con le differenti proposte che oggi si rincorrono nel crogiolo delle culture attuali. Questa convinzione non ci permette la riproduzione passiva dell’esistente. I profondi cambi culturali in atto hanno inciso proprio sulle radici antropologiche della vita e, di conseguenza, della sua qualità.
    Non possiamo però progettare solo guardandoci d’attorno né possiamo raccogliere i contributi che l’oggi ci offre senza prima attivare un coraggioso processo di discernimento critico.
    I cristiani, infatti, possiedono una esperienza di esistenza, che riconoscono normativa per ogni ricerca: la storia di Gesù di Nazareth, raccontata dalla fede dei suoi discepoli, nella Chiesa. Per questo, in ogni ricerca sulla qualità della vita, dichiariamo di lasciarci ispirare da questo progetto.
    Gesù Cristo è riconosciuto infatti come il significato ultimo e definitivo, che s’innesta in ogni autentica, anche se provvisoria, significazione personale. Questo significato, ricevuto per dono, rivela il valore pieno di ogni gesto umano. Assume l’umano e l’amplifica nell’orizzonte del divino. Dona così all’uomo una visione totale della sua esistenza, capace di unificare una vita trascinata tra conflitti e contraddittorietà.
    Nello stesso tempo Gesù Cristo si propone come il criterio profetico e normativo per ordinare, gerarchizzare, autenticare i personali progetti e realizzazioni. Nel riferimento a Gesù Cristo l’esperienza quotidiana trova un criterio di valutazione. Tra i molti progetti di sé, il cui groviglio spesso rende difficile una vera autenticità umana, fede e salvezza orientano verso la verità dell’uomo. Nella fatica quotidiana di realizzarsi in coerenza con il progetto sognato, fede e salvezza consolidano una speranza che supera ogni umana misura.
    Una ricerca sulla qualità della vita è sollecitata a ripensare il vecchio e il nuovo sulla misura del tipo d’uomo e di credente che vogliamo aiutare a far nascere nei nostri giovani. Si pone in ascolto della cultura attuale. Nello stesso tempo, la giudica da quell’orientamento sicuro che è l’esperienza di Gesù di Nazareth e dei suoi discepoli, secondo la testimonianza della comunità ecclesiale attuale.

    Due importanti conseguenze

    Questa riflessione porta a diverse conseguenze. Due almeno vanno ricordate.
    La prima indicazione riguarda la titolarità del processo. Se la qualità della vita è un problema di ogni uomo, non può essere né affrontato né adeguatamente risolto se qualcuno si isola e tenta le sue soluzioni, ignorando o contestando quelle degli altri. Qualcuno ogni tanto ha cercato di farlo… e non abbiamo ancora terminato di rimediare i danni prodotti da questo modo di agire. I cristiani e, in primo luogo, coloro che sono impegnati nell’educazione dei giovani alla fede, lo riconoscono con forza e si pongono come animatori in prima frontiera di un processo di coinvolgimento globale.
    La seconda conseguenza riguarda ancora più direttamente i discepoli di Gesù. La ricerca sulla qualità della vita non è un’avventura verso l’ignoto, dove tutto è da definire come se partissimo veramente da zero. Non è così… se è vero che la qualità della vita è una specie di espressione culturale dei vissuti concreti, anche quando ne diventa la contestazione. Possiamo produrre qualcosa di serio nell’ambito della qualità della vita solo se riusciamo a mettere in programma vissuti nuovi, originali nella prospettiva e profondamente radicati nella grande esperienza evangelica.

    Quale qualità di vita?

    Precisato il quadro teorico, ora incomincia la fatica di passare dai principi alle indicazioni concrete.
    In questi anni molte cose sono state tentate, in ambiti e da punti di vista diversi. È possibile quindi organizzare queste indicazioni sparse e tentare qualche suggerimento.
    Quelli proposti sono soprattutto esempi. Sottolineano alcune dimensioni della vita con cui è necessario confrontare il proprio vissuto nell’attuale situazione culturale e sociale. Proprio perché esempi, non dicono tutte le dimensioni… molte, infatti, sono ancora da cercare e sperimentare.

    Un’esistenza in esodo verso l’alterità

    La prima e più inquietante questione è quella dell’identità. Su questa frontiera si gioca la maturazione umana e cristiana delle persone.
    A riferimento dell’identità e come sua ispirazione fondamentale stanno le risposte che ciascuno offre a domande fondamentali come possono essere queste: chi sono io? cosa mi qualifica e mi definisce? su quali valori imposto la mia esistenza?
    Identità significa, infatti, un sistema integrato di connessioni, come un complesso elaboratore d’informazioni in cui l’ambiente esterno, gli altri, la società, le norme, i valori sono codificati e organizzati in un sistema operazionale interno.
    L’identità è così la mediazione dinamica che lega la persona al mondo. Essa è tutta dalla parte del soggetto, lo delimita rispetto agli altri e lo qualifica, permettendogli di riconoscersi e di essere riconosciuto. Nello stesso tempo è continuamente provocata a riformularsi sotto gli stimoli che provengono dal suo rapporto con l’ambiente esterno.
    Il carattere relazionale dell’identità va compreso come capacità soggettiva di confrontare gli stimoli provenienti dall’esterno con valori che funzionino come normativi delle personali valorizzazioni. Le valutazioni e le operazioni di una persona (e in pratica il suo modo di agire, la sua “condotta”) possono essere perciò considerate come il frutto dello scambio tra la storia personale di ogni individuo e i contributi culturali forniti dall’esterno, attraverso cui tale storia è scritta e vissuta. L’identità assicura così la permanenza e la continuità del soggetto, oltre le innegabili variazioni che in lui avvengono nel corso del tempo.
    Ci vuol poco a constatare quanto sia urgente questo modo di comprendersi.
    Un tempo, infatti, molti suggerimenti educativi spingevano verso una selezione previa nei confronti degli stimoli che la realtà lanciava sulle persone. La catalogazione di “buoni” e “cattivi” (amici, occasioni, luoghi…) in qualche modo funzionava da filtro, rassicurante e protettivo. Oggi sembra del tutto legittimo vivere in modo autonomo ciascuna delle esperienze che compongono il mosaico dell’esistenza. Molte volte l’adattamento sembra l’unica possibilità di sopravvivenza, nel clima di complessità e pluralismo. Così ciascuno tende a far proprie suggestioni e proposte, senza preoccuparsi eccessivamente di verificare la loro coerenza con i valori che la persona ha fatto propri o con i modelli che caratterizzano le reazioni in altri ambienti.
    Questo modo di comprendere l’identità offre già un prezioso contributo per la formulazione della qualità di vita. Non è però sufficiente. Si richiede, infatti, una scelta coraggiosa tra le diverse ipotesi, che oggi si rincorrono nel mercato dei modelli culturali dominanti.
    L’ispirazione evangelica orienta verso una ricomprensione dell’identità personale sulla capacità di decentrarci verso l’altro che ha bisogno di noi e ci chiama, con un grido spesso forse soffocato e comunque molto disturbato. Costruiamo la nostra esistenza solo se accettiamo di “uscire” da noi stessi, decentrandoci verso l’altro. L’esistenza nella concezione evangelica, è quindi un esodo verso l’alterità, riconosciuta come normativa per la propria vita. Una vita decentrata nell’impegno è l’esplosione di tutta la nostra vita quotidiana, perché esistiamo per amore e siamo impegnati a costruire vita attraverso gesti d’amore.

    Una identità nell’affidamento

    Il secondo atteggiamento riguarda il livello di stabilità da assicurare nella costruzione della personale identità.
    Sono diversi i modi in cui possiamo pensare ad una identità stabilizzata. Non possiamo però pensare e progettare in astratto. È indispensabile, al contrario, riferirsi e confrontarsi, in modo critico, con la situazione culturale e strutturale attuale. La costruzione dell’identità non si realizza infatti come in una campana di vetro, isolati dai rumori e dalle tensioni.
    Al contrario, si costruisce in un preciso ambiente, sociale e culturale, che ci preme addosso e ci condiziona fortemente.
    Nel passato appena trascorso dominava una cultura omogenea e unitaria. In quella situazione la spinta alla stabilità era già diffusa nel clima culturale. Gli inviti alla coerenza (alla stabilità cioè tra progetto personale e azione) risuonavano frequenti; e nessuno li contestava, anche quando i comportamenti giravano su altre logiche.
    L’esito era generalmente una identità sicura e unificata, con poche possibilità di devianza dalle norme a motivo del forte controllo sociale.
    Nella situazione attuale, caratterizzata invece da complessità e pluralismo, la costruzione dell’identità e la sua stabilizzazione risentono fortemente dell’influsso destabilizzante di questi tratti tipici del nostro tempo.
    L’esito lo costatiamo ogni giorno. Sta sorgendo, a livello pratico e con una insistita giustificazione anche teorica, un modo nuovo di comprendere e vivere l’identità. Abbiamo più dubbi che certezze, più interrogativi che punti esclamativi. In genere, non usiamo parole dure e solenni; preferiamo invece esprimerci in termini relativi, incerti e fragili.
    Questo modo di fare spaventa coloro che invece sono stati abituati a pensare all’identità secondo i modelli sicuri e forti, che dominavano nel passato. Essi hanno nostalgia di un tipo di identità che assomigli ad un buon calcolatore, capace di realizzare, senza eccessive difficoltà, tutte le operazioni per cui era stato programmato. Quando il calcolatore s’inceppava, la ragione era sempre la presenza, più o meno avvertita, di qualche guasto. E così, bastava l’intervento di un buon tecnico... e tutto tornava a funzionare a puntino.
    L’identità debole sembra quello che ci vuole per un tempo di crisi. Qualcuno dice, giocando con le parole, che questa non è un’identità in crisi, ma l’identità necessaria per sopravvivere in situazione di crisi.
    Sono convinto che sia possibile inventare un’alternativa ai modelli forti e a quelli deboli. Questa alternativa è data dalla capacità di affidamento.
    La stabilità non è cercata né nella reattività verso l’esistente né nella sicurezza che proviene dai principi solidi e stabili su cui si vuole costruire la propria esistenza. Non è però neppure rifiutata come alienante e impossibile, in una situazione di complessità e di eccesso incontrollato di proposte. Sta invece nel coraggio di consegnarsi ad un fondamento, che è soprattutto sperato, che sta oltre quello che posso costruire e sperimentare. Colui che vive, si comprende e si definisce quotidianamente in una reale esperienza di affidamento, accetta la debolezza della propria esistenza come limite invalicabile della propria umanità.
    Il fondamento sperato è la vita, progressivamente compresa nel mistero di Dio. Il gesto, fragile e rischioso, della sua accoglienza è una decisione giocata nell’avventura personale e tutta orientata verso un progetto già dato, che supera, giudica e orienta gli incerti passi dell’esistenza.

    Capacità di interiorità

    Il terzo atteggiamento rilancia una dimensione, veramente urgente, per una qualità di vita vivibile in una stagione di complessità e di pluralismo.
    Siamo tutti alla ricerca di orientamenti e valori su cui giocare la nostra vita. Alla convinzione fa riscontro la difficoltà di dove trovare questi valori… e di come attivare il confronto con quelli che quotidianamente incontriamo.
    I valori non li recuperiamo da un deposito, terso e protetto, e neppure li ereditiamo dalla nascita. Essi sono diffusi nel mondo quotidiano, con tutte le tensioni e le difficoltà di cui esso è segnato. Li assumiamo per confronto e per educazione. Sono più oggetto di esperienza che frutto di studio e di conoscenza.
    È difficile e poco praticabile immaginare un controllo selettivo sui valori attorno cui costruire e stabilizzare la propria identità. La situazione di complessità minaccia proprio questa possibilità. In un ambiente come è questo, diventa condizione irrinunciabile di maturazione la capacità di comprendersi e di progettarsi dal silenzio della propria interiorità. In questo spazio di esigente e indiscutibile soggettività la persona valuta e interpreta tutto, prende le proprie decisioni, soffre la faticosa coerenza con le scelte.
    Interiorità, infatti, dice spazio intimissimo e personale, dove tutte le voci possono risuonare, ma dove ciascuno si trova a dover decidere, solo e povero, privo di tutte le sicurezze che danno conforto nella sofferenza che ogni decisione esige. Il confronto e il dialogo serrato con tutti sono ricercati, come dono prezioso che proviene dalla diversità. La decisione e la ricostruzione di personalità nascono però in uno spazio di solitudine interiore, che permette, verifica e rende concreta la “coerenza” con le scelte unificanti la propria esistenza.

    Oltre quello che si vede...

    Un altro atteggiamento da ricostruire nella trama della vita quotidiana per la sua qualità, riguarda il senso del mistero.
    Siamo abituati a considerare vero e reale solo quello che possiamo manipolare. La nostra cultura parla attraverso le immagini. Per questo siamo diventati presuntuosi e saccenti. Per ogni cosa abbiamo una spiegazione e di ogni avvenimento sappiamo responsabilità, positive o negative. Se qualche male ci sovrasta, ne conosciamo il rimedio o, almeno, è solo questione di giorni: presto o tardi, troveremo il nome giusto per identificarlo e gli strumenti adeguati per risolverlo.
    Non possiamo trovarci a nostro agio in questo modo riduttivo e falso di vedere la realtà.
    Nei fatti della nostra vita ci sono delle cose che si vedono e ce ne sono molte altre che invece restano nascoste. Di solito, è facile distinguere tra ciò che si vede e ciò che non si vede. Vedo l’amico che è fisicamente presente vicino a me. Posso sentire la sua voce, gioire (o rammaricarmi) della sua presenza. Questa non è l’unica presenza possibile. Altre persone sono vicine anche se, in questo momento, non lo sono fisicamente.
    Non le possiamo vedere, se non con gli occhi dell’amore e della fantasia. In questi casi è chiaro ciò che si vede e ciò che non si vede.
    Il gioco tra ciò che si vede e ciò che non si vede non va inteso come la differenza tra un amico che sta fisicamente vicino ed un altro, egualmente simpatico, che non è in questo momento vicino fisicamente.
    In un avvenimento e in una persona, possiamo vedere ciò che, in qualche modo, può essere toccato con mano. Riconosciamo però che non finisce tutto lì. In una persona amata c’è un mistero, grande e profondo, che tutta l’avvolge.
    Questa realtà invisibile e misteriosa è tanto decisiva da avvertire la persona stessa in un modo specialissimo. Quello che non si vede diventa la categoria attraverso cui impostiamo il nostro giudizio e il nostro rapporto con quello che si vede.
    In questo caso, non valgono le leggi del presente e dell’assente. Il rapporto tra ciò che si vede e ciò che non si vede riguarda una persona “presente” o un fatto di cui sono protagonista. Quello che resta misterioso a prima vista decide fortemente la mia reazione nei confronti di quello che vedo.
    Anche questa esigenza ci porta molto al di là delle logiche dominanti. Pensiamo di “conoscere” persone, avvenimenti, fatti… solo perché li abbiamo visti, abbiamo preso parte ad essi, ne riconosciamo il volto tra tanti. Riconosciamo gli eventi… ma non li conosciamo, se è vero che conoscere significa cercare di cogliere avvenimenti e persone nella loro pienezza e autenticità, sapendo controllare e superare il fascino che seduce o conquista.
    Ridefinire l’identità nella capacità di decentrarci verso l’altro che ha bisogno o di affidarci a chi attraversa la nostra esistenza, richiede, di necessità insostituibile, la conoscenza piena di persone e avvenimenti, quella conoscenza che proviene dall’incontro personale con il mistero che ciascuno è e si porta dentro.

    Vivere nell’esperienza della finitudine

    Una quinta dimensione di qualità di vita è la capacità di vivere, in modo autentico, l’esperienza della propria finitudine.
    Si tratta di una esigenza che si pone coraggiosamente come alternativa a molte delle logiche dominanti.
    Certamente esistono molti “limite” nella vita di ogni uomo. Spesso dipendono da cause note e controllabili, anche se non facilmente superabili. Altri, come il dolore e la sofferenza, dipendono dalla struttura fisica della nostra esistenza. Contro i primi impariamo a ribellarci, eliminandone le radici, dentro e fuori di noi. Con i secondi ci abilitiamo a convivere, per amore di verità.
    C’è una situazione di limite, che tutti ci pervade e attraversa inesorabilmente la nostra esistenza: la morte incombe su di noi proprio perché siamo vivi. Non ci sentiamo rattristati da questa condanna. L’esperienza più bella, quella di essere vivi, si porta dentro la traccia indelebile del limite che l’attraversa.
    L’esperienza della finitudine corrisponde a questo modo di vivere il confronto con il limite che attraversa la nostra esistenza, l’impegno di superarlo dove è superabile, la gioia di conviverci per stare nella verità, quando esso è dimensione costitutiva della nostra esistenza. Sul confine della finitudine, l’uomo si ritrova “diverso” dalle cose e dagli altri esseri viventi. Entra nel mondo, affascinante e misterioso, di una esistenza originale… che spalanca veramente verso la capacità di affidamento.

    Una solidarietà che diventa responsabilità

    Un altro atteggiamento importante per la qualità della vita è la solidarietà che diventa responsabilità.
    Quello della solidarietà è un atteggiamento da comprendere bene. Esso rappresenta un punto di scontro tra la logica del Vangelo e quella dominante. Spesso è stato compreso in modo riduttivo anche dai cristiani. Basta pensare ai modelli che proponevano la solidarietà come privazione volontaria e ingiustificata delle cose per motivi religiosi o, peggio, come consegna del superfluo a chi era privo del necessario.
    Al contrario, la solidarietà da recuperare e da realizzare, inventando modalità ed espressioni, è quella che Gesù ha vissuto, come ci propone il Vangelo. In lui la povertà non è fine a se stessa, ma rivelazione di amore: condivisione che si esprime nel dono.
    Delle cose abbiamo il diritto di essere signori. Ci sono state affidate dall’amore di Dio creatore. Il problema grave è un altro: cosa significa possedere?
    I modelli culturali dominanti ci suggeriscono una figura di possesso che è legata all’avere, al tener stretto, al difendere con i denti. Più cose abbiamo e più riusciamo a stringerle forte, strappandole magari a più deboli, e più siamo vivi.
    Secondo la logica evangelica, perdere per condividere è invece la condizione per assicurare più intensamente il possesso. Distacco vuol dire perciò consapevolezza crescente di una solidarietà che diventa responsabilità.
    Le cose sono per la vita di tutti. Quello che possediamo, ci appartiene. Ma tutti hanno il diritto di chiederci conto del suo uso. Solo in una condivisione che permette a tutti il diritto al possesso, possiamo davvero esprimere la nostra signoria sulle cose.
    Per questo, la solidarietà nasce e si manifesta nella responsabilità: è risposta ad un diritto di tutti sulle cose di ciascuno.
    La solidarietà non riguarda solo le cose. Investe anche la relazione con le persone. Anche nei confronti delle persone siamo sollecitati a progettare un distacco progressivo che diventa condivisione della gioia che nasce dalla compagnia reciproca.
    Il distacco non spegne il ricordo e non brucia la capacità di generare ancora ragioni per vivere, solo se, nell’avventura con gli altri, abbiamo saputo costruire amore e libertà, servendo spassionatamente la gioia di vivere di tutti, la capacità di sperare, la responsabilità di crescere come protagonisti della storia personale e collettiva.
    Quando la nostra presenza si fa ossessiva, quando cerchiamo a tutti i costi di dominare la mano che chiede un aiuto, quando facciamo prevalere il nostro interesse su quello degli amici... non viviamo nel distacco. Cerchiamo di afferrare qualcosa che poi la morte mi strapperà violentemente. Resteremo così senza quello che abbiamo cercato di possedere e la nostra partenza sarà accolta come una liberazione.
    Quando invece viviamo nell’amore che si fa servizio, fino alla disponibilità a “dare la vita perché tutti ne abbiano in abbondanza”, anticipiamo nel quotidiano quel distacco a cui la morte mi costringerà, presto o tardi. Il nostro ricordo resta, forte come l’amore.
    La solidarietà, diventata responsabilità, aiuta veramente a vivere e a sperare.

    Una matura esperienza di libertà

    A garanzia di un corretto rapporto verso le cose e le persone, la nostra cultura pone la legge e le istituzioni che la esprimono e la garantiscono.
    Le istituzioni e le leggi hanno il compito di guidarci nell’amore. Ma spesso schiacciano l’amore. La legge viene disattesa o piegata verso il favore di qualche persona o di qualche gruppo. L’istituzione diventa impersonale e ossessiva e serve solo a ratificare il sopruso acquisito.
    Una matura qualità di vita esige una capacità nuova di assumere il rispetto alla legge e alle istituzioni che la esprimono.
    In che direzione?
    Anche in questo ambito non basta richiamarsi al Vangelo per sapere cosa fare in concreto. Il riferimento a Gesù e al suo messaggio offrono però un punto decisivo di ispirazione.
    Gesù raccomanda l’osservanza delle leggi fino ai particolari più piccoli: una virgola o un accento trasgredito bastano per finir male (Mt 5, 17-19). E poi... quando c’è di mezzo la vita, infrange una delle leggi più sacre, quella del sabato, con estrema tranquillità, disposto a scatenare reazioni dure da parte dei suoi nemici (Gv 5, 1-18).
    Alla fine viene condannato a morte come trasgressore della Legge, lui che si era impegnato per la sua vera osservanza, contro ogni forma di legalismo della Legge.
    La sua vita ci insegna un modo originale di vivere nella legge.
    La Legge è una sola: dare vita dove c’è morte, perdendo la propria perché tutti possiamo averne piena e abbondante. Le altre leggi – tutte, anche se a livelli diversi – sono importanti. Spesso rappresentano la via obbligata per far nascere vita. Qualche volta le esigenze della vita sono tali da costringerci alla libertà della trasgressione. Sempre, sono così urgenti da sollecitare a trapassare l’osservanza della legge: fino, veramente, a dare la vita.

    Il perdono: un modo di dichiarare chi è il più forte

    Di fronte alle situazioni di ingiustizia e di malvagità non possiamo chiudere gli occhi, in modo rassegnato e pauroso. Al contrario, siamo sollecitati a denunciare, con estrema lucidità, tutto ciò che distrugge l’uomo, la sua vita e la sua speranza.
    In questa operazione, che condividiamo con tutti coloro che amano veramente la vita, abbiamo un impegno di vita fondamentale e originale: il perdono.
    Esso rappresenta un altro degli atteggiamenti da ricostruire per una qualità di vita matura.
    Il perdono non è il gesto sciocco di chi chiude gli occhi di fronte al male per il timore di restarne troppo coinvolto o quello pericoloso di chi giustifica tutto, per rimandare la resa dei conti ai tempi che verranno. Il perdono è un gesto di profonda lucidità, un gesto che vuole spezzare l’incantesimo del male, rompendone la logica ferrea.
    Nel perdono viviamo una solidarietà originale con la croce di Gesù: la debolezza e la sconfitta (la croce) è vittoria della vita, quando viene vissuta come disponibilità all’amore e affidamento al progetto di Dio.
    Possiamo affidarci a lui, consegnando al mistero di Dio la nostra voglia di vita e di felicità e la paura che il dolore e la morte scatenano, solo se riusciamo a ricostruire un rapporto giocato all’insegna della gratuità.
    La mancanza di gratuità porta a riconoscere come importante solo quello che assicura un guadagno. La riconquista della gratuità dell’amore porta, invece, all’avventura della speranza: la fede diventa consegna della propria esistenza ad un fondamento, che è soprattutto sperato, che sta oltre a quello che posso costruire e sperimentare.


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