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    Riccardo Tonelli

    (NPG 2001-04-7)

    LA SFIDA DELLA CULTURA ATTUALE

    La mia riflessione prende le mosse da una constatazione: ogni progetto pastorale si confronta e si scontra con la situazione culturale che caratterizza l’ambiente in cui si opera. Diciamo, infatti, i tratti dell’esperienza cristiana sempre dentro determinati modelli culturali; essi ci permettono di esprimere il mistero in parole umane e verificabili, e lo fanno sussistere concretamente e storicamente, come proposta con cui verificarsi.
    Il confronto e lo scontro con la cultura rappresenta una delle ragioni (forse la più determinante) del pluralismo attuale. L’analisi della situazione culturale può orientare, infatti, verso visioni diverse; essa stessa nasce da tantissime variabili che dipendono dalla storia e dalla sensibilità personale.
    Giustifico l’affermazione e mostro, a rapide battute, le conseguenze.

    Cultura ed esperienza cristiana

    Incomincio ricordando alcune cose di dominio abbastanza comune.

    Il fatto

    La Costituzione conciliare Dei Verbum ci aiuta a penetrare, in modo autorevole, nel mistero della Rivelazione: «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlar dell’uomo, come già il Verbo dell’Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» (DV 13). Come l’umanità di Gesù è il luogo in cui il Dio misterioso prende volto visibile, così la parola umana diventa la parola in cui il Dio ineffabile si fa parola per noi.
    Anche la risposta che l’uomo dà all’appello contenuto nella Rivelazione ripete lo stesso schema comunicativo. La persona dice la sua decisione attraverso esperienze e parole del proprio vissuto quotidiano. Dio ci chiama alla salvezza e noi diciamo la nostra decisione di accogliere il suo dono o di rifiutarlo. Non lo facciamo dicendo sì oppure no; e neppure dicendo «Signore, Signore». Lo facciamo con la vita: nel ritmo delle ventiquattro ore del nostro quotidiano. I gesti e le parole che pronunciamo sono i segni di quello che riempie il nostro cuore e che altrimenti resterebbe indicibile: la voglia di essere figli di Dio o la pretesa suicida di arrangiarci da soli.
    La consapevolezza che Dio si fa parola per noi nelle nostre parole umane e che noi rispondiamo a lui nello stesso modo, coinvolge tutta l’azione pastorale in un irrinunciabile confronto con la «cultura». Le parole pronunciate dall’evangelizzatore e quelle espresse da colui che accoglie o rifiuta la proposta, non sono in assoluto l’evento di Dio che si piega verso l’uomo e l’accoglienza (o il rifiuto) di questa offerta da parte dell’uomo. Sono sempre invece una realtà che tenta di rendere presente qualcosa che resta mistero insondabile e inverificabile.
    Da una parte, riconosciamo così che il segno, attraverso cui sveliamo il mistero di Dio e la decisione dell’uomo, è sempre di tipo culturale. Per questo è collocato in situazione di fragilità e, in qualche modo, di relatività. Dall’altra siamo spinti a dire il Vangelo di Gesù in una fedeltà che sa rinnovarsi, sotto le provocazioni dei cambi culturali. Non si tratta infatti di ripetere passivamente l’esperienza cristiana, ma di renderla vitalmente e comprensibilmente presente in altre culture.
    Non possiamo di sicuro ridurre il processo ad un semplice gioco linguistico la cui forza è legata alle mille sottili astuzie del nostro quotidiano conversare. La potenza dello Spirito rende questa «parola» capace di suscitare ed esprimere la fede. Tutto avviene però sotto il segno della «sacramentalità»: quello che si vede, si sente e si costata rivela (e, nello stesso tempo, nasconde: «ri»-vela) la realtà misteriosa di cui è segno. Lo fa nella trama delle logiche umane quotidiane cui ha deciso di non sfuggire neppure la parola di Dio.
    Il confronto, disponibile e critico, con la cultura è decisivo per la qualità della formulazione della fede e della sua comunicazione. Essa dà quella dimensione concreta, storica e verificabile, di cui l’evento della fede ha urgente bisogno, per esistere nel tempo e nello spazio.
    Se la fede è espressa dentro i modelli culturali tipici della situazione concreta e storica, la risposta alla domanda «chi è l’uomo cristiano?» non può essere realizzata ripetendo alla lettera, magari con qualche rapido aggiustamento, quello che ci proviene dalla tradizione e dal vissuto di coloro che, nella loro vita, hanno già elaborato una risposta alla stessa questione. La loro risposta, infatti, è sempre il tentativo di mediare, concretamente e storicamente, la decisione radicale per Gesù di Nazareth e i modelli culturali del tempo e dello spazio in cui essi sono vissuti.
    D’altra parte, non è certamente immaginabile una risposta elaborata tutta dalla prospettiva delle provocazioni e delle conquiste del nostro momento culturale. Senza un preciso rapporto con il passato, espresso da chi è vissuto prima di noi, e con l’esperienza normativa del Vangelo, testimoniato nella comunità ecclesiale, non possiamo, nel modo più assoluto, vivere un’esistenza cristiana.

    I compiti

    Chi, come noi, non si accontenta di conoscere come vadano le cose, ma avverte forte la responsabilità di intervenire, consolidando e trasformando, si chiede subito cosa fare e in che direzioni muoversi.
    Avanzo un’ipotesi. Essa cerca, in qualche modo, di elaborare il pluralismo immaginando compiti comuni.
    La reazione matura alle provocazioni che la cultura ci lancia e la riespressione della esperienza cristiana dentro le nuove situazioni culturali vanno realizzate mettendo in gioco tre componenti: il vissuto che il passato ci consegna, i modelli culturali attuali, le esigenze normative che il Vangelo ci lancia.

    * Una lettura ermeneutico-critica del passato.
    L’incontro con il vissuto che il passato ci consegna va risolto attraverso un approccio ermeneutico-critico. Mi sembra l’unico adatto per consegnare all’oggi qualcosa di prezioso, senza costringerci alla ripetizione rassegnata e passiva.
    Ricordo con qualche rapida battuta il mio punto di vista.
    Chi osserva una foto di gruppo, vecchia di qualche decennio, difficilmente riesce a non sorridere. Non è solo questione di tecnica fotografica e di gusto artistico. In quella foto incontriamo un mondo che non è più il nostro. Nel profondo di quelle pettinature strane, di quegli abiti smessi da tempo e di quelle pose da maniera, ci sono, però, volti cari e passioni forti, persone coraggiose che hanno realizzato imprese grandi. Discernere vuol dire separare quello che conta davvero da quello che invece è ormai decaduto, per raccogliere il primo, abbandonando, senza falsi rimpianti, il secondo.
    Questo modo di fare l’abbiamo ripetutamente definito, con un’espressione di gergo, «atteggiamento ermeneutico». L’atteggiamento ermeneutico nasce da una constatazione, ormai diffusa e consolidata: lo stretto rapporto esistente in ogni espressione tra quello che si intende comunicare e le formule linguistiche utilizzate per farlo. Il primo elemento proviene dall’intimo di ogni persona, rappresenta il suo mondo interiore e il frutto del suo vissuto. Il secondo invece viene dai modelli culturali che riempiono l’ambiente della nostra esistenza. Ogni proposta (parole, gesti, interventi generali…) è sempre una sintesi di questi due elementi.

    * Una lettura ermeneutico-critica del Vangelo.
    La cultura attuale fa largo uso della coscienza critica sollecitata dall’atteggiamento ermeneutico. È corretto introdurre questa coscienza anche in ordine ai documenti dell’esperienza cristiana e alle proposte normative che da questi documenti ci provengono? Non siamo chiamati ad una accoglienza piena e ampia? L’atteggiamento ermeneutico non è la premessa al rifiuto e alla soggettivizzazione?
    La mia proposta è, come è evidente, di piena utilizzazione della stessa procedura anche nei confronti della proposta che ci viene dalla formalizzazione della fede e, in ultima analisi, anche dalle sue fonti.
    Anche questa mi sembra una condizione procedurale irrinunciabile per attivare una scansione temporale che non sia sola passiva ripetizione, con il rischio di caricare di normatività ciò che invece è solo supporto culturale per dire la fede in parole d’uomo.
    I rischi di soggettivizzazione ci possono essere, come in tutte le operazioni che hanno l’uomo e la sua coscienza come protagonista. L’urgenza è però ormai consolidata e indiscussa nella coscienza ecclesiale, dal momento che Dio ci parla con parole d’uomo… dunque sempre dentro modelli culturali, in cui l’evento prende umana carne (DV 13).

    * La funzione di discernimento della cultura.
    Nell’operazione di ricomprensione del passato e delle fonti dell’esperienza cristiana, la cultura (i modelli culturali e antropologici) funziona come criterio di discernimento.
    Prima di offrire il sostegno culturale per nuove inculturazioni, essa aiuta a discernere ciò che è permanente da ciò che invece è solo legato ad espressioni che erano dominanti e vincenti in una stagione (tempo e spazio) dell’esistenza dell’uomo… ma che oggi non hanno più ragioni di permanenza.
    La cultura ha quindi una funzione specialissima. Per questo va compresa bene in tutte le sue componenti, in prospettiva diacronica e sincronica. Quando il criterio di discernimento è fragile o superficiale, l’esito del processo è scarso e inaffidabile.
    Avevamo l’abitudine di procedere dalla fede verso la cultura. Il rinnovamento teologico introdotto a partire da una teologia fondata sull’evento dell’Incarnazione del mistero di Dio e della sua parola in Gesù di Nazareth, ci sollecita quasi a capovolgere la prospettiva. Certo, un’operazione del genere è estremamente delicata, perché continuamente minacciata da tentazioni ideologiche: dal tentativo cioè, più o meno scoperto, di far diventare assoluto ciò che invece resta relativo e da far diventare decaduto ciò che invece è veramente permanente. I rischi però non possono ridimensionare i compiti. Fa quasi da crogiuolo quell’amore appassionato all’uomo e alla ricerca della sua verità, che è esigito da chiunque si metta a cercare come comprenderlo, progettarlo e riproporlo.

    Quale cultura?

    Finora la mia attenzione è stata rivolta, in modo prevalente, alle procedure e alle esigenze. Tutto questo è importante, ma di sicuro non è sufficiente. Chi è impegnato nell’evangelizzazione è sollecitato a riempire di contenuti i modelli di comprensione, senza aver paura di aprire strade nuove. Per sollecitare una ricerca che deve continuare in situazione, avanzo qualche suggerimento.

    In genere: la «postmodernità»

    Da molte parti si riconosce che possiamo individuare una dimensione caratteristica della situazione culturale attuale nella categoria della «postmodernità». La postmodernità si caratterizza soprattutto dal negativo, come reazione a quei modi di pensare e di vivere che caratterizzano la «modernità», quell’evento globale «che ha trasformato la relazione tra il cosmo, la sua fonte trascendente e il suo interprete umano» [1] e che, di conseguenza, ha messo in crisi la sintesi tradizionale e le profonde connessioni esistenti tra la natura, Dio e gli uomini.
    La bibliografia sulla modernità e sulla postmodernità è quasi sconfinata, come diversi sono i pareri sui confini dell’una nei confronti dell’altra. L’accordo sui nomi poi è quasi nullo.
    Qualcosa però bisogna cercare di constatare, per non restare prigionieri della complessità interpretativa, proprio mentre le questioni ci urgono addosso.
    Ho incontrato una pubblicazione, la cui lettura consiglio a chi fosse interessato al problema. L’autore non è solo uno specialista del tema, ma corre subito verso le annotazioni di interesse educativo e pastorale. Egli offre una fotografia dell’attuale situazione culturale (che chiama di «postmodernità»), che riporto alla lettera per la sua ricchezza interpretativa.[2] L’autore stesso chiama questa specie di fotografia «I dieci comandamenti del postmodernismo radicale». Aggiunge subito, a scanso di equivoci, che la sua rassegna sottolinea più gli aspetti distruttivi di quelli costruttivi. Per questo, avanza una distinzione tra postmodernismo e postmodernità, per affidare a questa ultima la funzione di esprimere uno stato d’animo culturale moderno potenzialmente più positivo.

    1. Non adorare la ragione.
    Mentre la modernità, sotto l’eccitazione provocata dalle nuove scienze, elevò la ragione strumentale o empirica a una posizione di assoluto dominio, con Descartes che si fece paladino del metodo, della certezza e delle idee chiare, il postmodernismo guarda con disincanto a un simile razionalismo arrogante e preferisce quello che Vattimo ha chiamato «pensiero debole», con la sua timidezza nei confronti di tutte le affermazioni della verità. In modo simile, secondo il «decostruzionismo» proposto da Jacques Derrida, tutta la realtà è come un testo aperto a una miriade di interpretazioni conflittuali. Al posto del presupposto «moderno», secondo cui sono possibili risposte oggettivamente corrette, noi siamo tutti imprigionati nel «carcere del linguaggio», dove il relativismo sostituisce qualsiasi mondo razionalmente ordinato; il senso, se mai esiste, è creato da noi ed è sempre fluttuante. Anche la scienza ha abbandonato la ricerca di certezze verificabili ed è diventata antirappresentativa, indeterminata ed esitante.
    2. Non credere nella storia.
    Con un filosofo come Hegel la storia aveva preso il sopravvento sulla «natura» ed era diventata la categoria chiave per comprendere l’esistenza. Di conseguenza, mentre la modernità aveva promosso un’orgogliosa fiducia nel fatto che l’uomo avrebbe potuto infine prendere in mano la direzione della storia e modellarla in corrispondenza alle proprie varie finalità e visioni, il postmodernismo parla di una «fine della storia», mettendo in discussione tutte queste grandiose speranze e preferendo vivere senza grandi finalità, accontentandosi dell’utilità, della comunicabilità e di un’immediatezza in cui non esiste alcun passato o futuro reale. Quanto alla storia, così come in altri campi, i modelli di determinazione cedono il passo al caso e alla indeterminazione.
    3. Non sperare nel progresso.
    La modernità, per quanto diffidente nei confronti delle realtà assolute e delle autorità, ripose la sua fiducia nelle utopie del progresso, chiamate da Francesco Bacone il regnum hominis, con le sue speranze evolutive di superare i mali e di creare situazioni di felicità. Il postmodernismo è nato in parte dai disastri di questo secolo; abbandona tali speranze come arroganti e pericolose, coltivando invece solo il parziale e il frammentario.
    4. Non raccontare meta-storie.
    In un modo simile la modernità visse di varie storie mitiche dell’eroismo umano, come quella del furto del fuoco commesso da Prometeo a danno degli dèi; ma il postmodernismo rigetta i «meta-racconti» come «logocentrici», cioè ingannati dall’inevitabile bisogno umano di trovare un senso centrale per l’esistenza e di esprimerlo in qualche forma narrativa. La fede cristiana, nella misura in cui sembra un esempio di un «meta-racconto», cade sotto la critica del postmodernismo e viene giudicata «totalizzante», perché pretenderebbe di poter abbracciare tutto e di poter proporre un senso per tutto.
    5. Non concentrarti sull’io.
    Mentre la modernità diede vita, dal Rinascimento all’Illuminismo, a un nuovo umanesimo, a un’esaltazione dell’uomo quale centro dell’universo, sottolineando l’identità psicologica o l’individuo contenuto nell’io come la misura di tutte le cose, il postmodernismo propone la «morte dell’uomo» nel senso di un radicale scetticismo sugli approcci soggettivi e sull’importanza data alla personalità e all’autocoscienza nella cultura occidentale. La nozione cartesiana di un soggetto razionale sovrano somiglia a un’infantile illusione di onnipotenza.
    6. Non tormentarti sui valori.
    Mentre la filosofia moderna pose in primo piano, come nel caso di Kant, questioni attinenti la moralità e la libertà, e mentre la modernità viva ebbe la propensione a essere austera e anche puritana nel suo stile di vita, il postmodernismo coltiva lo spirito di Dioniso e Narciso: un edonismo spontaneo procede parallelamente a espressioni estetiche di autonomia. In quest’epoca privatizzata dell’immediatezza e delle immagini la responsabilità morale è vista come un’illusione ereditata da un’epoca diversa. In ultima analisi la vita è senza valore, le assolutezze morali sono illusorie e la libertà è solo un gioco. Non rimane alcun punto stabile di riferimento.
    7. Non confidare nelle istituzioni.
    Mentre il lungo processo della modernità vide l’evoluzione dello Stato democratico moderno e un crescente ruolo della politica nella società, il postmodernismo diffida di tutte le istituzioni e vede in esse delle forme manipolatrici di oppressione in mano ai potenti. Le tradizioni sono solo delle ideologie e delle forme di controllo; le Chiese sono inevitabilmente percepite come parte del passato ingenuo e autoritario.
    8. Non perdere tempo a pensare a Dio.
    Sotto il profilo religioso la modernità fece gradualmente dell’ateismo una filosofia plausibile; per la prima volta nella storia del mondo il rifiuto della fede da parte di intellettuali divenne una posizione diffusa tra le classi colte. Il postmodernismo, più che rifiutare l’ateismo, lo presuppone, mette da parte la sua militanza a proposito della «morte di Dio» e preferisce semplicemente non interessarsi più del problema della trascendenza. L’immanenza diventa sinonimo di buonsenso e il bisogno della ricerca religiosa scompare. Se uno deve farlo, può parlare del divino, ma nel senso di sentimenti transitori di estasi; attenzione però, all’illusoria nozione di «presenza»: tutto è assenza.
    9. Non vivere solo per produrre.
    La modernità sociologica comportò un’organizzazione urbanizzata della vita, imposta dalla rivoluzione industriale. Contro la priorità accordata a sistemi di efficienza economica, a uno sfruttamento meccanico della popolazione e della terra e alla logica dominante dell’emisfero sinistro del cervello, il postmodernismo protesta nel nome della casualità, del gioco estetico e di una serie di liberazioni associate all’emisfero destro del cervello. Il lavoro è sostituito dallo shopping e dal feticcio della moda.
    10. Non cercare l’uniformità.
    Sotto il profilo culturale la modernità fu una livellatrice implacabile, che impose l’uniforme stile di vita occidentale, credette nei tratti universali o tipici del comportamento umano e rimase cieca nei confronti delle tradizioni locali o uniche. Il postmodernismo ha riscoperto la «differenza» quale valore chiave e si compiace dell’evidente anarchia della diversità culturale.

    L’influsso sui giovani

    I «dieci comandamenti della postmodernità» indicano soprattutto delle linee di tendenza generali. Tutto questo, però, si traduce presto in una mentalità operativa: quella che quotidianamente constatiamo, appena lasciamo correre il nostro sguardo verso l’esistente.
    I giovani, i più esposti e i più fragili, rappresentano la categoria che ne risente più di tutti. Anche a questo proposito l’osservazione dà informazioni che fanno pensare. Stiamo assistendo a qualcosa diffuso e tanto omogeneo, da spingere molti osservatori a pensare che le innegabili differenziazioni rappresentano spesso modalità diverse di esprimere le stesse costanti.
    Senza nessuna pretesa di offrire un quadro esauriente né tanto meno l’analisi di fenomeni nella trama complessa delle rispettive cause, elenco alcune di queste linee comuni.
    * Rivalutazione dell’essere giovani, come una fase significativa dell’esistenza. Siamo progressivamente passati dalla consapevolezza che l’essere giovani era una stagione particolare dell’esistenza, una specie di… malattia la cui terapia era l’attesa e la pazienza, alla consapevolezza che l’essere giovani è un tempo della vita, con i suoi problemi e le proprie risorse, da prendere sul serio e da accogliere. Non riusciamo più a pensare ad una maturità parziale e funzionale, perché ci rendiamo conto che la maturità (quella giovanile come quella di ogni altra fase dell’esistenza) è un dato in sé, assoluto per chi lo vive, anche se relativo rispetto alla complessità della globalità. Oggi poi, da molte parti, la giovinezza viene persino esaltata come un riferimento normativo della stessa vita concreta: basta pensare a molti modelli culturali dominanti.
    * Tendenza verso l’autonomia e l’indipendenza, da cui consegue il considerare normali molte situazioni che un tempo consideravamo devianti, solo perché a chi le vive esse stanno bene o c’è un consenso diffuso su esse. Sono entrate in crisi, infatti, le pretese oggettivistiche, quelle che danno riferimenti e suggerimenti che dovrebbero funzionare da norma e da criterio di valutazione di tutto. Alla «cosa in sé», al dato sicuro e certo viene sostituito il «per me». La categoria della tolleranza o del rispetto della diversità diventa principio che distingue tra ciò che è bene e ciò che è male. È interessante constatare quanto questa mutazione progettuale non sia più considerata un cedimento (come la consideravano i modelli culturali che ci sono stati consegnati), ma una crescita in umanità, un cammino obbligato verso la libertà e la pienezza di vita e di responsabilità. Il confine tra ciò che è «normale» e ciò che invece non lo è, si sposta dal piano oggettivo a quello funzionale o consensuale.
    * Una progettualità orientata a considerare come un diritto irrinunciabile il poter vivere una vita soddisfacente e «felice». Nei modelli formativi tradizionali (l’aggettivo non offre una valutazione… ma solo una constatazione…) la felicità rappresentava l’obiettivo; e non poteva essere che così. Si trattava però in genere di una felicità collocata sempre un passo più avanti del presente e del posseduto, raggiungibile solo attraverso fatica, dolore, impegno da spendere nell’oggi in vista del domani. La cultura attuale tende, invece, a concentrare tutto nel presente e ad offrire, di conseguenza, nella possibilità di sperimentare felicità immediata e concreta il criterio di valutazione delle proposte. Ciò che va fatto per un futuro migliore è facile, semplice, alla portata di tutti, dotato di un potere trasformatore quasi magico.
    * Uno scollamento nei confronti delle proposte già elaborate, con conseguente diffusa «orfanità» sul senso e sull’orientamento, e la ricerca appassionata di tutto ciò che in qualche modo può saturare l’orfanità. Quest’ultimo tratto attraversa i precedenti, li percorre tutti e da tutti, in qualche modo, scaturisce. Alle promesse deluse e deludenti non può più far seguito il rilancio verso l’ulteriore, la cui rilevanza è contestata: produce crisi di senso e di speranza. La rottura del rapporto con gli adulti, cui tradizionalmente era affidato il ruolo di rassicurazione e di rilancio, corrisponde l’immersione più profonda nella trama dei rapporti simmetrici, quasi fosse sufficiente cercare l’appoggio di… un altro cieco per avere sostegno nel cammino.
    L’esito è quello stato insistito di orfanità che spalanca verso l’ansia di esperienze nuove e la disponibilità poco critica verso ogni proposta rassicurante.

    GIOVANI IN RICERCA E ADULTI IN CRISI?

    In questa situazione culturale sta capitando qualcosa di inedito, che ha conseguenze notevoli nell’ambito educativo e pastorale.

    Essere giovani in questo tempo

    La prima constatazione spinge a modificare il modo con cui, di solito, pensiamo ai giovani.
    L’essere giovani dipende innegabilmente da una serie di fattori psicoevolutivi. Li conosciamo, anche perché una letteratura abbondante ce ne offre descrizioni suggestive.
    Anche l’educatore ha attraversato la stagione della giovinezza e ne ricorda, con nostalgia, trascorsi ed eccessi. Questo bagaglio di informazioni, dal carattere esperienziale e scientifico, spinge alla pretesa di conoscere già tutto sui giovani e giustifica il tentativo di parlare di essi da questo punto di vista, utilizzando espressioni sicure e consolidate. Una delle espressioni, tra quelle più ripetute, porta a dichiarare «i giovani sono così e cosà… cercano questo e vogliono quest’altro», generalizzando sui giovani come se fossero un universo omogeneo.
    L’operazione poteva funzionare in una situazione di stabilità culturale. I dati generali descrivevano bene i singoli casi e permettevano l’elenco di eccezioni… che proprio per questo erano eccezioni (come era il caso di una adolescenza prolungata o di una maturazione anticipata…).
    L’attuale situazione culturale incide tanto fortemente sull’essere giovani da costringerci a riconoscere che è più determinante l’essere giovane in questo tempo del fatto stesso di essere giovane. In altre parole, la giovinezza non può essere descritta adeguatamente solo a partire dai tratti psicoevolutivi come da quelli somatici, ma si richiede una forte attenzione all’influsso culturale. Essa rende i giovani di questo tempo giovani molto diversi dai loro coetanei di altri tempi, e non ci permette più un riconoscimento adeguato solo a partire dai contributi delle discipline normalmente incaricate di offrirci descrizioni.
    E, inoltre, se il nostro tempo è tempo di profonda frammentazione, riesce difficile parlare dei giovani in genere. Dovremmo parlare delle storie personali dei singoli giovani… o, almeno, riconoscere la parzialità e la genericità delle generalizzazioni troppo sicure.
    Conosco molti educatori che fanno una certa fatica ad entrare in queste categorie. Si rifugiano in frasi fatte e stereotipate, oppure generalizzano a man bassa assumendo una esperienza particolare come categoria descrittiva della globalità. Anche le descrizioni di tipo quantitativo rischiano di ridurre a denominatori comuni (di maggioranza o di minoranza…) quello che è vissuto, storie, esperienza personale, frutto di variabili spesso imponderabili.

    Le incertezze di molti educatori

    Anche gli adulti e, in modo particolare, quelli di loro che avvertono la responsabilità di essere educatori, risentono dei cambi culturali in atto. Per essi, come per i giovani, diventa urgente utilizzare categorie di comprensione legate all’influsso determinante del tempo in cui viviamo.
    Faccio un esempio per sottolineare un aspetto che dà non poco da pensare: il passaggio violento dai modelli autoritari a quelli rassegnati e rinunciatari… e viceversa.
    Noi veniamo da una tradizione educativa e pastorale sicura e un poco arrogante, giustificata dalla coscienza dell’oggettività e dal servizio alla verità.
    All’inizio degli anni Settanta, molti di questi modelli sono entrati in crisi e si è progressivamente consolidata una mentalità educativa e pastorale molto diversa (per esempio: un certo ritegno nel fare proposte, nel nome del rispetto della libertà e responsabilità; il ridimensionamento della funzione dell’adulto in quanto educatore…), sperimentata spesso, magari in modo sofferto, come una conquista irrinunciabile.
    Oggi ci troviamo in una situazione particolare.
    Da una parte, l’esperienza di questi ultimi anni ha ridimensionato molte cose che nell’entusiasmo di vent’anni fa sembravano una conquista formidabile. Dall’altra, molti ricordano fatti che sembrano contradditori e chiedono l’invenzione di modelli educativi e pastorali alternativi.
    Alcune constatazioni affiorano spontanee:
    * Primo dato: i giovani cercano intensamente adulti con cui confrontarsi, entrare in relazione, progettare. Ricerche ed esperienze documentano il bisogno crescente di qualcuno, disposto a fare proposte capaci di afferrare la vita e il suo senso. Le proposte risultano significative quando sono caratterizzate da istanze chiare di radicalità e di responsabilizzazione.
    * Secondo dato: troppi adulti sono rimasti prigionieri dei modelli rinunciatari e permissivi che sembrano la condizione irrinunciabile per essere accolti dal mondo dei giovani. Per questo, troppo facilmente si presentano come «spettatori» muti… disposti solo a riversare anche sui giovani la crisi di identità che investe la loro persona e la loro funzione.
    * Non possiamo inoltre dimenticare che viviamo in una cultura fortemente propositiva… anche sulle cose più inutili. Nella relazione giovani-adulti affiora un polo autoritario incontrollabile, che si presenta in nome della felicità facile e seducente e sposta l’asse della relazione educativa assai lontano da quella istituzionale. Esso inibisce subdolamente quelle esigenze critiche e riflessive che dovrebbero caratterizzare ogni relazione interpersonale.

    Sul territorio… che è un ginepraio

    Lo spazio di incontro, di progettazione e di servizio educativo e pastorale è il terreno della vita quotidiana. Generalmente questo «spazio» (culturale e sociale) viene espresso con una termine globale: il territorio.
    Per territorio si intende non solo un luogo geografico quanto piuttosto uno spazio socio-culturale, connotato storicamente, in cui persone, famiglie e gruppi sociali in e mediante istituzioni, entrano in relazione tra loro, sviluppano multiformi attività (produttive, commerciali, sanitarie, culturali, educative, religiose, amministrative…) in vista della creazione di un ambiente che consenta a tutti di crescere globalmente, qualitativamente.
    Sul piano pratico aumentano le difficoltà proprio nel momento in cui è diventata pacifica la consapevolezza di dover radicare sul territorio i progetti educativi e pastorali.
    * Si può ancora parlare di «territorio», come di qualcosa preciso, identificabile, omogeneo? Esiste un pullulare di «non luoghi» (luoghi dalla forte organizzazione, in cui però è scarso il valore identificativo): è possibile pensare progetti educativi in questo contesto?
    * L’attenzione al territorio si traduce e si concretizza immediatamente nel confronto (e… qualche volta nello scontro) con una serie di elementi che sfuggono alla possibilità di «governo» della comunità educativa ed ecclesiale. Per esempio: le istituzioni (quelle formali e quelle informali), gli interessi dei giovani, i modelli di vita e di orientamento (cultura).
    * Una esigenza irrinunciabile è la contestualizzazione della pastorale giovanile. Nella situazione attuale la preoccupazione di contestualizzare la pastorale giovanile non diventa minaccia alla possibilità di fare pastorale giovanile «organiche»?

    Una nuova scansione temporale

    La trasformazione radicale della scansione temporale (il rapporto tra presente, passato e futuro) rappresenta uno degli esiti più inquietanti e diffusi della nostra stagione culturale.
    La tradizione educativa e pastorale aveva una sua scansione precisa: il riferimento fondamentale stava nel passato, considerato il luogo dei progetti realizzati secondo modalità ottimali (l’età dell’oro); il presente era solo funzionale: un banco di prova, dove si poteva sperimentare e verificare se e come le proposte erano state concretamente assimilate; il futuro funzionava come il tempo dell’appagamento dei sogni, del premio o del castigo, al massimo il tempo del riscatto, perché venivano finalmente riordinate le cose secondo il progetto originario, facendo eventualmente arrivare i nodi al pettine.
    In questo modello, la via educativa tradizionale prevedeva una consegna alle nuove generazioni di progetti impegnativi: gli adulti offrivano i loro sogni e le loro realizzazioni ai giovani, con la pretesa di portare a compimento quello che era stata iniziato e di costruire qualcosa di diverso rispetto all’esistente nella direzione del miglioramento. I compiti erano abbastanza semplici: non c’era da inventare, ma da realizzare. Il futuro era la bella copia del passato.
    Oggi la qualità della scansione temporale è profondamente mutata.
    Scarso è il riferimento al passato. Il giorno di ieri è lontano e dimenticato. È considerato, al massimo, per quello che fa rimbalzare sull’oggi. Avvenimenti che hanno occupato, qualche giorno fa, le prime pagine della cronaca sono ora un ricordo tenue e sfumato. L’accenno nostalgico «ti ricordi di...» è tacitato immediatamente, con la scusa dei molti problemi che ci attraversano, oggi, l’esistenza. Il futuro è considerato inquietante e preoccupante (dove andremo a finire?). L’attenzione e le preoccupazioni sono tutte concentrate sul presente... e si tratta, spesso, di un presente rapido e accecante, come il guizzo del fulmine in un temporale estivo.
    Il presente diventa una rincorsa di frammenti sganciati da una storia. L’esito è lo scarso livello di identificazione nei confronti di quanto è già dato. Molti cercano persino di fermare il tempo, rallentando la crescita, per non essere costretti ad immergersi in responsabilità ingovernabili… spesso anche per ragioni strutturali (crisi del lavoro). La perdita di memoria si traduce in una diffusa crisi di identità o la riduzione in identità deboli e fragili, unico rimedio gestibile per una stagione di crisi.
    L’incertezza sul senso produce la ricerca affannosa di esperienze «mordi e fuggi», che spesso sollecitano a sfidare persino la morte come ripiego nei confronti dell’anonimato e della noia.

    INDICAZIONI DI PROSPETTIVA

    Non ci basta conoscere i fatti. Ci chiediamo subito: cosa fare?
    Due difficoltà rendono complicata la proposta di linee di intervento.
    La prima riguarda la coscienza di quanto il problema da affrontare sia grave e urgente.
    Chi possiede tante risorse e sta affrontando problemi privi di urgenze particolari, può prendersela con calma, sperimentare e verificare con tutta tranquillità… ed eventualmente correre il rischio di giocarsi sugli ambiti meno inquietanti… fino a far diventare grandi i problemi piccoli e, di conseguenza, piccoli quelli grandi.
    Non è certamente questa la situazione degli operatori di pastorale giovanile. Chi è attento a tutti i giovani e mette la questione della vita e della speranza come riferimento decisivo del suo servizio, riconosce di trovarsi davanti questioni inquietanti… da affrontare con risorse… scarse.
    C’è poi una seconda difficoltà.
    Quando tutto sembra chiaro e facile, ci vuol poco a dichiarare: interveniamo lì… e i problemi sono risolti, presto e bene. Lo facciamo ancora, qualche volta, quando ci scateniamo in raccomandazioni devote che assomigliano più agli slogans gridati nelle manifestazioni di piazza, che all’andamento riflessivo e pensoso tipico dei progetti educativi e pastorali…
    Quando, invece, è chiara la coscienza della trama complessa di cause ed effetti, risulta assai complicato decidere priorità e procedure… anche perché c’è sempre qualcuno che mette in crisi le conclusioni, invitando a non dimenticare qualche ulteriore punto di vista. Non pochi si arrendono: o lasciano andare le cose per la loro strada o scivolano nelle semplificazioni scorrette. Oggi, in una situazione culturale di larga complessificazione, dove concentrare attenzioni e risorse? Per non restare prigionieri della complessità, dobbiamo scegliere con attenzione i punti nodali del processo e investire su essi in modo prioritario.
    Le difficoltà non possono però costringerci alla resa. Qualcosa (forse: moltissimo…) possiamo ancora fare. Provo a suggerire alcune linee di prospettiva, per affrontare la seconda parte del titolo del mio contributo: dove dovrebbe andare la pastorale giovanile?

    La questione di fondo: qualità della vita

    Suggerisco, prima di tutto, un orientamento di fondo, che percorre l’insieme delle proposte successive: il nodo della questione educativa e pastorale è la qualità della vita. Attorno alla qualità della vita possiamo impegnare sforzi e risorse.
    Oggi siamo tutti consapevoli che gli atteggiamenti fondamentali della vita cristiana richiedono una disposizione abituale, collocata nell’ambito della autoprogettazione e, di conseguenza, frutto di educazione, che traduca nel ritmo dei gesti concreti e quotidiani il significato di vita che essi rappresentano.
    L’esistenza quotidiana è nella verità esistenza cristiana solo quando la maturazione di personalità è orientata verso atteggiamenti umani, sulla linea e nello stile delle dimensioni costitutive dell’esistenza cristiana. In caso contrario, il significato espresso in forme tematizzate (e cioè l’orientamento cristiano esplicito e formale) resta un fatto vuoto, perché non trova la corrispondenza di una vita che dia consistenza a quanto è espresso. Sul nostro modo di essere uomini e donne di questo tempo ci giochiamo, dunque, la possibilità di essere cristiani di questo tempo e di offrire un dono di vita e di speranza a tutti.
    I primi passi della comunità dei discepoli del Crocifisso risorto erano segnati da una decisa reattività nei confronti della cultura dominante, come testimoniano gli scritti apostolici: la coscienza di essere minorità profetica e contrastata ha prodotto il coraggio di esperienze nuove e innovative, nel nome della radicalità evangelica. Poi, un poco alla volta, i modelli culturali sono cambiati e la minoranza ha preso consistenza e potere… e l’esperienza cristiana ha rappresentato lo stile dominante di vita, accogliendo quegli adattamenti che permettevano di restare dalla parte di chi dirigeva il ritmo di sviluppo della società. Oggi gli adattamenti culturali si sono succeduti e consolidati, ridisegnando uno stile di esistenza quotidiana che sembra davvero tanto lontano da quello evangelico. Per riaffermare il significato e la concretezza dell’esperienza cristiana diventa urgente produrre uno stile di vita diverso da quello che sembra pacifico e consolidato. Ne siamo tanto consapevoli che non riusciamo a liberarci dall’impressione che le celebrazioni della fede restino un vuoto rincorrersi di espressioni rituali, quando non hanno a monte una esistenza diversa e originale.
    C’è qualcosa di più inquietante ancora. Nel suo insieme la qualità della vita attuale non pone problemi solo alla possibilità di una matura ed integrata vita cristiana. Essa mette in crisi la possibilità stessa della vita e della speranza di tutti: le modalità della sua qualità e il fondamento, cercato e accolto, per credere alla vita e fidarsi di essa, nonostante le mille perturbazioni che l’attraversano. Troppi fatti di cronaca quotidiana lo documentano: non rappresentano solo le schegge impazzite di una logica corretta… nasce il dubbio che sia la logica dominante stessa a risultare abbastanza impazzita.
    Scopriamo così, in ultima analisi, che la ridefinizione di una nuova qualità di vita non propone una urgenza riguardante solo i cristiani, ma tutti, perché è un problema di vita.
    Quale «qualità di vita»? La risposta va maturata assieme. Dipendere, su una questione tanto spinosa, dalla pretesa di qualcuno… mette proprio in crisi, nello snodo più significativo, ciò che andiamo cercando.[3]

    Linee operative

    L’invito a concentrare le risorse attorno al nodo della qualità della vita rappresenta già una istanza concreta e operativa. Ci chiediamo però, ancora più verso il concreto: in che modo assicurare questo obiettivo?
    Non posso riprendere le tante cose già avanzate in altri contesti. Ricordo solo, anche qui, alcune priorità.

    Un atteggiamento di fondo: dai progetti alle strategie

    In questi anni ci siamo abituati a lavorare per «progetti». Ed è certamente una conquista preziosa, contro l’eclettismo, la superficialità e l’arrembaggio… tipico di un certo modo di fare educazione e pastorale.
    Sono convinto della necessità di fare un passo avanti.
    Siamo in una stagione di larga frammentazione e di complessificazione. Essa investe e attraversa soprattutto i giovani più attenti all’oggi e più inseriti nelle sue dinamiche. Scegliere modelli operativi forti e organici (i «progetti») può far correre il rischio di reagire ad alcuni limiti innegabili, attivando procedure che taglieranno fuori i più deboli, quelli che di fatto sono maggiormente sensibili alle logiche e alla cultura dominante. Anche questo è un modo di fare discriminazione.
    L’alternativa è quella di elaborare prospettive di futuro mediante «strategie» (= indicazioni di priorità e di sequenze), che possono aprire verso operazioni differenziate.
    Dove sta la differenza? Non è solo un gioco di parole o il cedimento a quella triste abitudine di inventare ogni giorno una parola nuova…
    Nel progetto tutto è stabilito in partenza (obiettivo e metodo), con la possibilità di assicurare una buona verifica, misurando l’esito raggiunto su quello che era stato previsto. La categoria dominante è quella della coerenza.
    Nella strategia, invece, il già consolidato e le ipotesi di partenza sono considerate preziose… ma non rappresentano il dato sicuro e il riferimento per la coerenza. L’elemento qualificante è offerto dall’attenzione all’oggi e al presente (in chiave educativa… perché non è mai rassegnazione…) e dalla capacità di inventare e di scommettere su direzioni di futuro.

    Ripensare alla fedeltà

    Nei modelli educativi e pastorali tradizionali il tema della «coerenza» e quello della «fedeltà» ritornavano con insistenza. L’uno richiamava l’altro e sulla loro misura venivano costruite le raccomandazioni e valutate il livello raggiunto di maturazione umana e cristiana.
    La prospettiva è entrata in crisi, come possiamo constatare quotidianamente. Non credo che la cosa sia imputabile alla cattiva volontà dei giovani d’oggi. Ci sono difficoltà culturali e progettuali che non dipendono dai singoli individui… ma c’è anche un prezioso salto di qualità. Nella logica della coerenza e della fedeltà il riferimento corre verso il passato e al presente viene affidato il compito di funzionare come banco di prova. Il futuro ha poco da aggiungere rispetto a quanto ci viene dal passato; al massimo rappresenta il luogo del premio o del castigo.
    Le trasformazioni culturali in atto hanno violentemente pregiudicata questa visione, come ho cercato di mostrare nella pagine precedenti. Non hanno però offerto solo una contestazione, mettendo in discussione ciò che doveva restare assodato e tranquillo. Ci hanno, invece, aiutato a scoprire prospettive nuove.
    Se pensassimo la fedeltà (e la coerenza) come tensione verso il futuro… cercando di modificare, in questa logica nuovo, modelli comunicativi e propositivi?
    Mi spiego.
    Alla radice sta, come sempre, la spinosa questione del senso. Il modello tradizionale collegava il senso all’acquisizione progressiva nel presente di quanto il passato ci consegna. Oggi possiamo riformulare la fondazione del senso in un rapporto originale tra passato e futuro, per ritrovare il senso della vita nel «possesso» del presente.
    Senso è ragione e fondamento della nostra concreta esistenza, capace di interpretare i singoli avvenimenti e ricondurli ad unità. La sua ricerca è esperienza personale, legata alla gioia e alla fatica di esistere, nella libertà e nella responsabilità, ed è tensione verso qualcuno o qualcosa che offra le buone ragioni di ogni decisione e scelte importanti. Queste «buone ragioni» non ce le possiamo dare noi, da soli. Troppi eventi le mettono in crisi, nel momento in cui pensiamo di non aver più bisogno del contributo di altri. Esse sono un dono, che ci viene da lontano. Vengono dagli altri, dal passato, da quella trama di eventi e persone per cui e in cui esistiamo. Vengono, alla radice, da Dio che si è fatto vicino, tempo nel nostro tempo, per essere la ragione del nostro vivere e sperare. Il futuro è parte del presente perché ne rappresenta il sogno e la realizzazione, almeno nella promessa.
    Per questo, il recupero nella memoria degli eventi che ci avvolgono, come l’aria che respiriamo, è condizione pregiudiziale per vivere il presente in una intensa esperienza di senso.
    Fare memoria per dare senso al presente non coincide però con la ripetizione del passato, ma richiede quella capacità di discernimento critico che permette di interpretare il vissuto, distinguendo tra la passione che ha spinto verso realizzazioni precise e le realizzazioni stesse.
    Al presente restituiamo quelle esigenze che la cultura attuale ha permesso di riscoprire come dimensione irrinunciabile di ogni esistenza autentica: la riscoperta della soggettività come realtà non pattuibile, la solidarietà in chiave orizzontale, il «gusto» della vita e la voglia di felicità… Facendo memoria, siamo abilitati ad accogliere queste esigenze e a riformularle all’interno di quella dimensione di oggettività che la vita si porta dentro. Il tempo e la sua scansione determinano una specie di piattaforma esistenziale per questa esperienza: il presente è radicato nel passato e aperto in responsabilità non pattuibile verso il futuro.
    L’attenzione verso il presente sollecita, nello stesso tempo, ad una profonda capacità prospettica.
    Alle sfide dell’oggi vogliamo rispondere con un’azione che sappia prevedere, riorganizzare, ridefinire compiti e priorità, inventare risorse e ridisegnare l’uso di quelle disponibili.
    Anche questo è un momento della memoria: l’oggi, ricompreso dalla prospettiva del passato, si protende verso un futuro nuovo.
    La proiezione verso il futuro restituisce serietà alla memoria ed evita di bruciare tempo ed energie nel vuoto rincorrersi di rimpianti del passato.
    La tentazione è facile. Nelle situazioni di crisi, quando i problemi incombono e sembrano pronti a sommergere le persone, riaffiora la nostalgia dei «bei tempi». Si consolida l’impressione che allora tutto filasse a puntino e che, in ultima analisi, è sufficiente ritornare con coraggio a ripetere quei gesti, per non dover più fare i conti con le crisi che ci investono.
    Lo sguardo verso il futuro restituisce invece alla fedeltà la capacità inventiva. Nel progetto, pieno del rischio del futuro, rimettiamo in gioco la capacità di servire la vita e di consolidare la speranza.

    Una pastorale di «quotidianità educativa»

    La situazione culturale attuale sollecita la comunità educativa e quella ecclesiale ad investire risorse «educative» verso i giovani.
    Questa scelta non connota solo uno stile globale di relazione.
    Spinge in concreto a privilegiare ambiti di intervento e modelli relazionali in cui sia possibile vivere e realizzare un forte stile educativo. La scelta di distinguere eccessivamente tra spazi di competenza della comunità ecclesiale e spazi dove essa al massimo fa opera di supplenza… mette in grave questione la scelta educativa e l’esercizio educativo con cui vogliamo caratterizzare anche l’azione pastorale.
    Stimo importante e qualificante porsi seriamente il problema ed immaginare soluzioni motivate, soprattutto in una stagione in cui molti tendono a superare il coinvolgimento in attività e campi che sembrano svigorire la forza profetica dell’esperienza cristiana. Questo è uno degli ambiti in cui la fedeltà alla tradizione carismatica salesiana può ricadere come dono dello Spirito per tutti… verso i giovani e la loro educazione anche cristiana.
    Sollecito, di conseguenza, all’attenzione educativa verso gli ambiti concreti di vita:
    – la scuola:
    – lo sport;
    – la gestione differenziata della cultura (spettacolo, manifesti, personaggi…);
    – un rilancio della funzione dell’adulto come componente indispensabile di ogni processo educativo, in quanto testimone di un vissuto e propositore, anche critico di modalità di vita (anche di vita cristiana);
    – l’assunzione di impegni educativi nell’esercizio di funzioni professionali abitualmente considerate lontane da ogni impatto educativo, operando un coinvolgimento su questa responsabilità delle figure di adulti che di fatto attraversano la vita dei giovani.

    Fare proposte

    All’interno di questo forte servizio educativo, un buon progetto educativo e pastorale deve prevedere anche la proposta ai giovani di un progetto di vita, con esplicito riferimento a Gesù nella comunità ecclesiale.
    La ragione sembra chiara: non si tratta di assicurare proseliti… ma di servire la vita… e la vita richiede l’immersione nel mistero di Dio per essere assicurata in pienezza anche di fronte a ciò che la mette inesorabilmente in crisi (dolore e morte).
    Questa urgenza va rilanciata con forza, per non ridurre il servizio pastorale ad una supplenza di servizi educativi che competono alle istituzioni civili, lasciando il compito evangelizzatore… alle vecchie logiche indottrinanti.
    Soprattutto in una situazione culturale come è l’attuale non possiamo dimenticare che l’urgenza di fare proposte è fortemente collegata alla qualità delle proposte stesse.
    Il confronto con modelli ed esperienze diffuse spinge a riconoscere l’urgenza di:
    – esperienze forti, capaci di scatenare attenzione e crisi, per aprire verso l’inedito;
    – personalità forti, capaci di creare identificazione e ascolto.
    Lo esige anche la qualità della proposta cristiana, che non può essere ridotta a qualcosa di scontato e tranquillizzante.
    La questione impegnativa è le condizioni irrinunciabili per favorire l’interiorizzazione della proposta e la sua capacità liberante e responsabilizzante.

    Intercettare la vita quotidiana

    Una constatazione ci sfida e ci interpella: le persone (i giovani soprattutto) definiscono sempre di più la loro identità personale, colgono i problemi ed elaborano le risposte al di fuori dei luoghi educativi tradizionali.
    I luoghi della vita quotidiana vengono spesso vissuti come luoghi alternativi rispetto a quelli tradizionali, progettati come luoghi di «protezione» e di crescita.
    I luoghi della vita quotidiana sono i luoghi di fatto di un buon progetto educativo e pastorale e della sua realizzazione.
    La comunità ecclesiale li riconosce in modo consapevole e ripensa la sua relazione con essi, soprattutto attraverso l’impegno responsabile di adulti.
    Un rilievo particolare va riconosciuto oggi alla «scuola», per i notevoli cambi che sta realizzando e per la consapevolezza che per alcuni giovani (che vivono abitualmente ai margini della istituzione ecclesiale) e per alcuni ambienti (basta pensare a tante zone lontane dai vantaggi e dai problemi dei tessuti urbani…) è l’unico luogo di incontro, di confronto e di relazione.

    Una proposta per «tutti» i giovani

    I punti precedenti elencano diverse esigenze. Possono essere pensate come dimensioni egualmente urgenti di ogni intervento educativo. Esse però vanno organizzate (e mediate) in proposte concrete. A questo livello chi opera nel quotidiano decide alternative serie alla contrapposizione tra accoglienza e missionarietà e inventa un modo di fare proposte educative rispettose dei giovani concreti e promozionali rispetto alla situazione di fatto.
    Per favorire questa operazione ricordo alcune preoccupazioni:

    * Evitare le proposte «discriminanti».
    Suggerisco prima di tutto una scelta fondamentale e irrinunciabile per un intervento educativo e pastorale fedele che può diventare criterio di verifica per ogni proposta.
    Rifiuto l’alternativa tra proposte forti e deboli: mi sembra falsa e pericolosa: ogni proposta è chiamata a suscitare libertà e responsabilità, sulla misura concreta di coloro cui è rivolta e in particolare attenzione al contesto di vita reale.
    Chiedo invece la capacità di scegliere tra proposte
    – discriminanti, perché escludono qualcuno sul metodo con cui sono offerte: perché suscitano dipendenza o non sollecitano a libertà e responsabilità o perché insistono sulla assolutizzazione incorretta di dimensioni che invece restano relative;
    – non-discriminanti, perché sono fatte scegliendo come possibili interlocutori tutti i giovani (nella situazione reale di vita e di esperienza in cui si trovano) e non solo quelli (molti o pochi) che si rendono disponibili.
    Le proposte sono discriminanti anche quando il riferimento ai giovani avviene a partire da modelli generici (i giovani di oggi…), che dimenticano la frammentazione culturale che attraversa il nostro e il loro mondo.

    * Pluralità di progetti o progetti «alla carta»?
    Una seconda preoccupazione va sottolineata, come criterio di verifica della proposta.
    In una situazione di larga complessificazione credo sia doveroso offrire pluralità di progetti (come espressione differenziata di un quadro unitario fondamentale) come risposta a situazioni differenziate. Questa ipotesi vuole reagire
    – sia alle proposte unitarie e tutte ben elaborate… che costringono all’alternativa «prendere o lasciare» e partono dall’ipotesi che l’ottimale sia assicurato dall’omogeneità (sul livello più alto o su quello più basso… come capita spesso in molte istituzioni formative);
    – sia nei confronti di una pastorale generica, buona per tutte le stagioni, con proposte «alla carta».
    Va certamente privilegiata una proposta pastorale concreta e «mirata»: aperta verso tutti, si orienta in situazione verso i referenti concreti cui vuole rivolgersi.

    * Dal desiderio di fare proseliti al «piccolo resto» impegnato.
    La terza preoccupazione riguarda i referenti reali del processo educativo e pastorale. La loro scelta influenza sia la valutazione dei risultati (quando le cose sono andate bene…), sia la qualità della proposta stessa.
    Alcune dimensioni mi sembrano irrinunciabili:
    – superamento della preoccupazione di fare proseliti per «inglobare» tutti in una struttura o in una istituzione;
    – superamento del modello degli «scatti» progressivi (nel cammino della virtù e dell’impegno…), che porta al desiderio di un isolamento verso la vetta della montagna dell’esperienza umana e cristiana…;
    – consolidamento, al contrario, della scelta di offrire proposte sempre più alte e impegnative, come strumento di maturazione di una «minoranza», di un «piccolo resto» nella situazione di complessità attuale, impegnato però ad essere «lievito» per tutti, disposto a perdersi nella massa di farina per dare vitalità a tutti. In questo caso, a monte sta il passaggio da una Chiesa che cerca di conquistare verso il suo interno ad una Chiesa impegnata a produrre esperienze significative e salvifiche per tutti, attenta a formare persone capaci di vivere in situazione di minoranza, per essere «lievito» e «luce».

    Il nodo dell’esito

    Molti giovani, in termini più o meno espliciti, si chiedono: cosa mi capita se accetto la proposta cristiana e mi consegno al progetto di vita in esso contenuto?
    L’ho già ricordato: la risposta alla domanda «chi è il cristiano?» non può essere realizzata ripetendo alla lettera, magari con qualche rapido aggiustamento, quello che ci proviene dalla tradizione e dal vissuto di coloro che, nella loro vita, hanno elaborato una risposta, forse alta e impegnativa, alla questione. La loro proposta, infatti, è sempre il tentativo di mediare, concretamente e storicamente, la decisione radicale per Gesù di Nazareth e i modelli culturali del tempo e dello spazio in cui essi sono vissuti.
    Ci rendiamo conto però, abbastanza facilmente, che non basta spolverare con qualche etichetta evangelica i modelli culturali dominanti. Essi spesso si portano dentro delle logiche che hanno davvero poco da spartire con il Vangelo e sollecitano i discepoli di Gesù a ritrovare il coraggio dei martiri, capaci di prendere le distanze dalle logiche dominanti, anche a costo della propria vita.
    Qui sta il punto critico della questione: non possiamo rilanciare lo stile di esistenza di tanti grandi cristiani, per non mescolare la loro passione con i modelli culturali del loro tempo; ma neppure possiamo assumere, con eccessiva disinvoltura, i modelli dominanti oggi, per non smarrire la radicalità evangelica.
    Che fare allora?
    Una interessante via di soluzione è stata sperimentata durante la «giornata mondiale della gioventù» e affidata dal Papa ai giovani che ha incontrato: realizzare nuovi modelli di inculturazione della fede e del vangelo e trasformare le nostre comunità ecclesiali in «laboratori» dove sperimentare e far sperimentare questi processi..
    Questa è, a mio avviso, la grande sfida che l’oggi ci lancia. Possiamo essere cristiani e offrire ai giovani un progetto di vita centrato su Gesù il Signore, solo se riusciamo a coniugare, in espressioni nuove, la fedeltà al vangelo e la fedeltà all’oggi. Molte delle cose sperimentate durante la «giornata mondiale della gioventù» mostrano esempi e direzioni di cammino.
    Pensiamo, prima di tutto, alla immagine che hanno offerto di sé la grande maggioranza dei giovani che hanno invaso pacificamente le vie di Roma. In genere, erano giovani come tutti gli altri, capaci di entusiasmarsi e di esprimersi come fanno i giovani di oggi, senza complessi né modelli prefabbricati. Sono persino riusciti a farsi accettare in San Pietro… senza essere costretti a modificare abiti e atteggiamenti. Eppure hanno vissuto, con intensità commovente, la Via Crucis, hanno pregato in silenzio adorante, hanno partecipato attentamente alla «catechesi» (quando l’esperienza risuonava secondo la loro sensibilità) e hanno celebrato devotamente il sacramento della riconciliazione. Molte celebrazioni ufficiali sono riuscite a coinvolgere per il loro tono giovanile, anche se questo può aver recato qualche disagio ai difensori dei modelli tradizionali. La veglia di preghiera del sabato è stata vissuta con forte intensità partecipativa, anche se non c’era nessun cantautore di fama ad animare la serata.
    Pensiamo, ancora, alle parole che il Papa ha rivolto in questa occasione.
    La solennità di alcuni discorsi è stata travolta dai suoi atteggiamenti e dalle sue espressioni: queste hanno assicurato l’ascolto, il ricordo, il coinvolgimento, molto di più dei testi che poi saranno citati.
    La testimonianza di Piazza San Pietro, la consegna ai giovani della responsabilità di «essere sentinelle del terzo millennio», la confessione, personale e sofferta, della qualità impegnativa della vita di fede… e molte altre cose ancora che tutti noi ricordiamo… sono un modo di dire la fede di sempre dentro i modelli culturali e le sensibilità giovanili di oggi.
    Abbiamo tanto da imparare, come singoli e come comunità ecclesiali.

    NOTE

    [1] Duprè L., Passage to Modernity, Yale University Press, New Haven 1993, 249.
    [2] Gallagher M.P., Fede e cultura. Un rapporto cruciale e conflittuale, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, 124-127.
    [3] Qualche esempio ho provato a immaginarlo, mettendo a frutto il contributo di tanti amici che avvertono come urgente la questione. Si veda Tonelli R., Educhiamo i giovani a vivere da cristiani adulti, Elledici, Leumann 2000.


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