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    Educare all’obbedienza «pastorale»


    Riccardo Tonelli

    (NPG 2002-09-46)


    L’obbedienza, la sua esperienza e la sua educazione sta a cuore a tutti. Su questa esigenza, però, se ne dicono tante che è difficile dare per scontato l’accordo, al di là delle apparenze.
    Qualche educatore riafferma l’obbedienza con forza, utilizzando le stesse espressioni di un tempo e lamentandosi che in una stagione di soggettivizzazione le sue preoccupazioni cadono nel vuoto.
    Altri cambiano le espressioni, ma basta un minimo di lavoro interpretativo per constatare che la sostanza è quella di sempre, negli stessi presupposti teologici e antropologici.
    Qualcuno cerca vie nuove… ma fatica a scoprirle anche perché si fatica non poco a viverle.
    Qualche altro ha ormai alzato bandiera bianca e si sta rassegnando al meno peggio.
    E così questa esigenza che sta a cuore a tutti, finisce proprio tra le cose più dimenticate.
    Noi educatori sappiamo di non poterci rinunciare. Se poi facciamo riferimento ad un quadro religioso diventa davvero difficile dichiarare definitivamente chiuso il tempo dell’educazione all’obbedienza. Troppi richiami, che la parola di Dio ci affida, sollecitano a riconsiderare seriamente la questione.
    Ci ho provato in questo contributo, frutto di riflessione, di condivisione di vissuti, di esperienza, sofferta e sognata. Esso è nato da un compito che mi è stato affidato: offrire qualche suggerimento su come educare i candidati al sacerdozio all’obbedienza dal punto di vista delle esigenze che nascono dal loro ministero pastorale.
    L’obiettivo giustifica i frequenti richiami a questi interlocutori privilegiati.
    Nel redigere lo studio ho pensato però a prospettive più larghe, fino ad immaginare qualcosa che riguarda soprattutto l’esperienza e l’educazione all’obbedienza “da discepoli di Gesù”, chiamati a condividere la sua passione per il regno. Questo allargamento di orizzonti mi ha spinto ad offrire queste note a tutti, con pochi e veloci aggiustamenti nei confronti del testo originale.
    Una cosa mi sta a cuore: aprire un confronto e una ricerca su un tema come questo, che considero tra i più impegnativi, in una stagione di soggettivizzazione come è quella che stiamo vivendo.

    La prospettiva

    Come sempre, è di grande importanza mettersi d’accordo sulla prospettiva che chi scrive (o chi parla) ha intenzione di far propria. La scelta della prospettiva influenza, infatti, il modo di cogliere i problemi e il significato delle linee di soluzione che vengono suggerite.
    La mia prospettiva è dettata dall’aggettivo messo a titolo: penso a come educare all’obbedienza “dalla prospettiva pastorale”. In questo caso, “pastorale” non dice una dimensione operativa ma la qualificazione del sostantivo “obbedienza”. Mi interrogo, in altre parole, su come realizzare una educazione ad una obbedienza che sia autentica e impegnativa per coloro che desiderano far propria la causa di Gesù, come centro e orientamento della propria esistenza, e si riconoscono, a titoli diversi, nel servizio alla vita e alla speranza alla sequela di Gesù.
    In queste indicazioni caratterizzo la qualità pastorale e, di conseguenza, le esigenze della educazione a questo stile concreto di obbedienza.

    Alla scuola di Gesù “buon pastore”

    Sono sufficienti questi veloci accenni per ricordare che possiamo comprendere la qualità pastorale dell’obbedienza e organizzare le risorse per la sua educazione, solo facendo riferimento all’esperienza di Gesù di Nazareth, il buon pastore che dà la vita per le sue pecore (Gv 10).
    Molti scritti neotestamentari, che ricordano l’obbedienza di Gesù (Rm 5, 19; Fil 2, 8; Eb 5, 8), collegano, in un rapporto molto stretto, la totale disponibilità di Gesù alla volontà del Padre, la sua morte violenta, la realizzazione della salvezza di tutti. Il testo più eloquente è quello già citato della Lettera agli Ebrei: “Durante la sua vita terrena, Gesù si rivolse a Dio che poteva salvarlo dalla morte, offrendo preghiere e suppliche accompagnate da forti grida e lacrime. E poiché Gesù era sempre stato fedele a lui, Dio lo ascoltò. Benché fosse il figlio di Dio, tuttavia imparò l’obbedienza da quello che dovette patire.
    Dopo essere stato reso perfetto, egli è diventato causa di salvezza eterna per tutti quelli che gli obbediscono (Eb 5, 7-9).
    In questa stessa prospettiva di obbedienza al Padre si è soliti a interpretare anche le parole da lui pronunciate nella preghiera nell’Orto degli Ulivi: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta” (Mt 26, 42; Lc 22, 42).
    Il collegamento tra salvezza degli uomini, morte di Gesù, obbedienza al Padre, ha portato, qualche volta, a considerare l’obbedienza di Gesù come l’atteggiamento di rassegnata esecuzione di una volontà divina in qualche modo a lui esterna e a lui imposta. Le raccomandazioni formative hanno spesso ripreso questa concezione dell’obbedienza di Gesù.
    Attorno all’obbedienza sono state raccolte così prassi ispirate al sacrificio, cercato e imposto, all’invito alla rinuncia dei propri progetti e al controllo di ogni desiderio di autonomia e autorealizzazione. Di tutto questo era interprete quella decisione di chi aveva responsabilità istituzionale, che veniva facilmente fatta coincidere con la volontà di Dio.
    L’attuale ventata di soggettivizzazione non solo ha messo in crisi questi modelli. Ma, per fortuna, ha sollecitato a ripensare l’interpretazione evangelica che sembrava giustificarli.
    La meditazione dei vangeli ci ha fatto così scoprire che quella di Gesù è stata un’obbedienza filiale e perciò anche estremamente libera e creativa. La si può concepire come un abbracciare da parte sua, con piena consapevolezza e amore, il grande disegno di Dio sul mondo, un farsi corresponsabile con Lui della sua attuazione.
    Ritorna, in primo piano, il carattere pastorale dell’esistenza di Gesù.
    Egli ha progressivamente preso consapevolezza del grande progetto che il Padre gli ha affidato per la salvezza di tutti gli uomini. Lo assume con entusiasmo e lo fa proprio con un coraggio e una decisione che avvolge tutta la sua esistenza. Lo porta avanti fino alle ultime conseguenze: la morte, prevista e accettata, rappresenta il livello più alto della sua decisione di scegliere la causa della salvezza come la perla preziosa che merita davvero di perdere tutto pur di conquistarla.
    Gesù, dunque, non è stato un mero esecutore materiale di qualcosa già prestabilita nei suoi minimi dettagli, ma il realizzatore intelligente e creativo di un disegno mirato a fare in modo che la sovranità di Dio si stabilisse pienamente nel mondo.

    La dimensione pastorale come condivisione della causa di Gesù

    La qualità pastorale della presenza e dell’attività di ogni cristiano si misura sulla condivisione appassionata della causa di Gesù e sull’impegno quotidiano per la sua realizzazione. Di conseguenza, anche la sua obbedienza e l’educazione ad essa.
    Va ulteriormente precisato il contenuto e l’ambito della causa di Gesù. Su questo tema si sono concentrati molti e importanti elementi di rinnovamento teologico.
    Il modello che ha dominato per tanto tempo la riflessione teologica pensava all’incontro tra Dio e l’uomo secondo uno schema dualista. Il punto di partenza era una distinzione rigida tra mondo sacro e mondo profano. Veniva considerato “mondo sacro” quello di Dio, il mondo della trascendenza e della grazia. Tutto il resto, quello in cui si svolge l’avventura della vita di tutti i giorni, era considerato “mondo profano”. La pastorale era tutta impegnata a far passare dal mondo profano a quello sacro. I sacramenti e gli altri interventi pastorali erano una specie di incursione nel mondo dove Dio era assente e dominava il peccato, per consolidare l’esperienza della presenza di Dio e della sua grazia salvifica.
    Tutto questo ha orientato notevolmente la formazione in genere e quella presbiterale in modo speciale. Molte raccomandazioni spingevano alla separatezza dal “mondo profano” e alla sacralizzazione della qualità della vita.
    Il Concilio Vaticano II, facendoci riscoprire il significato teologico dell’evento dell’Incarnazione, ci ha aiutato a vedere le cose in modo molto diverso. La distinzione tra mondo sacro e mondo profano è superata in Gesù: la nostra storia, la nostra vita quotidiana sono diventati, in qualche modo, la tenda in cui Dio ha preso dimora, per essere il Dio-con-noi, intimo ad ogni uomo più di se stesso. Con questo gesto, gratuito e imprevedibile, tutta la realtà è stata trasformata nel luogo della presenza di Dio e nell’evento della sua grazia che salva.
    Il modo concreto di attuare la salvezza, nei mille gesti della pastorale, risente fortemente di questa prospettiva. Si passa dalla paura, dalla fretta, dalle minacce e dalle pretese eccessivamente sicure, a quell’accoglienza incondizionata e liberatrice che caratterizza il rapporto di Dio con noi, come ce lo ha rivelato Gesù.
    Tutto questo aiuta ad affrontare, in uno stile originalissimo, la spinosa questione del rapporto tra essere e agire, tra senso e prassi. Come sappiamo, quando questo rapporto è risolto in termini disarmonici, si scatena la frammentazione interiore e la separazione tra interiorità e prassi, tra spiritualità e professionalità, tra esperienze e decisione totale della vita. Siamo in quella disintegrazione tra fede e vita, ripetutamente denunciata come il grande male del nostro tempo.
    Per superare questa pericolosa disintegrazione di personalità abbiamo bisogno di un riferimento globale e unificante dell’esistenza, attorno cui far ruotare tutte le scelte e le decisioni. La condivisione della causa di Gesù fornisce il principio di riunificazione di personalità dell’esistenza cristiana.
    Posso tradurre queste note teologiche in una espressione di gergo, comune nei processi formativi: la costruzione e il consolidamento dell’identità. Identità significa, in questo modo di vedere le cose, un sistema integrato di connessioni, come un complesso elaboratore d’informazioni in cui l’ambiente esterno, gli altri, la società, le norme, i valori sono codificati e organizzati in un sistema operazionale interno.
    L’identità è così la mediazione dinamica che lega la persona al mondo. Essa è tutta dalla parte del soggetto, lo delimita rispetto agli altri e lo qualifica, permettendogli di riconoscersi e di essere riconosciuto. Nello stesso tempo è continuamente provocata a riformularsi sotto gli stimoli che provengono dal suo rapporto con l’ambiente esterno.
    Il perno dell’identità sono i valori che la persona fa propri. Organizzati in un sistema coerente di significato, determinano il senso della sua esistenza e il riferimento attraverso cui sono colte, selezionate ed elaborate le stimolazioni che spingono all’azione.
    La persona è formata quando si è costruita un “filtro” attraverso cui verificare e valutare cosa accogliere e su cosa reagire. Non cerca così mondi protetti e neppure teme il pluralismo delle proposte. Le sa invece accogliere o rifiutare a partire da qualcosa che riconosce come decisivo nella propria struttura di personalità.
    La costruzione dell’identità è così un fatto personale e sociale nello stesso tempo. Dipende in altre parole da una fatica che ha nella persona l’unico protagonista ed è legata intensamente al tessuto sociale in cui la persona si esprime e al suo influsso e condizionamento. In un ambiente di complessità e di pluralismo la formazione esige, perciò, come condizione di possibilità e di autenticità, l’impegno di restituire ad ogni persona la capacità di comprendersi e di progettarsi dal silenzio della propria identità.

    Ricomprendere il significato dell’obbedienza

    Le note con cui ho cercato di comprendere la funzione qualificante della dimensione pastorale, non orientano solo la prassi educativa all’obbedienza. Esse propongono, prima di tutto, una nuova figura di obbedienza.
    Questa è la prima operazione da mettere in cantiere.
    Quando resiste la vecchia concezione di obbedienza, diventa difficile elaborare, nella cultura attuale, un progetto serio di educazione ad essa.

    Un nuovo modello relazionale

    L’obbedienza si realizza generalmente in una relazione interpersonale. Due soggetti si incontrano e si rapportano: una persona con un’altra persona, una istituzione con altre istituzioni, una persona con concrete istituzioni. Si tratta sempre di un rapporto asimmetrico, perché i due partner del dialogo sono di fatto diversi e distinti.
    La diversità può essere accolta o rifiutata. È accolta quando la differenza non impedisce il confronto. È rifiutata quando sono messi in gioco tutte le attenzioni possibili per eliminarla.
    La stagione di soggettivizzazione che stiamo vivendo porta al rifiuto dell’asimmetria, perché la enfatizza in modo esagerato o perché cerca il confronto fuori della differenza, nell’ambito di una omogeneità ricercata e coltivata.
    Anche l’accoglienza dell’asimmetria non è un’operazione facile né tanto meno indolore.
    Spesso la constatazione della diversità fa nascere modelli di gerarchizzazione. Siamo abituati a mettere in ordine gli elementi, dichiarando che uno è più importante dell’altro. Così l’asimmetria scatena la dipendenza. In questo caso, una persona o una istituzione si pone come normativa nei confronti di un’altra.
    Un modello sotterraneo di dipendenza è quello tipico del fascino che una persona esercita su altre o quello con cui una istituzione a cui si appartiene orienta i propri membri verso uno stile di comportamento. Le ragioni che spingono una persona a far proprie le proposte che l’altra gli offre non sono legate al riconoscimento dell’autorità giuridica di questa stessa persona, ma al fascino che essa esercita.
    Questo modo di risolvere l’asimmetria purtroppo è molto frequente. A me pone problemi.
    Da una parte passa in secondo piano la libertà e la responsabilità personale, ridotte a merce di scambio.
    Dall’altra si apre un pericoloso principio di deresponsabilizzazione, perché il fascino passa facilmente o viene superato da fonti differenti di fascino… Chi ha la responsabilità di proporre qualcosa, si ritrova condizionato nel diritto di parlare sulla misura della sua capacità testimoniale o si scontra con sorgenti di fascino alternative alle sue.
    La ricomprensione del carattere pastorale dell’obbedienza ci suggerisce alternative serie.
    Punto di riferimento è la costruzione del regno di Dio secondo il progetto di Gesù. Questa causa ci misura: orienta le nostre scelte e giudica le nostre decisione. Essa rappresenta il principio verso cui vogliamo piegare la nostra libertà e responsabilità, accogliendo la logica evangelica del “morire” per dare la vita.
    Non obbediamo ad alcune persone, rinunciando alle esigenze della libertà e della responsabilità. Obbediamo alla causa di Gesù: tutti, ciascuno al livello in cui siamo collocati. E accogliamo la funzione di mediazione sacramentale di alcune concrete persone. Esse non sono la fonte che giustifica la nostra disponibilità a “morire per la vita”. Non ne hanno il diritto e, soprattutto, non sono in grado di attestarne l’esito. La fonte è la causa di Gesù.
    In questo modello di relazione interpersonale, decentrato verso la causa di Gesù, ci troviamo tutti solidali, anche quando possediamo o assolviamo funzioni diverse. Introduciamo un riferimento molto più esigente del rapporto di dipendenza. Sulla dipendenza interpersonale possiamo scendere a compromessi e a patteggiamenti… e la storia personale e collettiva ci ricorda che a questo proposito siamo tutti maestri. Pone invece un confronto che mette in crisi sempre, perché rimanda ad esigenze più grandi, che ci conducono alla constatazione sincera che “quando abbiamo fatto tutto quello che ci è comandato di fare”, siamo invitati a riconoscere di essere “soltanto servi” (Lc 17, 10).

    La relatività come “valore”

    In questa prospettiva riscopriamo una delle istanze più forti della sensibilità culturale attuale: l’autonomia e il rifiuto di ogni pretesa di assolutezza. Cogliamo il valore di queste esigenze. E le liberiamo dai condizionamenti negativi e involutivi che le segnano nei modelli diffusi. Credo sia importante scoprire questo dato di fatto, per sperimentarlo e aiutare a viverlo.
    Veniamo da una tradizione formativa che ha cercato di privilegiare le indicazioni assolute come se fossero le uniche certe e convincenti. Alla assolutezza veniva contrapposta la relatività, come scadimento e degradazione. Per questo, chi non riusciva a produrre titoli di sicurezza, ricollocava più in alto la fondazione della propria autorevolezza, collegando il ruolo e i diritti conseguenti ad esso, quasi in forma diretta, al mistero di Dio. Lo si faceva innegabilmente in timore e tremore… come ripetutamente veniva ricordato. E lo si faceva per fedeltà alla verità e al bene delle persone… qualche volta posto in secondo piano rispetto alla legge e alle esigenze dello stato.
    La consapevolezza della funzione di mediazione sacramentale dell’umano (persone, parole, avvenimenti…) rispetto all’assoluto di Dio, introduce la coscienza della relatività. Ma non svaluta la responsabilità. Al contrario, la eleva perché la colloca in un gioco di libertà e responsabilità reciproca, in un rapporto di fiducia che diventa affidamento e, di conseguenza, in una profonda e intensa esperienza di fede.
    Assoluto è il progetto che vogliamo assieme porre a riferimento totale della nostra esistenza (la causa di Gesù per la vita e la speranza di tutti). Questo progetto prende continuamente l’umana carne del tempo e dello spazio… diventa quindi impegnativo per noi, fino ad afferrare tutta la nostra esistenza, proprio nella sua relatività. L’evento è l’assoluto che giudica tutto. Le espressioni linguistiche sono il luogo storico in cui persino la parola di Dio si fa parola per l’uomo (come ricorda DV 13).
    Per questo, non mi sembra corretto contrapporre assolutezza a relatività: la relatività è il modo concreto e quotidiano, unico disponibile a noi nel tempo, di incontrare e vivere l’assoluto.
    Voglio essere concreto, per chiedere una valutazione motivata e precisa.
    Molti hanno l’abitudine di dichiarare “volontà di Dio” ciò che viene proposto, sollecitando a quella obbedienza accogliente, nella fede e nell’amore, che l’evento di Dio esige. La fede e la passione apostolica di chi dice questo chiede di separare la persona che propone da ciò che viene proposto. Riconosce di essere lui stesso giudicato dalla parola che lancia.
    Il modello verso cui si orienta la mia riflessione… mette sotto giudizio questo modo di fare, invitando ad una coraggiosa conversione di prospettiva.
    Chi ha la responsabilità del servizio dell’autorità… resta sempre in una logica di sacramento del mistero. La sua persona e la sua parola è segnata inesorabilmente dalla relatività della cultura sociale e della storia personale. Propone con forza non sull’assolutezza dell’evento, ma sull’affidamento che la fede nel mistero chiede. La sua proposta non è mai l’interpretazione definitiva della volontà di Dio, ma una sua interpretazione in un tempo e in un luogo concreto. Chiama dunque a libertà e a responsabilità nel segreto dell’interiorità di ogni persona. Propone la sua persona come mediazione sacramentale di Dio, di cui ci si fida e a cui ci si affida. Il sì dell’obbedienza è al mistero di Dio, incontrato nell’atto di una fede che sa leggere oltre il visibile, quando è trasparente e quando resta opaco, per raggiungere il fondamento, unico e certo, della vita e della speranza.
    In fondo, in questa conversione cresce la fede di chi propone e di chi accoglie.
    L’esempio può essere moltiplicato sui mille casi concreti che descrivono la mentalità rinnovata verso cui maturare.

    Nel grembo materno della comunità ecclesiale

    Dalla prospettiva del suo carattere pastorale l’obbedienza ritrova il sostegno prezioso della comunità ecclesiale, nella sua forma sacramentale (di mistero nel concreto di persone, istituzioni, tradizioni…).
    Essa funziona come “grembo materno” per sostenere e incoraggiare la nostra debolezza e confortare il clima di relatività con cui assieme camminiamo verso l’assoluto, e la riconsegna di tutta la nostra vita al mistero di Dio.
    Il correttivo alla soggettivizzazione non sta nell’elencare alcune norme sottratte alla mischia del confronto e del giudizio. Sta invece nell’offrire un “grembo materno”, accogliente e responsabilizzante, di cui fidarsi e a cui affidarsi per decidere, nel segreto della propria interiorità, la direzione di cammino e di vita.

    Educare all’obbedienza pastorale

    A questo punto, finalmente, posso affrontare la questione metodologica.
    Per suggerire modalità concrete per educare all’obbedienza pastorale, immagino una specie di itinerario educativo, segnato da tappe progressive. Nella mia ipotesi rappresentano qualcosa di irrinunciabile rispetto a quel progetto di costruzione e stabilizzazione dell’identità personale, da un punto di vista pastorale, su cui si innesta l’atteggiamento di obbedienza. Queste tappe propongono però anche un percorso logico (modelli di interventi educativi) e, insieme, cronologico (organizzazione di queste interventi in una sequenza temporale).

    Raccogliere la provocazione della realtà

    Il primo intervento di un progetto di educazione ad una obbedienza “pastorale” consiste nell’attenzione alla realtà, per cogliere gli stimoli e le sfide che essa ci lancia, anche quando inquieta le nostre scelte e disorienta, in qualche modo, le nostre decisioni.
    La scelta nasce da un modello preciso di spiritualità.
    Secondo la testimonianza del Vangelo, i discepoli di Gesù hanno appreso, alla scuola del loro maestro, un’attenzione appassionata alla vita, alle sue manifestazioni, ai segni, positivi e negativi di cui è carica.
    Non l’hanno fatto per curiosità. Alla scuola di Gesù hanno scoperto che il problema, quello vero, è quello della vita, della sua qualità, delle condizioni che la rendano vivibile secondo il progetto di Dio. Lo sguardo sulla realtà era dunque precompreso da questa collocazione esistenziale, espressione della loro fede e della loro fedeltà allo Spirito di Gesù.
    Attorno alla vita, come l’unico vero problema e alle provocazioni che essa lancia, è possibile collocare la prima urgenza per un’educazione all’obbedienza pastorale dalla parte del regno di Dio.
    Contro i modelli di una certa spiritualità, disincantata e paurosa, sostengo la necessità di un’attenzione piena e disponibile alla realtà. Contro il qualunquismo oggi dominante o contro quei pregiudizi culturali che fanno diventare grandi i problemi piccoli, per ridurre a piccoli i problemi grandi, sostengo la necessità di un’attenzione verso la vita e la sua qualità, come modo evangelico di lasciarsi provocare dalla realtà.

    Interpretare i fatti dal mistero

    Non basta cogliere i fatti. Neppure è sufficiente coglierli ridimensionando il fascino oscuro che li pervade.
    Siamo impegnati a coglierli nella verità.
    Quale verità?
    Qui colloco la seconda linea di educazione all’obbedienza pastorale: la verità dei fatti non è data prima di tutto dalla congruenza formale delle espressioni con cui li descriviamo, ma dalla capacità di leggerli dal mistero che si portano dentro.
    Nei fatti della nostra vita ci sono delle cose che si vedono e ce ne sono molte altre che invece restano nascoste. Di solito, è facile distinguere tra ciò che si vede e ciò che non si vede. Il gioco tra ciò che si vede e ciò che non si vede non va inteso come la differenza tra un amico che sta fisicamente vicino ed un altro, egualmente simpatico, che non è in questo momento vicino fisicamente.
    In un avvenimento e in una persona, possiamo vedere ciò che, in qualche modo, può essere toccato con mano. Riconosciamo però che non finisce tutto lì. In una persona amata c’è un mistero, grande e profondo, che tutta l’avvolge. Questa realtà invisibile e misteriosa è tanto decisiva da avvertire la persona stessa in un modo specialissimo. Quello che non si vede diventa la categoria attraverso cui impostiamo il nostro giudizio e il nostro rapporto con quello che si vede.
    In questo caso, non valgono le leggi del presente e dell’assente. Il rapporto tra ciò che si vede e ciò che non si vede riguarda una persona “presente” o un fatto di cui sono protagonista. Quello che resta misterioso a prima vista decide fortemente la mia reazione nei confronti di quello che vedo.

    L’attenzione alla vita è attenzione al senso

    Ho posto la vita concreta al centro del processo di formazione e ho indicato la necessità di leggerla dalla parte del mistero che si porta dentro.
    Cosa è la vita? Come e dove si esprime?
    Questa è la mia convinzione: la vita non è prima di tutto l’insieme delle azioni e delle esperienze che la costruiscono; essa è prima di tutto la ricerca e l’esperienza di una ragione che dà fondamento e orientamento a queste azioni.
    Posso dire la stessa cosa con altre parole: la vita quotidiana è fondamentalmente una questione di interesse, ricerca, scoperto di senso. Senso è quella ragione e quel fondamento che interpreta le singole azioni in cui si concretizza la vita e, generalmente, le riporta verso una specie di unità di fondo.
    Attorno al senso ricostruiamo l’unità, superando la frammentazione: la sperimentiamo in noi stessi e la scopriamo negli altri.
    La nostra giornata, la cui trama costituisce la vita, è fatta di molte azioni. Spesso le poniamo senza porci eccessivi problemi. Ogni tanto però, di fronte a cose che ci inquietano, ad esperienze che ci riempiono di gioia inattesa, a scelte tanto impegnative da lasciarci con un punto interrogativo disegnato sul volto, ci chiediamo: perché? Perché le cose sono andate così? Chi ce lo fa fare? Posso continuare o è più saggio tirare i remi in barca e chiudere tutto?
    Riusciamo spesso a darci una risposta, maturata, sofferta, coraggiosa. Qualche volte non la troviamo neppure la risposta giusta che ci piacerebbe possedere.
    Però, anche in questi casi, procediamo in avanti. La risposta c’è, anche se è ancora molto nascosta tra le pieghe della nostra esistenza.
    Le nostre risposte, quelle scoperte e pronunciate e quelle solo cercate e sofferte, sono una grande avventura di senso. Dicono il “perché” della nostra esistenza.
    Alcune persone hanno un “perché” grande e forte. Serve da trama di connessione di tutte le loro azioni e scelte. Vanno in crisi quando lo tradiscono. Sono felici quando lo consolidano e lo verificano.
    Altre persone non hanno raggiunto ancora un “perché” capace di fare unità nella trama della loro esistenza. Lo cercano… e intanto si accontentano di molti “perché”… qualche volta danno l’impressione di averne uno per ogni stagione.
    La vita quotidiana è così una specie di intreccio di senso e di sensi. Spesso è solo ricerca; molte volte è, per fortuna, scoperta ed esperienza.
    Mettere la vita al centro dalla parte del mistero che si porta dentro e nella prospettiva del senso, rappresenta una grande esperienza di fede. L’educazione all’obbedienza pastorale si fa urgenza di maturazione nella fede del Crocifisso risorto.
    La fede, infatti, è collegata strettamente alla vita quotidiana sul livello del senso. Non si sostituisce alla fatica di vivere né risolve tutti i problemi, come a qualcuno piacerebbe. Suggerisce un modo di affrontare e di risolvere la questione del senso.
    Ci affida una specie di modello di senso, con cui confrontare la nostra ricerca ed esperienza di senso, per dire – noi a noi stessi, prima di tutto – il senso della nostra vita.

    La fiducia nella vita: da problema a risorsa

    L’attenzione alla realtà è attenzione alla vita. Chi comprende la realtà dal mistero che si porta dentro e ne coglie il profondo anelito verso il senso, pone un atto di fede nel Signore della vita.
    Tutto questo produce un atteggiamento, cui abilitarci ed abilitare: la fiducia nella vita, considerata come la grande risorsa di ogni progetto pastorale.
    Esistono modelli educativi e pastorali che considerano la vita quotidiana come un ostacolo da controllare; altri sono tutti impegnati nello sforzo di fuggirla o, almeno, di ridurne al minimo i condizionamenti. La mia ipotesi è molto diversa. Riconosco che la crescita nell’esperienza cristiana corre parallela con l’accoglienza della propria vita, come mistero impegnativo e interpellante. Riconosco, di conseguenza, che questa stessa vita offre in modo germinale i contributi più rilevanti per la sua pienezza e autenticità. La considero, in altre parole, la grande risorsa, che dà senso e prospettiva a tutte le altre risorse educative.
    Chi riconosce nella vita, concreta e quotidiana, la risorsa fondamentale del progetto educativo e pastorale, assume un atteggiamento di ampia collaborazione con tutti. La vita e la sua qualità sono infatti un problema davvero comune a tutti allo stesso titolo: riguarda giovani e adulti, educatori ed educandi, credenti e non credenti.
    Per questo, i discepoli di Gesù, forti nella loro fede e della loro speranza, si impegnano in un terreno comune e cercano la piena collaborazione con tutti coloro che amano veramente la vita e vogliono lottare contro la morte.
    Il riconoscimento della vita come grande risorsa si realizza sempre in una esplicita e intensa preoccupazione educativa. L’accoglienza della vita, infatti, per ogni credente, è fondata nell’esperienza gioiosa della Pasqua del Crocifisso risorto.
    L’accoglienza non è accettazione della situazione di fatto in modo rassegnato, come se quello che esiste sia già tutto quello che va assicurato. Accogliere significa condividere per portare a compimento. Momento qualificante dell’accoglienza è, di conseguenza, l’impegno per trasformare continuamente quello che è stato accolto incondizionatamente.

    Verso decisioni coraggiose

    Non è sufficiente la comprensione rinnovata della realtà. L’educazione all’obbedienza pastorale richiede anche il coraggio di impegnarci in azioni di trasformazione della realtà stessa secondo il progetto evangelico. La comprensione pastorale si fa azione pastorale.
    La nostra cultura ci spinge a decisioni mai definitive, verso un’attenzione esasperata a non precludersi nessuna possibilità. L’eccedenza delle opportunità giustifica appartenenze deboli, dove sembra compatibile un orientamento e il suo contrario.
    Non mi accontento di scelte coerenti con un quadro oggettivo di valori. È troppo facile assumerle con entusiasmo e poi, in altro ambiente e sotto un altro tetto, giocare lo stesso entusiasmo nella direzione opposta. Il limite non è di coerenza; sta invece in quella mancanza di decisionalità forte che sembra la condizione irrinunciabile per sopravvivere oggi.
    In che direzione sollecitare il coraggio di decisioni forti e impegnative?
    Ritorna, anche in quest’ambito, il criterio di fondo: il confronto con Gesù di Nazareth per scoprire l’oggetto della nostra decisione, la sua qualità e le condizioni che la rendono autentica.
    Gesù ha sacrificato la sua vita, come sommo gesto d’amore, accettando le conseguenze di un’esistenza tutta protesa nell’impegno di restituire vita e speranza, nel nome di Dio, a tutti gli uomini. “Dare la vita” è la condizione fondamentale perché essa sia piena e abbondante per tutti. Chi s’impegna in questo, riconosce che l’esito della sua fatica è sempre “oltre” ogni progetto umano ed ogni realizzazione. Viene dal futuro di Dio, dove ogni lacrima sarà finalmente e definitivamente asciugata.
    Chi vuole la vita e gioca la sua per donarla a tutti, pianta perciò la croce nel centro della sua vita. Riconosce la passione di Dio per la vita di tutti e si dichiara disponibile, con i fatti, a perdere la propria vita, come gesto supremo d’impegno, concreto e storico, per la vita.

    Maturare una risposta dal profondo dell’interiorità

    Concludo questa ipotesi di itinerario formativo sottolineando una necessità che dovrebbe, nella mia ipotesi, percorrere e segnare tutte le tappe, come in filigrana: l’interiorità, da riconquistare e sperimentare quotidianamente.
    Interiorità dice spazio intimissimo e personale, dove tutte le voci possono risuonare, ma dove ciascuno si trova a dover decidere, solo e povero, privo di tutte le sicurezze che danno conforto nella sofferenza che ogni decisione esige. Il confronto e il dialogo serrato con tutti sono ricercati, come dono prezioso che proviene dalla diversità.
    La decisione e la ricostruzione di personalità nascono però in uno spazio di solitudine interiore, che permette, verifica e rende concreta la “coerenza” con le scelte unificanti la propria esistenza.
    La capacità di interiorità è così la condizione irrinunciabile di un processo formativo per un tempo di complessità. In questo spazio di esigente e indiscutibile soggettività la persona valuta e interpreta tutto, prende le proprie decisioni, soffre la faticosa coerenza con le scelte.
    Le risorse educative vanno spese per far nascere l’esigenza, sostenere l’esperienza, progettare la realizzazione. E ce ne vorranno molte in una cultura che fa di tutto per trascinare verso l’esteriore, anche con la scusa di salvaguardare meglio l’oggettività. Lo rilancio, consapevole, nella fede, che il silenzio dell’interiorità è il luogo in cui lo Spirito di Gesù si fa voce per guidarci alla pienezza della verità.

    Laboratori e non scuole

    Non è sufficiente conoscere i processi da mettere in cantiere per raggiungere l’obiettivo. Abbiamo bisogno di attivare anche ambienti che funzionino come luogo dove sperimentare dal concreto il modello verso cui siamo in tensione. Le proposte, soprattutto quelle che riguardano la qualità della vita, sono apprese e assimilate facendo esperienza.
    Luoghi ne abbiamo, e davvero tanti. Molti hanno resistito all’onda della contestazione; altri sono stati ricostruiti, rimettendo in piedi i frammenti di quelli un tempo attivi. Per i candidati al sacerdozio un luogo prezioso è il “seminario”. In genere funzionano come luoghi la scuola, la famiglia, la parrocchia e l’oratorio, il gruppo giovanile… Non si tratta, di conseguenza, di inventare luoghi nuovi ma di verificare, prima di tutto, la funzionalità formativa di quelli esistenti.
    A questo livello si colloca la preoccupazione che ho messo a titolo del paragrafo: questi luoghi funzionano come luoghi formativi verso l’assimilazione di una qualità di vita caratterizzata dall’obbedienza pastorale, quando essi diventano “laboratorio” dove sperimentare. Mi spiego.
    In genere, chi sa di avere delle cose da comunicare agli altri, concentra le sue risorse nella costruzione di luoghi dove sia possibile realizzare questa comunicazione. L’attenzione corre alle cose che si vogliono dire, alla loro correttezza e alla loro sistematicità. Al massimo, ci si preoccupa di assicurare un clima che faciliti la comunicazione, ne assicuri l’ascolto e ne sostenga l’interiorizzazione. La verifica del processo è facile, perché viene misurato il livello di comprensione e condivisione delle cose che sono state proposte: se sai ripetere bene quello che ti è stato detto, è segno che l’obiettivo è stato raggiunto. Se invece l’invito a ripetere ciò che è stato detto fa intravedere delle lacune concettuali o esperienziali, viene chiamata in causa la correttezza del processo.
    L’enfasi sul “laboratorio” spinge verso prospettive operative differenti.
    Il termine “laboratorio” evoca, infatti, un ambiente provvisto di strumenti e materiali idonei, e una situazione (anche temporale) che richiede alle persone una partecipazione diretta per sperimentare e produrre risultati.
    Nel laboratorio la comunicazione non si realizza in modo lineare e discendente, come capita nei processi tradizionali di apprendimento. Si realizza invece in quella trama comunicativa che si costruisce tra i partecipanti all’evento comunicativo. Ciascuno ha una precisa funzione: l’adulto sta al gioco comunicativo, come testimone di eventi, più grandi di lui, che lui ha compreso e vissuto nella sua soggettività e che rende disponibili agli altri, per ricomprendere a sua volta ciò che trasmette. Anche i cosiddetti destinatari sono soggetti dell’atto comunicativo, chiamati ad offrire il contributo della loro esperienza, competenza e ricerca, per formulare meglio, nella situazione concreta, l’oggetto della comunicazione. Esso è dato e non appartiene a nessuno dei partner. Ciascuno lo cerca, lo vive, lo sperimenta. Nell’atto della sua accoglienza si scatena un processo di riformulazione, orientato a dire il dato di sempre nell’oggi del tempo, dello spazio, della storia del gruppo in laboratorio.


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