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    Appartenenza


    Riccardo Tonelli

    (NPG 2003-03-42)

    Appartenenza è una parola utilizzata in diversi contesti. Essa indica l’atteggiamento che una persona ha nei confronti di una istituzione sociale. Esiste appartenenza quando una persona si riconosce tanto in una istituzione da far propri i valori e i progetti che la caratterizzano.
    I modelli educativi e pastorali tradizionali non si ponevano la questione dell’appartenenza ecclesiale, perché la funzione della comunità cristiana in ordine alla vita cristiana rappresentava un dato pacifico. Nessuno, infatti, almeno all’interno della Chiesa, metteva in dubbio che la vita cristiana richiedesse un riferimento costante con la comunità ecclesiale e che vivere di fede significasse ripetere le formule che essa proponeva. Era forte la convinzione che bastavano i legami giuridici (battesimo) e quelli istituzionali (partecipazione alle celebrazioni sacramentali) per assicurare la funzione della comunità ecclesiale.
    Oggi, i profondi cambi culturali in atto mettono in crisi, in modo più o meno riflesso, la funzione stessa della comunità ecclesiale. Il passaggio dal mondo dell’oggettività a quello della soggettività richiede una decisione personale, continuamente rinnovata, per assicurare i contributi formativi, offerti da una istituzione.
    Alla radice sta la riscoperta di una esigenza irrinunciabile, quella della libertà e responsabilità personale anche nella vita di fede, anche se, purtroppo, questa crescita in maturazione è minacciata da un diffuso atteggiamento privatistico e individualistico.
    Il cambio di prospettiva si è trascinato dietro la ricerca di una espressione capace di dire, in poche battute, l’insieme delle difficoltà e per immaginare soluzioni. Per questo, anche nell’ambito pastorale, si è incominciato a parlare di appartenenza ecclesiale e ci si chiede come educare al senso di appartenenza.
    Attorno alla espressione “appartenenza ecclesiale” si concentrano, di conseguenza, molte questioni: la necessità di riaffermare e precisare la funzione della comunità ecclesiale nella maturazione della fede; la ricerca delle condizioni di esercizio di questa funzione; la proposta di prospettive operative.
    Su queste tre questioni si articola la mia riflessione.

    La funzione della comunità ecclesiale

    Sappiamo che vivere di fede esige la capacità di uno sguardo complessivo e globale, che corre da quello che si vede a quello che non si vede. L’impresa è tutt’altro che facile: sballottati sull’onda di mille suggerimenti, diventa difficile vivere di fede: non perché ci facciano problema i suoi contenuti, ma perché ci inquieta il suo collegamento con il senso della vita.
    Quando possiamo dire a noi stessi di aver veramente incontrato l’evento di Dio nelle pieghe della nostra vita quotidiana?
    Non possiamo certamente pronunciare la parola della nostra fede con la stessa saccente sicurezza con cui intessiamo i nostri affari e srotoliamo le conquiste della nostra scienza. Ma non vogliamo neppure illudere noi stessi e gli altri, contrabbandando come esperienza dell’invisibile quello che invece è solo frutto dei nostri sogni e delle nostre illusioni.
    Qui si pone il significato, la funzione e il dono della comunità ecclesiale.

    La comunità ecclesiale come sacramento

    Il Concilio ricorda la funzione della Chiesa con un’affermazione impegnativa: “La Chiesa è in Cristo come un sacramento, cioè un segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano” (LG 8). Cosa significa operare come sacramento?
    Anche a proposito della comprensione di cosa sia sacramento, non siamo esenti dal rischio di ripetere affermazioni che sono state pensate e costruite all’interno di modelli culturali molto diversi dagli attuali. Basta pensare a come erano compresi e vissuti i sacramenti in una visione teologica orientata sulla separazione tra il mondo della trascendenza, l’unico in cui Dio sta di casa, e il mondo della vita quotidiana, dove è assente.
    È urgente ripensare al significato dei sacramenti in quella prospettiva teologica, fondata sull’Incarnazione, che ha riconciliato il mondo di Dio e quello dell’uomo, per comprendere la funzione e i compiti della comunità ecclesiale.
    Mi piace utilizzare una espressione, di cui riconosco tutto il limite: “esplosione simbolica”. I sacramenti sono come una “esplosione simbolica” della presenza, diffusa e pervasiva, di Dio nella nostra quotidiana esistenza.
    Cerco di spiegarmi un poco.
    Il segno è un intreccio di cose e di significati. Il bacio è una “cosa”; l’amore è il suo significato. Il pane è una “cosa”; quando esso viene spezzato e condiviso, diventa esperienza di amore.
    Spesso il significato resta misterioso, perché le cose sono mute per uno dei due interlocutori. Le ragioni di questo silenzio possono essere molte: la realtà di cui si vuole parlare è indicibile o è passibile di diverse e svariate comprensioni o sfugge all’attenzione pratica dell’interlocutore.
    Il silenzio è infranto quando si pone un segnale dotato di particolare forza espressiva per convenzione sociale o per la sua capacità evocativa. In questo caso, il segno crea coinvolgimento, attenzione, decisione. Si realizza, in altre parole, una specie di “esplosione simbolica”: quello che prima era nascosto, silenzioso, lontano dall’attenzione, ritrova tutta la forza di cui è carico, fino a sollecitare verso qualcosa che altrimenti sarebbe impensabile.
    Per produrre qualche esempio, penso, ancora una volta, alla nostra vita quotidiana.
    Qualche volta, le persone che si amano sono costrette a restare lontane. Non conta né la distanza né il tempo. L’amore ha ritmi, logiche e misurazioni tutte sue.
    Finalmente però si realizza l’incontro tanto atteso e sognato. Le due persone sono l’una nelle braccia dell’altra. L’amore sta dentro la vita. Non si è spento nonostante l’attesa. Adesso finalmente esplode, in tutta la sua forza.
    Quell’abbraccio prolungato e le due lacrime che solcano il viso sono una esplosione simbolica di un amore diffuso e persistente.
    Altre volte, purtroppo, una nube ha velato l’amore. C’è il greve sapore del tradimento. Qualcosa sembra frantumarsi. Poi ci si riprende. L’abbraccio spegne la paura e il sorriso ritorna. Anche questo è un sacramento: una riconciliazione manifestata nel gesto, che esprime la gioiosa fatica della riconciliazione ricostruita nel tessuto della vita.
    La stessa cosa vale, per fare un altro esempio, per il perdono. L’offesa è ormai dimenticata. Riaffiora ogni tanto il ricordo... ma viene decisamente cancellato dall’impegno di ricostruire rapporti nuovi. La voglia di perdono è presente nel cuore delle due persone che hanno litigato. Un giorno si incontrano. Si confrontano con uno sguardo pieno di eloquenza. Si stringono la mano: un gesto che dice forte quello che, frammento dopo frammento, hanno saputo ricostruire.
    Faccio un altro esempio.
    Un giovane ha deciso di dedicare tutta la sua esistenza al servizio di Dio nel servizio dei fratelli. Ha coltivato la sua decisione nel silenzio sofferto dei lunghi giorni di preparazione. Finalmente, nel giorno della sua professione religiosa o in quello della consacrazione sacerdotale, proclama forte, davanti a tutti, la sua decisione irrevocabile. È un gesto forte e solenne, che esprime una scelta di vita diffusa nel ritmo della quotidianità.
    Questi segni esterni rendono “più” presente il significato delle cose, perché, togliendo il velo di opacità che le nasconde agli occhi distratti dell’uomo, le fanno esplodere in tutta la loro forza interpellante e propositiva.
    In questo modo, il silenzio è rotto. La parola pronunciata risuona, alta e interpellante, costringendo ad una scelta personale.
    Il bacio, la stretta di mano, la proclamazione pubblica della propria decisione di dedicare tutta la propria vita al servizio di Dio e dei fratelli sono una esplosione simbolica di quell’orientamento di vita che percorre tutta l’esistenza. In qualche modo, rendono presente, in modo perentorio, a tutti i protagonisti, quello che altrimenti resterebbe nascosto e, forse, un po’ sopito.

    La funzione sacramentale della comunità ecclesiale

    La Chiesa opera per la salvezza come “sacramento”: manifesta efficacemente la salvezza, in una concentrazione simbolica così intensa da sollecitare ogni persona a decidersi per l’offerta di questa grazia. Non esercita questo ministero solo in modo strumentale: essa è la salvezza di Dio presente nella storia quotidiana, nel momento in cui la rende visibile e interpellante.
    Comunità ecclesiale e processo di salvezza sono perciò due realtà distinte, ma molto interdipendenti, come il sacramento è diverso dall’effetto che produce e, nello stesso tempo, è profondamente ad esso relazionato.
    Il processo di salvezza è l’attuazione e assimilazione personale della salvezza. Si tratta di un atto libero, in cui ogni persona esprime la propria decisione in ordine alla salvezza. Questa decisione non viene “amministrata” dalla Chiesa. Riguarda il dialogo misterioso e intimissimo tra Dio e ogni uomo. Investe l’attuazione nel tempo del Regno di Dio il cui ambito è molto più ampio dell’ambito costatabile della mediazione ecclesiale.
    La comunità ecclesiale ha il compito di favorire, di sostenere il processo di salvezza. Crea le condizioni perché esso possa svolgersi nell’imprevedibile dialogo tra l’amore interpellante di Dio e la libertà e responsabilità dell’uomo, a livello personale e collettivo.
    Se consideriamo il “contenuto” di questa mediazione sacramentale (la salvezza), possiamo anche comprendere in che modo la Chiesa esercita la sua funzione sacramentale.
    La salvezza è la costruzione nel tempo e la costituzione in definitività della comunione degli uomini con Dio e tra loro. La funzione sacramentale della Chiesa è perciò legata alla manifestazione e alla esperienza di una ricostruita comunione. La Chiesa può manifestare efficacemente la salvezza, perché “è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio di tutto il genere umano” (LG 1). Essa è però fedele alla sua identità, opera cioè in modo sacramentale per la salvezza, nella misura in cui favorisce l’esperienza di una comunione così intensa e sconvolgente da sollecitare ad una decisione personale per la ragione, ultima e radicale, di questa comunione.
    Anche se la decisione per la salvezza è sempre un atto strettamente personale, la salvezza investe la persona attraverso la comunità ecclesiale.
    La comunità ecclesiale è come il grembo materno in cui si compiono la decisione per la salvezza e le azioni cristiane che conseguono. La solidarietà del singolo con gli altri è così profonda che il suo personale essere salvo non può venire separato dal suo essere nella comunità.

    L’appartenenza per restituire alla comunità ecclesiale la funzione sacramentale

    La sensibilità culturale ed educativa attuale ci porta a constatare che le proposte possono essere accolte e vissute solo se sono espressione di una istituzione riconosciuta come significativa: prima sta l’identificazione con l’istituzione e poi viene il riconoscimento delle sue proposte. L’identificazione è infatti quel processo che spinge una persona a far propri valori e progetti in un vissuto affettivo sorto a causa del suo inserimento in una situazione collettiva.
    La funzione sacramentale della Chiesa è legata alla identificazione: la Chiesa esercita la sua funzione sacramentale “concretamente” (cioè in situazione) solo quando si realizza una identificazione alla sua struttura istituzionale. Il senso di appartenenza (che scatena e sostiene l’identificazione) risulta così la condizione pregiudiziale per assicurare alla comunità ecclesiale, nel realismo delle situazioni quotidiane, la possibilità di svolgere la sua missione. Senza identificazione la sacramentalità della Chiesa in ordine alla salvezza risulta vanificata: ciò che è vero in sé, non lo è di fatto per le concrete persone.
    Un’altra condizione va però affermata con forza: la comunità capace di assicurare identificazione non può essere una comunità qualsiasi. La comunità a cui si decide di appartenere e che sostiene il senso di identificazione deve risultare una comunità “ecclesiale” autentica. Se l’identificazione non è assicurata nei confronti di questa comunità, perdiamo quella funzione salvifica che, al contrario, vogliamo consolidare: solo l’autentica comunità ecclesiale è pienamente “sacramento di salvezza”.
    L’appartenenza va quindi sperimentata nei confronti di una comunità che sia effettivamente “Chiesa”.
    L’essere oggettivamente Chiesa o il non esserlo, dipende da esigenze ecclesiologiche, che ci riportano al progetto di Gesù e alla Tradizione ecclesiale ufficiale.

    Compiti educativi

    A proposito delle condizioni di ecclesialità la letteratura teologica è abbondante. Tutti i testi di ecclesiologia ne parlano e non mancano documenti magisteriali a cui ispirarsi. Purtroppo, invece, è scarsa la documentazione relativa alle condizioni educative che possono assicurare un rapporto di identificazione con la comunità ecclesiale.
    Su questa grossa questione si apre il terzo livello della mia riflessione: come assicurare l’esercizio delle condizioni di appartenenza, in questa concreta situazione culturale?
    Due preoccupazioni orientano la mia ricerca: l’invenzione di modalità nuove e l’esperienza di luoghi concreti.

    Condizioni per l’appartenenza

    Il primo compito educativo riguarda proprio la consapevolezza della meta verso cui orientare le risorse e la loro organizzazione. Non credo sia possibile parlare oggi di appartenenza (alla comunità ecclesiale come ad altre istituzioni) secondo lo stesso schema con cui ne abbiamo parlato tempo fa.
    Abbiamo superato molti modelli solo giuridici: il loro eccesso era costituito dalla constatazione classica di appartenere alla Chiesa solo per ragioni geografiche… come è italiano chi è nato nello stato italiano così è cristiano chi è nato in uno stato di confessione cristiana. Ma c’è ancora molto da fare per ripensare condizioni operative, ben situate, capaci di consolidare un maturo senso di appartenenza.
    Traducendo l’abbondante letteratura tecnica in modalità pastorali, posso tentare di indicare le condizioni educative che misurano e consolidano l’appartenenza ecclesiale.
    Quattro mi sembrano le più decisive:
    – Si richiede prima di tutto un minimo di interazioni dell’individuo con l’istituzione a cui si vuole appartenere. Questo minimo non va pensato in termini giuridici, ma secondo le logiche della dinamica di gruppo (condivisione degli obiettivi, percezione del significato funzionale del gruppo, accettazione delle norme e dei ruoli, esperienze di gratificazione...).
    – Occorre anche la conoscenza e l’accettazione del sistema di valori, credenze e modelli che determinano la proposta oggettiva dell’istituzione in questione, fino a definire progressivamente in essi il personale progetto di vita. Nel caso della comunità ecclesiale, questo processo comporta l’acquisizione e il consolidamento dei contenuti dell’esperienza cristiana, la partecipazione affettiva ai gesti e ai riti, il riconoscimento di una funzione magisteriale, l’adozione dei modelli proposti per la soluzione dei personali problemi.
    – Si richiede inoltre l’esperienza soggettiva di essere accettato nell’istituzione. E questo suppone l’inserimento in una trama di rapporti né burocratici né formalizzati, un’ampia distribuzione di informazioni e di ruoli, un insieme di persone non troppo vasto.
    – In un tempo di pluralismo, si richiede infine la capacità di armonizzare a livello personale le diverse appartenenze, per elaborare i conflitti che ne scaturiscono, integrando e controllando le differenti proposte attorno ad una appartenenza che funzioni come riferimento totalizzante.

    Nuovi soggetti per l’appartenenza

    L’analisi dei cambi culturali in atto ha messo in evidenza quanto la crisi di appartenenza istituzionale sia oggi diffusa. La constatazione vale per le istituzioni in genere; investe anche la stessa comunità ecclesiale. Le istituzioni ecclesiali ufficiali (parrocchie, chiese locali, organismi tradizionali...) hanno perso oggi molto di significatività, per motivi di credibilità interna e per la crisi generale che ha investito ogni agenzia educativa. Soprattutto riesce difficile vivere reali esperienze comunitarie per l’anonimato e la marginalità di queste strutture.
    Siamo impegnati, di conseguenza, ad immaginare istituzioni ed esperienze associative capaci di assicurare un maturo e ampio senso di appartenenza ecclesiale. Il significato e la funzione di queste istituzioni si misurano in rapporto alla capacità di creare identificazione, diventando significative per le persone concrete e trasparenti rispetto al mistero di cui sono sacramento, per sollecitare alla sua accoglienza.
    Anche questa è un’esigenza irrinunciabile. La sua considerazione sposta immediatamente l’attenzione verso la ricerca di nuove “esperienze” ecclesiali.
    Non ho intenzione di scendere al concreto: l’abbiamo già fatto tante volte nelle pagine della rivista. Mi sta a cuore sottolineare il percorso, per coglierne l’originalità.
    I modelli pastorali tradizionali utilizzavano questo percorso: l’istituzione ecclesiale porta a Gesù e a vivere la vita cristiana. Punto di partenza era l’appartenenza (anche se non si utilizza questa espressione) alla Chiesa… da essa scaturivano la vita di fede e la vita etica.
    In una stagione di crisi di appartenenza e di soggettivizzazione rispetto alle istituzioni, dobbiamo riscoprire un altro percorso: i piccoli gruppi dal respiro ecclesiale ed alcuni testimoni significativi fanno incontrare la persona di Gesù e il suo messaggio; l’incontro con Gesù conduce alla scoperta della Chiesa (come istituzione “grande” e concreta, nonostante i limiti e riscoprendo i valori…); la decisione di vivere la propria esistenza nella Chiesa spinge ad una qualità di vita da discepoli di Gesù.
    Qui si colloca la scoperta del gruppo ecclesiale, il riconoscimento del significato delle piccole comunità ecclesiali e dei movimenti, la funzione fondamentale delle comunità religiose di vita, condivisione, esperienza.


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