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    Collaborare attorno ad un progetto


    Riccardo Tonelli

    (NPG 1986-02-15)


    ALLA RADICE DI MOLTE DIFFICOLTÀ

    Non è facile collaborare se alla radice non c'è un progetto comune e condiviso. L'affermazione è di facile e immediata verifica. Nel caso che stiamo studiando, la costatazione è sostenuta anche dalle dichiarazioni di molti protagonisti.
    Consideriamo per il momento la voce «progetto» così come suona, e cerchiamo di comprendere bene il problema.

    Ciascuno ha il suo progetto

    La difficoltà di collaborazione non nasce dalla assenza assoluta di progetto. Nessuno infatti passa dal silenzio alla parola, dal disinteresse alla responsabilità, dall'inerzia all'azione, a caso. Di solito, cambia situazione esistenziale solo chi ha un suo progetto sulla realtà e lo vuole realizzare.
    Certamente non sono necessari quadri di riferimento ad alto potenziale e tantomeno un profondo indice di consapevolezza. Ci deve essere però un suo «perché», se qualcuno trova il coraggio di gettarsi nella mischia dell'azione.
    Il problema che stiamo studiando non sta dunque nell'alternativa tra presenza o assenza di un progetto. Si colloca altrove. È difficile dare per scontato che coloro che si mettono a collaborare per la realizzazione di qualcosa, abbiano la stessa ragione per farlo. È difficile, per l'imprevedibile ricchezza di ogni persona. Ed è difficile oggi, in modo tutto particolare, per il vasto pluralismo che attraversa l'esistenza personale e collettiva.
    Quando l'oggetto da realizzare coinvolge l'esperienza religiosa ed ecclesiale, come è nel nostro caso, le difficoltà crescono, invece di diminuire. Da una parte, infatti, il pluralismo culturale attraversa questa esperienza in termini molto marcati. Dall'altra, poi, l'esperienza religiosa è di natura sua sbilanciata verso la soggettività: solo nella personale confessione la stessa fede nell'unico Signore diventa «proclamazione» per gli altri.
    Il problema non sta quindi nell'assenza di progetti, ma nel fatto che ciascuno ha il proprio e questo non ha niente da spartire con quello degli altri.

    Due soluzioni che non risolvono

    La difficoltà non è nuova, anche se si presenta oggi con toni più accentuati.
    Di soluzioni ne sono state trovate e sperimentate tante. Alcune funzionano; altre un poco meno.
    Tra quelle che non risolvono il problema, ne ricordo due di quotidiana costatazione. Le denuncio non in assoluto: troppi problemi sono implicati, per presumere una conclusione così perentoria.
    Le denuncio relativamente alla possibilità di assicurare collaborazione.
    Per raggiungere questo obiettivo non è sufficiente sopperire alla mancanza di condivisione progettuale con un intervento autoritario o potenziando solo la prospettiva relazionale.
    La prima soluzione cerca solo apparentemente una collaborazione. In fondo riconosce soltanto il bisogno di buoni esecutori. Quando si elaborano le scelte e si decidono le prospettive, il «progetto» di qualche persona funziona come normativo rispetto agli altri. Ragioni che giustificano l'operazione se ne trovano molte: la responsabilità ultima, la competenza particolare, il carisma, la tradizione... e qualche volta anche la «volontà di Dio».
    L'altra soluzione, quella che ho chiamato di tipo «relazionale», è più sottile, più dei nostri giorni; ma non è meno insoddisfacente, almeno rispetto all'esigenza di collaborazione.
    Ogni progetto si caratterizza e si diversifica su precisi contenuti e sulla loro organizzazione. Se la diversità è sul piano dei contenuti, non ci può essere collaborazione, ma scontro di prospettive e di strategie.
    Ci sono tempi e persone che amano lo scontro; cercano nella dialettica il punto di fuga verso la verità. Altre persone e altre culture sublimano le differenze e cercano una convergenza su una piattaforma nuova e davvero comune: la relazione. Nella collaborazione entra in gioco l'affettività intersoggettiva, la comune passione per una causa, la coscienza dell'urgenza e della drammaticità delle sfide, la disponibilità a rinunciare presto al proprio punto di vista per un bene superiore.
    Così la collaborazione sembra assicurata eccellentemente. Le divergenze restano però nel sottofondo. Qualche volta la relazione si infrange sull'onda dei «contenuti». Altre volte viene progressivamente enfatizzata, per sublimare meglio i contrasti di fondo.
    Si scatenano così atteggiamenti carichi di forte emotività (come l'aggressività verso l'esterno minaccioso, o la dipendenza esaltata nei confronti di qualche leader): essi fanno dimenticare la crisi che si sta soffrendo. Non c'è però collaborazione, ma solo interscambio affettivo.

    Dai singoli progetti verso un nuovo progetto

    L'unica via di uscita dalle difficoltà resta il confronto sui personali progetti e il lento faticoso cammino verso un progetto nuovo, comune e condiviso.
    Ho insistito sul fatto che ciascuno giunge all'azione con un suo progetto, perché il progetto comune non può nascere che dal confronto e dal superamento di questo prezioso punto di riferimento: frutto dei singoli progetti, è «oltre» ciascuno di essi. Non è il bottino di guerra che qualcuno si assicura nella zuffa aperta dal confronto. E neppure può consistere in quel compromesso che manovra nello scambio tra concessioni e irrigidimenti.
    Tutti risultano «vincitori» quando nasce un progetto nuovo. Esso è arricchito dai germi di vita che ciascuno ha saputo offrire; ed è per questo un dono prezioso a tutti.

    PER DEFINIRE «PROGETTO»

    Nella piattaforma concettuale in cui ho collocato il binomio collaborazione-progetto, ho utilizzato i termini con una prima spontanea approssimazione. Ora devo ricostruire un significato più preciso.
    Per fare questo, riprendo in considerazione la voce-chiave: cosa è «progetto»? Mi muovo per il momento in una logica prevalentemente formale. Nella terza parte scenderò invece più nel merito, prendendo in esame un progetto «di pastorale giovanile». In quel contesto, il qualificativo «di pastorale giovanile» specificherà il sostantivo «progetto»; qui invece il sostantivo avanza le sue pretese sul qualificativo.

    Progetto come insieme di valori operativi

    Per comprendere cosa sia «progetto», paragono il suo significato ad altri due termini, tanto vicini che spesso sono persino usati come sinonimi I due termini in questione sono: ideario e programmazione.
    «Ideario» non è una parola del vocabolario corrente; è piuttosto un neologismo di origine spagnola. Anche se non usiamo il lemma, abbiamo però spesso in mente il suo contenuto. Ideario significa un insieme di idee, orientamenti, valori, riferimenti a carattere generale e globale, che sono utilizzati come «ispirazione» ultima di un'azione educativa e pastorale. Sul piano dell'ideario si collocano i criteri che qualificano nel pluralismo delle possibili opzioni e le intenzioni di fondo che spingono verso l'azione concreta. Per fare esempi di risonanza immediata, sul piano dell'ideario metterei la scelta del criterio dell'Incarnazione e la proposta dell'integrazione fede-vita per la pastorale giovanile, o della «passione per la vita» in campo di animazione educativa.
    Il carattere generale e un po' astratto dell'ideario non comporta affatto una sua squalifica. Al contrario, proprio l'ideano dice quanto sono importanti le «idee» di fondo per ogni prassi, e come da una visione antropologica e teologica scaturisca una prassi tanto qualificata da differenziarsi radicalmente da quella che si ispira ad altre visioni.
    L'altro termine, introdotto per definire dal negativo «progetto», è «programmazione». La programmazione ha una precisa connotazione pratica e operativa. Determina le strategie concrete mediante le quali passare all'azione. Stabilisce i tempi e i luoghi, le urgenze e le modalità, gli agenti e i livelli di responsabilità spicciola nella cui risonanza si intende operare.
    L'ideario ha la pretesa di una certa universalità e durata nel tempo per il suo carattere globale e generale. La programmazione invece risulta sempre molto datata per esigenze di concretezza. Tutti sanno infatti quanto siano inutili le programmazioni generiche e vaghe.
    Sul piano dell'ideario la convergenza deve risultare piena. Di solito però non è difficile assicurarla, se l'ideano rispetta il suo carattere di riferimento ultimo e fondante. Sul piano della programmazione, la collaborazione lascia il posto ad una corretta «divisione» dei compiti e degli interventi, in base alle urgenze, alle competenze, alla sensibilità. La collaborazione sta nell'assemblaggio dei diversi contributi, verso quel «prodotto» finito che è il frutto maturo di una pluralità di approcci diversificati .
    Progetto dice qualcosa di intermedio tra ideario e programmazione. E sbilanciato verso gli orientamenti di riferimento; ma è tanto carico di risonanza operativa da sporgersi decisamente verso la programmazione.
    Progetto è un insieme di orientamenti a carattere operativo che determinano la modalità storica, «situata» e «datata» dell'ideario.
    In altri contesti ho ricordato la funzione ermeneutica della «situazione» per dare corpo e spessore ai valori e agli orientamenti. Il progetto è il luogo in cui si realizza questo processo ermeneutico. Sono riscritti i valori qualificanti, in un confronto disponibile con le urgenze del momento e del luogo, fino a poter dire: qui-ora ci muoviamo «dentro» questo orizzonte.
    Il progetto ha carattere totalizzante, perché è impastato di orientamento e di valori. Ma è sempre «relativo» ad una situazione concreta e storica.
    Riprendendo l'esempio fatto sopra, progetto è l'articolazione dell'integrazione fede-vita in un obiettivo operazionalizzato che permette di agire nell'attuale situazione giovanile.

    Quale collaborazione sul progetto

    Definito così il progetto, è possibile ipotizzare un modello di collaborazione, a livello di elaborazione, di esecuzione e di verifica. Il «contenuto» del progetto non è dato una volta per sempre. Va costruito in situazione, nella fatica di riscrivere gli orientamenti generali in orientamenti operativi. Ci sono casi specifici in cui l'ideario è assicurato da responsabilità carismatiche. In una situazione scolastica gestita da una congregazione religiosa, nell'orientamento pastorale di una chiesa locale o di un movimento ecclesiale, c'è per esempio una responsabilità non pattuibile circa l'ispirazione fondamentale della proposta. Il progetto però è sempre qualcosa da costruire in corresponsabilità, perché il riferimento alle situazioni trascina l'«assoluto» di cui alcuni sono «testimoni», verso il «relativo» del qui-ora: tutti coloro che fanno parte della istituzione educativa ne hanno una precisa titolarità (diritto e dovere, esigenze e competenze)..
    La corresponsabilità in fase elaborativa apre e fonda quella in fase esecutiva e valutativa. Si tratta però di una corresponsabilità particolare. Il progetto si traduce in azione (in forza della programmazione) sulla misura delle differenti competenze e nel ritmo dei diversi interventi. Lo stesso quadro di orientamenti operativi «ispira» il gesto di chi fa la catechesi e quello di colui che anima l'interesse sportivo, nella stessa istituzione educativa e pastorale. Sul piano operativo, la collaborazione non significa di conseguenza uniformità di azioni; ma neppure giustifica la frammentazione di interventi. Il progetto è lo stesso; è stato costruito in uno sforzo comune e condiviso; su esso tutti si misurano. Questo tutti intendono costruire, anche se operano su frontiere molto differenti.
    La corresponsabilità non investe il confronto tra i diversi interventi, ma attraversa il processo che va dal progetto (valori operativi comuni) agli interventi (modalità diversificate di realizzarli). La corresponsabilità sul piano esecutivo è assicurata nella consapevolezza che l'oggetto fondante la prassi è comune e condiviso. Chi lo sente come proprio, guarda, con speranza preoccupata e operosa, coloro che lo stanno realizzando sui diversi fronti. Non intende giudicare quello che viene fatto, per rispetto alla autonoma competenza altrui. Valuta però se quello che viene fatto si porta dentro lo «stile» del progetto e assicura la sua esecuzione. Non si verificano le singole prassi, ma la loro congruenza nei confronti del comune progetto.

    Corresponsabilità e animazione

    Chiudo queste riflessioni con una sottolineatura che il lettore attento ha già sicuramente colto. La esplicito, per la sua importanza.
    Al livello del progetto la corresponsabilità è totale, dicevo. Investe cioè i responsabili ultimi di una istituzione, gli operatori diretti e i giovani. Questo è evidente per la circolarità ermeneutica in cui il progetto viene definito.
    Anche in questo momento la funzione «educativa» non può essere messa a tacere. I responsabili ultimi dell'istituzione hanno il compito di orientare il progetto verso l'ideario, per evitare che la sua storicizzazione coincida con il suo tradimento. Gli educatori conservano una funzione propositiva, sempre un poco asimmetrica anche nella corresponsabilità, per evitare che il progetto risulti «contro» il bene reale dei giovani. Ai giovani compete l'istanza di concretezza e di creatività, per evitare che il progetto nasca già datato.
    Questi compiti non possono essere assicurati attraverso giochi sottili di potere o delimitazioni improprie di ambiti. L'unica strada praticabile sembra quella dell'animazione.
    Non devo certamente spiegare ai lettori di NPG il significato di questa affermazione. Basta qualche cenno veloce, parole evocate di orientamenti ormai lungamente meditati. Privilegiare la strada dell'animazione significa prima di tutto riconoscere l'interlocutore come colui che già è capace di ricostruire dal suo interno quei valori verso cui viene sollecitato, se qualcuno gli sta accanto per testimoniargli una dignità costitutiva e per restituirgli protagonismo e capacità critica.
    Animazione significa ancora privilegiare la comunicazione intersoggettiva come strumento originale di trasformazione. E significa affidare ad una intensa esperienza comunitaria la funzione di crogiuolo di ogni processo.
    Scegliere l'animazione è schierarsi dalla parte della vita e riconoscere che la sua promozione richiede, come condizione costitutiva, una sua intensa e mai risolta «passione».

    QUALE PROGETTO

    Finora ho ritagliato un modello formale. Ho descritto le caratteristiche di un buon progetto, capace di diventare luogo di collaborazione. Coloro che sono d'accordo su questa ipotesi, hanno ancora un lungo cammino da percorrere, per dare sostanza alla forma, consistenza e spessore al modello. La domanda a cui si deve dare risposta suona dunque così: se questo è «progetto», verso quale progetto «di pastorale giovanile» orientiamo la nostra ricerca, per consolidare e verificare la collaborazione tra sacerdoti, laici e giovani?
    La risposta non è semplice.
    Non è raro sentire affermazioni di questo genere: la collaborazione va bene ed è necessaria sui progetti educativi, perché lì sono tutti alla pari; in campo di pastorale, invece, bisogna rispettare le distanze: noi preti abbiamo una responsabilità unica e irrinunciabile... quindi corresponsabilità sì, ma fino ad certo punto.
    Le mie riflessioni mi hanno portato ad una conclusione diversa. Sono convinto che l'ambito della azione pastorale, proprio perché qualificato dalla costitutiva risonanza ecclesiale, esiga la corresponsabilità di tutto il «popolo di Dio» a titolo particolarissimo.
    Costruire assieme il progetto e collaborare in modo diversificato per realizzarlo (come ho detto al punto precedente) rappresenta perciò non una gentile concessione di chi non ce la fa più da solo a governare gli impegni, ma una espressione di verità costitutiva, una esigenza connessa alla natura stessa delle cose.
    Per coerenza con quello che ho detto del progetto, non posso suggerire io gli orientamenti e i valori su cui costruirlo. Vanno scelti assieme, in situazione. Posso però collocarmi un po' più a monte, quasi a livello dell'ideario.
    In questa logica ricordo alcuni elementi, capaci di funzionare come «sostanza» del progetto e come giustificazione indiretta delle sue esigenze. Rimando l'approfondimento e l'articolazione a cose già scritte in altro contesto (si veda, per esempio, il mio lungo articolo sulla pastorale giovanile, in NPG 1986/1).
    - La Chiesa del Concilio possiede una consapevolezza chiara circa l'intenzione globale per cui si fa pastorale giovanile: essa confessa, nel ricordo, nella celebrazione e nell'annuncio, che Gesù è il Signore per sostenere la debole speranza dell'uomo in una speranza-oltre-ogni-speranza, radicata nell'evento, gratuito e impensato, del regno.
    La pastorale giovanile è sempre una pastorale della gioia e della speranza, nel tessuto di esistenze troppo spesso tristi e scoraggiate. Per questa ragione il luogo della missione pastorale della Chiesa è il luogo concreto e comune della vita quotidiana degli uomini, il luogo dove entra in crisi o si consolida la speranza di ciascuno.
    - La Chiesa condivide fino in fondo la vita quotidiana degli uomini, senza presumere di potersi ritagliare uno spazio protetto, dove giocare da sola le sue carte.
    In questa logica, non credo che si possa accettare la tradizionale distinzione tra opere ecclesiali «proprie» e opere di supplenza. Alla radice di questo modello sta quell'atteggiamento di separazione tra Chiesa e mondo che la «Gaudium et spes» ha definitivamente superato. Se essa è per la vita e la speranza degli uomini e se serve la loro crescita dentro la vita quotidiana degli uomini, nessuna «presenza» è solo ecclesiale, come nessuna è estranea alla Chiesa.
    Si può annunciare che Gesù è il Signore per il Regno di Dio solo narrando come Gesù è vissuto con gli uomini del suo tempo e per la loro vita e speranza, e come alla sequela di Gesù si vive oggi con gli uomini e per la loro vita.
    La condivisione ha però una qualità: essa dice il suo «limite», la sua originalità.
    La comunità ecclesiale ritrova la forza per la vita e la speranza nelle celebrazioni sacramentali, nella dossologia gratuita e «inutile» del suo Signore. Là essa canta la gloria del suo Signore, per fondare in lui la capacità di credere alla vittoria della vita sulla morte. Nella missione evangelizzatrice esprime la speranza ritrovata in una presenza, testimoniale e servizievole, nella compagnia con tutti gli uomini e nella fatica di costruire una comunicazione comprensibile, interpellante e rassicurante, della buona notizia che solo Gesù è il Signore e che il regno della gioia e della speranza è l'esito inatteso del Crocifisso risorto.
    - Il servizio alla speranza, offerto dalla comunità ecclesiale, consiste nella narrazione dell'evangelo di Gesù il Signore.
    In questa narrazione la comunità ecclesiale proclama eventi «assoluti».
    Di essi la Chiesa si sente testimone e servi- trice. La loro verità non dipende dal consenso che viene assicurato o dalla percezione soggettiva della loro forza salvifica. La confessione «Gesù è il Signore», «Dio è Padre» sta prima di ogni parola umana; sta prima dell'esperienza del suo significato.
    L'assoluta e indicibile parola si è fatta però parola d'uomo, per risuonare come parola di vita e di speranza per ogni uomo, nel piccolo segmento di storia in cui vive.
    L'assoluto è diventato «relativo» per essere vicino, incontrabile, sperimentabile. La narrazione dell'evangelo è sempre di conseguenza racconto di storie quotidiane, riempite della potenza assoluta della storia di Dio.
    La storicizzazione (e la relativizzazione) dell'assoluto è realizzata nella proclamazione, nel ricordo, nell'operosità quotidiana della comunità ecclesiale.
    - Quest'unico grande servizio alla vita e alla speranza viene realizzato secondo modalità differenti, come risposta ai diversi bisogni e come espressione di specifiche competenze. La diversità dei «ministeri» si colloca qui. Investe il momento «esecutivo» del progetto. Nella sua fase elaboratrice, quando si tratta di definire «cosa» è vita e morte qui-ora e «come» sostenere la speranza in questo segmento di storia e con questi giovani concreti, la corresponsabilità è piena e totale. Solo creando reale convergenza di esperienze, sensibilità e competenze diverse, è possibile trascrivere l'assoluto di Dio in un progetto, «relativo» perché di uomini e per gli uomini, ma concreto, preciso, intessuto di reale quotidianità.
    Le esigenze formali di un buon «progetto» trovano così verifica e giustificazione in quel «progetto di pastorale giovanile che sacerdoti, collaboratori laici e giovani vogliono costruire. Il compito, duro e esaltante, di costruire vita e speranza nel nome del Signore della vita, può essere assolto solo se coloro che stanno dalla parte della vita convergono, nella diversità di responsabilità, sensibilità e competenze, sulla vita, in una passione che sa riconoscerle una progettualità che tutti ci misura.


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