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    Ripensare i luoghi ecclesiali



    Riccardo Tonelli

    (NPG 2000-01-54)


    La prospettiva

    Per ritagliare un piccolo spazio di riflessione in un argomento tanto vasto e complesso come è quello all’ordine del giorno in questo dossier, preciso la mia collocazione.
    Alla radice stanno tre constatazioni. La loro convergenza fa nascere quel problema che la mia proposta intende affrontare.

    Le tre constatazioni

    Tre constatazioni rappresentano il riferimento obbligatorio per affrontare il tema nella logica che percorre l’insieme della proposta. Non mi soffermo a motivarle, perché sono già state analizzate a lungo negli articoli precedenti.
    Prima constatazione: chi vuole annunciare la buona notizia del Vangelo ai giovani, in modo che essa risuoni per loro veramente «come un’apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori e insieme una soddisfazione alle proprie aspirazioni» (RdC 52 ) riconosce di essere impegnato ad intercettarli là dove essi vivono di fatto, esprimono i progetti della loro esistenza e consolidano o mettono in crisi la loro speranza. Sulla forza di questa convinzione, nessuna azione pastorale può essere pensata e realizzata restando lontani o indifferenti rispetto ai luoghi della loro vita quotidiana.
    Seconda constatazione: se l’azione pastorale passa attraverso strutture, persone, istituzioni, la «vicinanza» (il «camminare con i giovani», come raccomanda la nota della Presidenza CEI), non è una questione teorica, giocata solo all’insegna dei documenti e delle dichiarazioni di principio; ma è fatto di mille piccole concrete espressioni, di manifestazioni precise e significative, di uno stile globale di presenza. «Piantare le proprie tende» nel centro dell’accampamento della esistenza quotidiana dei giovani diventa una esigenza concreta, che sollecita verso un ripensamento e una riscoperta del significato e della funzione delle strutture di cui dispone la comunità ecclesiale.
    Terza constatazione: le comunità ecclesiali possiedono strutture e istituzioni proprie: oratori e centri giovanili, luoghi di incontro e di divertimento, gruppi e movimenti, attività e iniziative dai mille volti… Sono nate sull’impegno e la responsabilità di servire più adeguatamente l’educazione cristiana dei giovani. Hanno una lunga tradizione alle spalle. Molte persone hanno orientato la loro vita (a tempo pieno totale alcune, a tempo pieno parziale altre) al servizio dell’animazione di queste strutture. I punti di vista possono cambiare anche rapidamente, ed è facile immaginare una riconversione delle persone. Le strutture restano, anche se sono collocate in spazi fisici o culturali lontani da quelli in cui si esprime la vita reale dei giovani.

    Il problema

    Che fare di queste strutture?
    Se privilegiamo i luoghi della vita quotidiana dei giovani e impegniamo le comunità ecclesiali ad intercettarli là dove essi vivono continuamente, dobbiamo sbaraccare questi luoghi? Al contrario, vanno riaffermati con forza, immaginando tutto quello che può di nuovo renderli adeguati ad assicurare uno spostamento dei giovani dai luoghi di vita verso una presenza in essi? Si può immaginare un impegno di partecipazione «ad ore»… come uno si fa le otto ore sul posto di lavoro e si gestisce poi a piacimento il resto della giornata e le altre giornate non lavorative?
    La questione è tutt’altro che teorica.
    Qualche anno fa, nel fervore del rinnovamento conciliare e sotto la spinta della ricerca di segni espressivi di uno stile ecclesiale nuovo, un sacerdote mio amico ha fatto una scelta coraggiosa e innovativa. Era responsabile di una parrocchia, abbondantemente fornita di strutture ecclesiali: chiesa parrocchiale e annessa canonica, oratorio e campi da gioco, bar e cinema… Il territorio invece era sprovvisto di cose simili: una periferia-dormitorio di una grande città operaia, priva di tradizioni e di strutture.
    La decisione è stata pronta. La chiesa parrocchiale è diventata sala multifunzionale al servizio del quartiere. Il suo utilizzo è stato regolato da convenzioni e orari, in modo che tutti coloro che ne avevano necessità potessero usufruirne adeguatamente, nel rispetto di alcune scadenze prioritarie. La casa parrocchiale, troppo grande per essere abitata da una sola persona, è stata affittata e il suo ex-inquilino si è accontentato di un miniappartamento in un grande condominio. Dell’oratorio e affini nemmeno a parlarne: costruito con le elemosine della gente del quartiere è tornato ad essi, a disposizione di tutto il territorio.
    Tutto filava liscio. Nel giro di qualche anno, però, sono affiorate le prime difficoltà, accompagnate da nostalgie… e dal tentativo di recuperare (a prezzi proibitivi…) quel minimo di strutture ecclesiali che permettesse un’attività educativa e pastorale con i giovani… visto che la piazza non restituiva di certo un alto indice di funzione educativa e pastorale.
    Non voglio giudicare una scelta, nata da una coerenza alta e da un coraggio profetico. Mi chiedo, però: come progettare in prospettiva? Non è saggio giocare a rincorrere, dopo pochi anni, le decisioni, maturate a grande fatica.
    Questo è il problema. Ce lo poniamo oggi, con la maturità acquisita da lunghe, sofferte sperimentazioni, nella consapevolezza che molti cambi in atto nella situazione culturale giovanile sono senza ritorno.

    Il criterio

    Certamente è difficile rispondere in modo perentorio. Le vie di soluzione possibili sono molte: tutte hanno le loro buone ragioni.
    Di fronte a problemi concreti – come sono tutti i problemi «pastorali» – non è saggio accontentarsi di elencare le soluzioni disponibili… e restare prigionieri delle eccessive opportunità. Si deve scegliere, rischiando e giocandosi. La ragione della scelta non può essere un intervento esterno. Se esclude la pertinenza delle altre possibili scelte, supera il pluralismo in modo forzoso, scegliendo la via dell’autoritarismo.
    In questi anni abbiamo scoperto e sperimentato che l’unico modo saggio di scegliere in situazioni di pluralismo è quello che deriva dal confronto su «criteri» di scelta. Invece di optare immediatamente per una ipotesi o per il suo contrario, è meglio cercare una intesa su una serie di orientamenti, già di respiro operativo, che aiutano a discernere nel pluralismo, chiamando in causa la libertà e la responsabilità dei soggetti.
    Sulla esperienza di questi anni e facendo eco ad una sensibilità che sta progressivamente affermandosi come decisiva, propongo perciò un criterio, capace di fare ordine nel groviglio delle interpretazioni.
    Per decidere quale atteggiamento assumere a proposito dei «luoghi ecclesiali tradizionali», nel pluralismo di possibili orientamenti, la comunità ecclesiale che vuole essere «presente» là dove sono i giovani di fatto e si impegna ad intercettare le loro attese e domande, si muove sempre con una precisa attenzione «educativa». In altre parole, per elaborare una via di soluzione ai problemi che la investono, non privilegia le vie teoriche più raffinate (quelle vanno bene per redigere i proclami…), ma neppure riafferma quello che è già stato sperimentato e consolidato (per non correre il rischio di risolvere i problemi guardando sempre e solo al passato…). Non si nasconde dietro rimandi e citazioni. Non cerca il consenso a tutti i costi, adattandosi al livello più basso dei pareri, per poter coinvolgere tutti. Analizza invece il problema ponendo la questione educativa come filtro decisivo. Adatta le sue scelte, ripensa i principi, inventa il futuro con l’unica continua preoccupazione di aprire verso soluzioni che siano in grado di assicurare alle persone concrete qualità vivibile di vita, esperienze di consolidamento della speranza, capacità di reale protagonismo attivo nelle concrete situazioni di esistenza.
    Non è facile costruire un criterio di questo respiro e meno ancora applicarlo per orientare decisioni e scelte.
    I criteri teorici sono sempre precisi e oggettivi. Si sa ciò che va fatto e ciò che va evitato. Su questi parametri è facile scegliere ed è spontaneo sentirsi colpevoli, quando le scelte non sono coerenti con il dover-essere.
    Il criterio «educativo» pone riferimenti sicuri, ma affida la comprensione e la realizzazione alla responsabilità dei soggetti in causa. Quello che altri hanno fatto o quello che è sempre stato fatto o che le disposizioni suggeriscono di fare… non è la maggiore di un sillogismo… ma solo un importante punto di confronto, destinato ad orientare le decisioni e a mettere in crisi continuamente quelle maturate.

    La proposta

    La mia proposta cerca di essere fedele al principio «educativo». Per questo, non dichiara cosa fare e cosa evitare, ma si preoccupa solo di delineare alcune tracce per orientare chi, nella mischia della realtà, è chiamato a scegliere e ad organizzare le risorse.
    Nessuno dubita sulla insostituibile funzione di riferimento dell’istituzione ecclesiale. Essa ha la responsabilità di esercitare compiti di sostegno e di orientamento nella maturazione delle persone e nel consolidamento della loro identità. La maturazione della vita cristiana richiede, infatti, la capacità di progettarsi, di reagire alle provocazioni che la realtà ci lancia, di decidere la nostra posizione nella trama della vita, facendo riferimento a Gesù e al suo messaggio, testimoniato oggi nella Chiesa, come ad una indicazione determinante per la qualità stessa della vita.
    Su questo, in genere, è facile assicurare il consenso. La questione è più terra terra. Riguarda il «come». È possibile assicurare una buona capacità di riferimento senza, nello stesso tempo, consolidare un minimo di appartenenza? È tanto urgente assicurare la funzione di riferimento da essere costretti ad alzare l’indice di appartenenza? È meglio rischiare, conservando i giovani all’interno dei luoghi ecclesiali, oppure scegliendo questa strada non corriamo il rischio contrario di separare eccessivamente dalla vita, costringendo a restare «bambini» rispetto ai problemi veri o inserendo nella mischia dell’esistenza persone poco allenate ed eccessivamente fragili?
    La risposta non può essere data in astratto. Va elaborata facendo riferimento all’ambiente reale di esistenza, come esige una corretta attenzione educativa. Come sappiamo, infatti, l’essere giovani (la dimensione psicoevolutiva dell’esistenza) è fortemente condizionata dal fatto di essere giovani in un tempo e in un luogo preciso. Non possiamo quindi pensare alla situazione giovanile in astratto; lo dobbiamo fare con uno sguardo attento sui condizionamenti, positivi e negativi, della stagione in cui viviamo.

    Un riferimento con un minimo di appartenenza

    Prima di rispondere all’interrogativo, preciso i due termini che sono appena stati trascritti: «appartenenza» e «riferimento». Lo faccio collegandoli all’insieme sociale (il gruppo) che, in modo privilegiato, ha il compito di assicurare l’una e l’altro.
    Gruppo di riferimento è quel gruppo di cui il soggetto è membro almeno idealmente, del quale ha assimilato le norme, i valori, le opinioni, i modelli di comportamento, al punto che la sua partecipazione attuale ad altri gruppi è regolata dal suo rapporto di identificazione affettiva con questo gruppo.
    Gruppo di appartenenza è il gruppo nel quale il soggetto è presente, al quale partecipa, condividendo attività, scopi e processi.
    Nel caso in questione, possono funzionare da gruppi di riferimento quei diversi luoghi ecclesiali tradizionali, che ho elencato, a titolo esemplificativo, poco sopra.
    Sono invece gruppi di appartenenza i luoghi in cui i giovani vivono la loro vita quotidiana (scuola, amici, luoghi di incontro e di divertimento, «muretto», bar e piazze, aggregazioni sportive, discoteche…).
    Ogni gruppo di appartenenza è anche di riferimento, perché spinge ad adeguarsi alle norme correnti per evitare censure. Dicendo però semplicemente «gruppo di riferimento» si ipotizza un gruppo diverso da quello di appartenenza: un gruppo a cui un soggetto si collega solo intenzionalmente per un confronto ideale sulle norme, già interiorizzate nel tempo della appartenenza piena.
    In una società come è la nostra, la funzione di riferimento non può fare a meno di un minimo di appartenenza. Senza appartenenza i luoghi educativi diventano come una piazza su cui scorrono tutte le proposte, lasciando la persona in balia di se stessa e della forza di seduzione di cui godono alcune proposte, sul fascino di chi le rappresenta.
    I luoghi ecclesiali tradizionali hanno la funzione insostituibile di rappresentare, in situazione normale, quell’esperienza di riferimento, dotata di un minimo di appartenenza, di cui c’è bisogno per vivere con impegno e responsabilità una qualità alta di vita quotidiana e di esperienza cristiana. Non rappresentano l’oasi protetta e rassicuratrice nel vortice delle situazioni di disagio che investono l’attuale situazione culturale e giovanile. Né sono il porto sicuro cui approdare, dopo la navigazione tumultuosa nel mare in tempesta.
    Il luogo di vita è quello della vita quotidiana, dove tutti stanno e in cui non esistono spazi protetti. Chi ha vissuto una esperienza più maturante o ha percorso un cammino più favorevole, non può fuggire dalla mischia del quotidiano. È sollecitato ad entrarci dentro, con maggiore responsabilità, caricandosi della sollecitudine di tutti gli altri.
    Tutti però hanno diritto di essere aiutati a crescere, essere confortati nei momenti duri, sostenuti in quell’avventura di speranza da condividere poi con altri.
    I luoghi ecclesiali tradizionali hanno questa funzione: insostituibile, soprattutto in una stagione come la nostra, e provvisoria, quasi funzionale, nella visione ecclesiologica in cui ci riconosciamo.
    Ripensare le esigenze ecclesiali dalla prospettiva educativa significa, infatti, ridimensionare persino le grandi esigenze, per misurarle al cammino, graduale e incerto, dei giovani.

    Quattro compiti

    Quattro grossi compiti ricadono sulle strutture ecclesiali, da questo punto di vista.
    – Primo: il coraggio di decentrarsi verso i luoghi della vita quotidiana, raccogliendo da essi le sfide, quelle autenticamente provocanti, cui cercare rapide e incidenti soluzioni. Per dirla con una battuta ad effetto: la comunità ecclesiale non è inquieta prima di tutto perché i giovani disertano le sue liturgie, ma perché la loro esistenza è minacciata e la loro speranza frana sotto l’onda della disperazione.
    – Secondo: la capacità di identificare i luoghi della vita quotidiana dei giovani, per conoscerli e riconoscerli, sapendo che lì sta la «pasta» che la propria responsabilità di essere «lievito» è chiamata a far fermentare. Identificare con disponibilità critica significa evitare, da una parte, la tentazione di demonizzare, sull’onda delle nostalgie e delle valutazioni frettolose; dall’altra comporta il coraggio di rinunciare a quelle enfasi che sono tipiche di un certo modello dei tempi passati. Si vive la prima tentazione quando ci si scaglia, con furore profetico, contro situazioni dominanti… dimenticando che qualche decennio fa gli stessi fulmini erano lanciati contro realizzazioni che oggi sono patrimonio comune e condiviso. Si vive la seconda tentazione quando i temi della vita quotidiana (famiglia, lavoro, amore…) sono descritti solo in una prospettiva teorica, molto astratta e utopica, dove le parole solenne si sprecano e dove sono del tutto assenti i gravi e inquietanti problemi che oggi li attraversano. Purtroppo, non pochi operatori pastorali soccombono spesso all’una o all’altra tentazione, e qualche documento ecclesiastico sembra persino incoraggiare il cedimento.
    – Terzo: ripensare la prospettiva formativa. Molte delle risorse formative sono state tradizionalmente spese per abilitare persone a «difendersi» dalle seduzioni dell’esterno e molte energie sono state impegnate per rendere l’interno attraente, interessante, alternativo.
    Modelli e raccomandazioni erano spesso in questa logica. La convinzione che i luoghi ecclesiali tradizionali hanno una prioritaria funzione di riferimento e la loro capacità di appartenenza va progressivamente smontata per permettere al lievito di disperdersi nella pasta… sollecita a ripensare la formazione da una prospettiva molto diversa. Lanciare sul campo senza formazione adeguata è pericoloso: ha il sapore del suicidio premeditato.
    – Quarto: lanciare i giovani più impegnati verso i luoghi della vita quotidiana di tutti i giovani per un preciso servizio di animazione. Non si tratta di «modificare» questi luoghi di vita, piegandoli, un poco alla volta, fino a farli diventare «come» i luoghi ecclesiali. L’impresa – per chi la cerca – è tanto impossibile quando scorretta. Il servizio di animazione ha un altro obiettivo: la trasformazione di questi luoghi – nel pieno e totale rispetto della loro specificità – da spazi di disperazione, di silenzio e di sopraffazione... a luoghi di ascolto, ospitalità, accoglienza, accettazione della diversità, solidarietà allargata, riconoscimento di sé e degli altri.
    Grazie alla presenza di giovani e adulti impegnati, possono passare da «non luoghi» (perché incapaci di sostenere l’identità di chi li frequenta) a luoghi di esperienza e di maturazione progressiva.

    IN CONCRETO

    Per tradurre la convinzione teorica in prassi vissuta si richiede la messa in opera di precise e concrete condizioni. La fantasia di ogni operatore può decidere quali siano queste condizioni. Le esperienze offerte nelle pagine precedenti mostrano interessanti direzioni di marcia. Per sostenere la ricerca, suggerisco qualche cosa anch’io, prima di concludere.

    Far crescere modelli di fede adulta

    I temi su cui stiamo riflettendo chiamano immediatamente in causa l’esperienza di fede dei credenti e delle comunità ecclesiali. Per vivere in modo maturo l’atteggiamento nuovo verso la vita quotidiana e le sue espressioni, siamo tutti sollecitati ad una conversione verso una fede adulta.
    Mi basta ricordare l’esigenza con qualche veloce cenno di richiamo.
    Chi vive il proprio rapporto quotidiano con le altre persone, con le istituzioni pubbliche, con le mille realizzazioni che l’avventura dell’esistenza pone in essere… in un atteggiamento di paura, di difesa, di aggressività ingiustificata, manifesta un livello di fede ancora debole e incerto. Questo modo di fare può facilmente meritare il rimprovero che Gesù rivolge ai suoi discepoli, rannicchiati sulla barca sbattuta dalle onde in tempesta del lago. È evidente – spero – che non giudico il livello personale di fede; valuto però la sua manifestazione esteriore, i segni ecclesiali di questa esperienza vitale.
    In causa ci sono le dimensioni costitutive dell’esistenza credente e quel cambio deciso di prospettiva cui ci ha sollecitato il vento del Concilio.
    Stiamo esprimendo, in concreto, una figura di Chiesa: dalla Chiesa che cerca di concentrare attorno a sé tutta l’esistenza delle persone, per realizzare meglio il suo servizio di sacramento di salvezza, alla Chiesa che invece riconosce di esistere in quanto sa condividere e autenticare «gioie e speranze, tristezza e angosce» di ogni uomo (GS 1).
    La figura di Chiesa è corrispettiva a quella di salvezza: verso quale salvezza è orientato il servizio ecclesiale concreto?
    La manifestazione visibile è il modello di spiritualità in cui il credente si impegna a vivere la sua esperienza di salvato e amato da Dio. I modelli tradizionali, che ancora pesano sulla esperienza cristiana nelle sue espressioni più grossolane, sollecitano ad una fuga dalla storia, almeno sul piano delle intenzioni e dei desideri, e affidano alla presenza di Dio… quei compiti magici che invece dovremmo caricarci sulle nostre spalle. Per vivere decentrati verso i luoghi della vita quotidiana, senza nostalgie e nascosti tentativi di conquista, va ricostruito un nuovo modello di spiritualità, capace di far amare la vita di tutti e le sue espressioni, e di far contemplare queste stesse esperienze, alla ricerca del mistero che si portano dentro, da riconoscere per essere nella verità, e da autenticare per vivere nell’impegno e nella responsabilità dei discepoli di Gesù.
    Per vivere la qualità nuova del servizio pastorale come espressione profonda di uno stile globale di vita, la nostra fede debole, paurosa, aggressiva o rassegnata, è sollecitata a crescere in maturità.

    Riposizionare sui problemi veri

    La seconda condizione ricorda un altro atteggiamento di fondo, su cui è possibile impostare una verifica e la voglia di conversione. Lo rilancio, riprendendo un cenno fatto poco sopra.
    Ci mettiamo a pensare e a progettare, perché ci sentiamo inquietati da problemi a cui vogliamo trovare risposte adeguate.
    Spesso i problemi che ci premono addosso sono problemi veri e reali.
    Qualche volta, purtroppo, sono problemi falsi.
    Possono essere falsi per differenti ragioni: o perché ce li siamo proprio inventati, forse per eccesso di zelo; o perché rappresentano qualcosa che non ha radici solide; o perché sono solo di una fetta di gente, alle prese con i propri problemi per non accorgersi di quelli gravissimi che attraversano l’esistenza dei più. L’aggettivo «falsi» va preso quindi con beneficio d’inventario. Ma non può certo tranquillizzare.
    Per stabilire quali sono i problemi «veri», in una stagione di cui la verità è minacciata continuamente da mille strane pretese, il criterio obbligato per una comunità ecclesiale è il confronto con il Vangelo.
    Gesù si proclama per la vita (Gv 10, 10). In genere, non si preoccupa di precisarla con aggettivi, che possono avere sapore riduttivo. Quelli che usa sono «piena» e «abbondante». Ci suggerisce invece un criterio concreto: la vita, per tutti, sul ritmo della quotidianità.
    Dalla parte della vita, senza eccessivi aggettivi che hanno la triste funzione di ridimensionarne l’ampiezza e la concretezza, lo sguardo corre verso «tutti». I problemi, quelli veri, sono quelli che riguardano la possibilità di vita per tutti. Tutti... è un dato serio: vuol dire la gente che vive nelle nostre città, che prende l’autobus al mattino, costretta a svegliarsi alle prime luci per riuscire a salire e arrivare a tempo al lavoro, che si affanna e spera, con mille progetti in testa.
    Anche per definire di quale vita si tratta, il vangelo ci riporta alla quotidianità: la vita è quella di tutti i giorni, dove la donna perde una moneta preziosa e la pecora scappa dall’ovile come il ragazzo, assetato di libertà e di avventura, dove la festa sta per finire per mancanza di vino o il ritorno verso casa si fa triste per il tormento della fame.
    La comunità ecclesiale pensa e verifica la qualità del suo servizio da questa prospettiva. Riconosce di avere una competenza irrinunciabile per la vita di tutti, quella che le proviene dall’annuncio della salvezza di Dio e dalla celebrazione del suo progressivo realizzarsi nella storia. Sa di poter servire il cammino verso la pienezza di vita nel coraggio di annunciare, con forza e amore, il Vangelo del suo Signore. L’attenzione alla vita concreta e quotidiana e l’annuncio del Signore della vita non sono due compiti differenti né successivi. Il Vangelo è per la vita e la speranza; il suo annuncio è il contributo specifico nella trama della vita e della sua espressione.
    La comunità ecclesiale non si preoccupa del Vangelo, ma della vita quotidiana; e si chiede come annunciare il Vangelo e come celebrare la speranza, per servire la vita e la speranza quotidiana di tutti.
    Per questo si decentra continuamente verso i problemi «veri», quelli della vita di tutti, reagendo alla tentazione di far prevalere i suoi (piccoli) problemi gestionali su quelli (grandi) della vita di tutti.
    Purtroppo le cose non vanno sempre secondo queste logiche.
    La condivisione dell’orientamento pastorale che ispira questo dossier richiede il coraggio di una conversione, difficile soprattutto in una stagione di crisi diffusa, quando sembra che la soluzione dei problemi (quelli «interni»…) stia proprio nel chiudere porte e finestre, stringendo i ranghi e riconcentrandosi sull’autocomprensione della propria identità.

    Assicurare figure e funzioni educative nuove

    La forza educativa dei luoghi ecclesiali tradizionali è assicurata non tanto sulle espressioni verbali che in essa circolano, quanto soprattutto sulle figure attorno a cui si concentra il consenso e da cui dipende spesso il clima che si respira. In concreto, questo significa l’insieme degli educatori, i personaggi che contano e che vengono citati come riferimento, i leaders che orientano decisioni e scelte, quelle persone attorno a cui si polarizza l’attenzione dell’istituzione (quelle che fanno esclamare: «Oggi abbiamo il grande onore di poter incontrare, qui all’Oratorio, il signor tal dei tali»). Un peso rilevante, in questa prospettiva, è svolto dai modelli presentati: santi, richiami, frasi celebri ricordate con maggior frequenza… Queste figure, in genere, acquisiscono prestigio e influsso con il passare dei giorni. Non si consumano, ma, come i beni educativi, si accumulano e si consolidano.
    Esse hanno ottenuto il posto e la funzione che occupano in una stagione in cui dominava un certo tipo di cultura e la funzione della comunità ecclesiale era pensata in termini diversi. Basta pensare alla vita dei santi. Di San Luigi la tradizione educativa sottolineava spesso le sue virtù religiose, il tempo destinato alla preghiera, il suo amore sconfinato alla «bella virtù»… San Luigi ha vissuto tutto questo in modo eccellente. Ma non è riducibile a questo. Egli ha abbandonato gli splendori e le agiatezze della sua corte per servire i poveri per amore del Signore ed è morto, contagiato da quella terribile malattia che curava in coloro che stava servendo. Mettere in risalto di San Luigi i primi valori dimenticando i secondi… è frutto di un progetto culturale. Viene proposto come «modello» in una certa prospettiva, perché sta a cuore ai gestori dell’istituzione «quella» prospettiva». Chi accentua una dimensione a scapito dell’altra, lo fa perché ha bisogno di modelli che sostengano e incoraggino uno stile di esistenza che per lui è importante.
    Se cambia la prospettiva, devono cambiare i modelli di sostegno.
    Sto suggerendo una prospettiva un po’ diversa da quella tradizionale: i luoghi ecclesiali sono chiamati a diventare luoghi di riferimento per giovani impegnati ad animare i luoghi della vita quotidiana di tutti i giovani. Per poter realizzare una proposta del genere, senza gettare i giovani disponibili allo sbaraglio, è urgente attivare processi formativi adeguati. Uno dei momenti più alti di questo impegno formativo è costituito dalla proposta di figure educative di questo taglio, persone impegnate a vivere la loro esperienza cristiana nella mischia della vita di tutti i giorni, un pugno di lievito diffuso nella pasta della quotidianità per farla fermentare tutta. Di qui l’esigenza ricordata nel titolo del paragrafo: la rivisitazione delle figure educative che sono proposte come modello. Alcune, che hanno giocato la loro vita in una direzione lontana da questa, hanno… il diritto di essere messe a riposo, perché non sempre è immaginabile una capacità significativa di riconversione. Di altre – i santi, per esempio – andranno rapidamente riscritte le biografie, per cogliere dallo stesso tesoro le cose nuove di cui abbiamo bisogno. Ad altri… andrà offerto quel posto di prestigio, lasciato vacante dal tempestivo prepensionamento dei primi.
    L’operazione è tutt’altro che indolore, come documenta la storia di tante istituzioni religiose. Sono convinto, però, che è impossibile ottenere buoni risultati, rinunciando ad una operazione simile.

    Celebrazioni e salvezza

    Cito una esperienza, cui penso spontaneamente ogni volte che rifletto su questi temi.
    Mi trovavo, qualche primavera fa, nella piazza principale di una grande città italiana. La giornata era splendida, successiva a lunghe e noiose giornate di nebbia e di freddo. Era domenica. La piazza era gremita di gente. I negozi splendenti e i bar pieni. Molti passeggiavano al tepore del primo sole. L’impressione che si respirava era di gioia diffusa: si stava bene. Certo, ognuno si portava dentro i suoi problemi né di sicuro il panorama osservabile copriva l’arco di tutta la popolazione della città.
    Ad un certo punto ho deciso di entrare in una Chiesa, perché sapevo che stava per iniziare una celebrazione eucaristica. Mi sono trovato in un altro mondo: la bussola d’ingresso segnava il confine tra due modi di esistere. Dal sole sono piombato nella penombra… di ogni chiesa che si rispetti. Alla folla si è sostituita qualche vecchietta, sperduta negli angoli più remoti della Chiesa, alle prese con le proprie devozioni. Chi presiedeva l’Eucaristia procedeva come se avesse davanti a sé una basilica gremita… con un tono declamatorio e retorico che me l’ha fatto immaginare cieco e distratto.
    Non ce l’ho fatta a resistere. Sono tornato, triste, alla piazza piena di folla, di sole, di vita.
    La comunità è il luogo dove possiamo sperimentare quotidianamente il dono della salvezza che ci è offerto, a sostegno della nostra vita e a consolidamento della nostra speranza. Gli impegni educativi di cui ho appena fatto cenno, possono, al limite, essere coperti da altre istituzioni. La celebrazione della salvezza rappresenta invece qualcosa che solo la comunità ecclesiale può assicurare, in modo pieno e pertinente. Non possiamo farne a meno. I luoghi ecclesiali hanno la funzione preziosa di offrircene l’opportunità.
    Non vorrei però che si ripetesse mai, per coloro che dalla trama della quotidianità transitano alle celebrazioni della comunità ecclesiale per sperimentare quel dono di salvezza di cui hanno bisogno per sperare e lottare, quella triste esperienza che ho appena raccontato.
    La comunità ecclesiale, per svolgere questo suo compito irrinunciabile, è chiamata a verificare molti elementi della sua prassi pastorale.
    Non basta pensare alle celebrazioni sul criterio della «lode a Dio». I momenti delle celebrazioni ecclesiali sono, per molti, gli unici tempi di incontro e di visibilità ecclesiale. Essi vanno ripensati in modo da riabilitarli a diventare vera esperienza di riferimento, capace di sostenere l’identità cristiana di persone di questo tempo e di questo sistema sociale. La celebrazione eucaristica non è l’unico momento di riferimento. Ma è certo quello più diffuso e più alla portata di tutti.
    Per funzionare da riferimento i diversi gesti delle comunità ecclesiali dovrebbero qualificarsi come rilettura di quello che fa l’esistenza quotidiana di ogni persona dalla prospettiva dell’evento di Gesù il Signore. L’esigenza riguarda il tono e il ritmo della celebrazione, i problemi che richiama e le indicazioni operative che rilancia.
    Dovrebbero rappresentare un grande momento di comunione, in cui la differenza è dono reciproco e il vissuto dei partecipanti ricchezza condivisa per comprendere la parola e la presenza di Dio e per interpretare la propria vita da questa prospettiva.
    Soprattutto dovrebbero rappresentare una grande ricarica di speranza, cui attingere dal frastuono dell’esperienza quotidiana per ritornare ad essa con uno slancio rinnovato. Il pane eucaristico (quello della parola e quello del sacramento) ritempra le energie per rituffarsi nella trama dell’esistenza di tutti, con la profezia del Vangelo.
    Per assicurare tutto questo e il molto altro che il dono delle celebrazioni liturgiche rende disponibile ai discepoli di Gesù, qualcosa va certamente modificato e ripensato.
    Celebrare la salvezza per coloro che fanno della vita quotidiana il loro terreno concreto di presenza e di impegno, non è certo la stessa cosa che celebrarla per monaci che hanno scelto di ritirarsi fisicamente dai luoghi della storia concreta. Spesso, invece, molte nostre celebrazioni sono del secondo modello… ma vengono proposte a persone che vivono, per necessità e per scelta, secondo la prima situazione.


    T e r z a
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