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    Il cammino vocazionale di un giovane d'oggi



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1993-08-27)


    Possiamo pensare al problema vocazionale in termini prevalentemente teorici: con la preoccupazione diretta di formulare una buona teoria pastorale (educativa e teologica). E lo possiamo fare come chi si sente ormai con l'acqua alla gola e cerca qualche punto di riferimento sicuro.
    Le due prospettive mi sembrano egualmente importanti, soprattutto se vengono risolte in collegamento.
    La riflessione teorica è preziosa, per possedere corretti punti di riferimento. La violenza delle urgenze costringe a conservare realismo e senso del concreto.
    Io tento un'alternativa, cercando, in qualche modo, di unire le due esigenze. Lo faccio però proponendo un modo parziale di vedere le cose: la mia proposta punta su qualcuno dei tanti aspetti in questione e cerca soluzioni dentro alcune scelte molto precise.

    IL SENSO DELLA MIA PROPOSTA

    La mia proposta intende suggerire indicazioni a carattere educativo per educare i giovani a vivere con responsabilità la propria vocazione. Penso nello stesso tempo a quell'impegno vocazionale esigente che deve concludere ogni cammino di crescita nella fede e, con un'attenzione tutta speciale, a quella decisione, coraggiosa e definitiva, che spinge molti giovani a «consacrare» la loro esistenza al servizio di Dio e dei fratelli in istituzioni religiose.
    Spesso l'accento corre alla "vita religiosa" in senso stretto. Non voglio però distinguere troppo tra vocazioni sacerdotali e vocazioni religiose, perché sono convinto che alla radice dei problemi attuali ci sia qualcosa di molto comune alle due scelte di vita, in sé non necessariamente coincidenti.
    La proposta si colloca quindi in quegli spazi di esistenza che l'educazione cristiana dei giovani è chiamata a servire. In questo modo, non solo affermo, quasi come punto di partenza, la necessaria continuità tra l'educazione, la pastorale giovanile e la pastorale vocazionale. Ma sottolineo anche con forza che solo giovani "educati" ad una esperienza di vita coerente con le esigenze del Vangelo, potranno ritrovare il coraggio di seguire il Signore Gesù nella vita religiosa e sacerdotale.
    Non voglio proporre una teoria teologica sull'animazione vocazionale. Preferisco muovermi nel concreto di quello che in questi anni, con tanti amici, ho vissuto e sperimentato. Per questo la mia proposta è costituita soprattutto dal racconto di una storia vissuta.
    Lo so che le storie non sono mai esportabili di peso né possono essere generalizzate a cuor leggero.
    Chi le racconta le carica della gioia con cui le ha vissute e cerca i toni più appassionati per renderle convincenti.
    Esse però possono continuare in altre storie personali non per il fascino che sanno scatenare ma per il coinvolgimento che sono capaci di suscitare.
    Sono consapevole che la scelta vocazionale (soprattutto quella relativa alle vocazioni di speciale consacrazione) si porta dentro una specificità ecclesiale irrinunciabile. Essa ha riempito l'esistenza di tanti nostri fratelli e sorelle, impegnati, con coraggio radicale, nella sequela del Signore Gesù. Solo confrontandoci su questi esempi concreti di vita consacrata possiamo riaffermarla e riproporla ancora oggi.
    Riconosco però il condizionamento dei modelli culturali anche nelle esperienze più impegnative della fede. La parola indicibile di Dio si fa continuamente parola d'uomo per essere parola di salvezza per l'uomo (DV 13).
    Per questo mi sembra urgente ripensare alla radice questa stessa esperienza, per ritrovare una fedeltà rinnovata. I profondi cambi culturali attuali ci sollecitano a decifrare le dimensioni fondanti da quelle relative e ci spingono verso la riespressione di queste esigenze dentro nuovi modelli antropologici.
    Sono convinto che solo in questa fatica possiamo proporre con forza un progetto di sequela ai giovani di questo nostro tempo.

    UN TEMPO DI PROFONDI CAMBI

    In questa nostra stagione culturale sono presenti molti segni di rinnovamento e di ripresa, anche in quel mondo giovanile che suscitava le maggiori preoccupazioni. Molti giovani manifestano una larga disponibilità all'impegno e al servizio verso i più poveri e sofferenti. Il volontariato si diffonde e si consolida come prassi ripetuta di presenza e di responsabilità. Rinascono forme ed espressioni di matura esperienza cristiana (la vita sacramentale, la preghiera, l'ascolto meditato della Parola, l'amore alla Chiesa e la partecipazione alle sue manifestazioni...): già molti giovani incanalano tutto questo in un rinnovato impegno di scelta di vita, anche apostolica e religiosa. Stanno progressivamente diminuendo le difficoltà, a livello personale, culturale e istituzionale, che tanta inquietudine hanno suscitato nei decenni appena trascorsi.
    Questi segni di speranza non possono però farci dimenticare la diffusa situazione di crisi che sembra investire le radici stesse della scelta vocazionale (e specificamente di quella religiosa). Non è davvero sufficiente attendere che essa si stemperi e tutto ritorni alla apparente tranquillità degli anni trascorsi.

    Un modo nuovo di pensare alla sequela

    Molte volte è stata posta al centro della sequela del Signore Gesù una esigenza di fuga dal presente, con la conseguente rinuncia a tante cose che condividiamo con gli altri uomini. La scelta impegnata di Dio sembrava comportare così un certo rifiuto del tempo e della vita quotidiana.
    La ragione, più o meno consapevole, era offerta da una visione dialettica tra quotidianità e sacralità, che, a causa del peccato, collocava, il mondo, la storia, la vita in uno spazio lontano da quello in cui Dio opera per la salvezza.
    Di qui la conclusione facile e radicale: il cristiano coraggioso abbandona questo mondo che lo disturba nella sua esistenza spirituale e si trasferisce nello spazio del sacro.
    I religiosi operano il passaggio in forma istituzionale e pubblica. Abitano in un luogo diverso da quello degli altri uomini; hanno ritmi di vita e occupazioni originali.
    La teologia conciliare ha sollecitato a rivedere il senso globale di questo modello di vita religiosa e sacerdotale. I cambi culturali in atto lo investono anche sul piano della sua concreta praticabilità.
    La scoperta della laicità ha rotto la dialettica rigida tra i due mondi contrapposti. Gli impegni di molti religiosi coincidono, per scelta vocazionale, con quelli di tanti altri uomini. Basta pensare ai compiti educativi o a quelli promozionali, in cui si esprime la missione apostolica di molte Congregazioni religiose e alla necessità di condividere, spesso in un orizzonte di pluralismo ideologico e culturale, interventi che erano gestiti abitualmente in proprio.
    Molti giovani non se la sentono di esprimere la loro decisione per il Signore Gesù in una tensione dialettica tra la vita quotidiana e l'esperienza di salvezza. D'altra parte la scelta religiosa non può essere vissuta senza il coraggio della radicalità, sul piano dei contenuti, dello stile di vita e della stabilità decisionale.
    Viene spontaneo chiedersi dove passi il confine di questa radicalità. È saltato quello facile tra sacro e profano; ma anche alcuni ripensamenti attuali sembrano troppo labili e stemperati, per assumerli come principi di rinnovamento.

    Appartenenze deboli e selettive

    Un altro dato culturale molto diffuso sembra minacciare alla radice una dimensione centrale della vita religiosa e sacerdotale tradizionale. Anche qui è più chiara la contestazione al passato che l'invenzione di alternative.
    Siamo in un tempo di larga e insistita complessità strutturale e culturale: da un sistema sociale unificato, in cui le diverse istanze erano organizzate da un unico principio ordinatore, siamo passati ad un sistema sociale raccolto attorno a diversi e molteplici riferimenti.
    La persona, nella nostra società, appartiene così a differenti aggregazioni sociali con ruoli attivi e diversificati. Riesce a convivere in questa situazione conflittuale solo esprimendo una versione debole di appartenenza. Il rapporto tra la persona e le diverse istituzioni diventa poco vincolante e scarsamente carico di valori decisivi per la strutturazione della personalità.
    L'istituzione viene spesso considerata prevalentemente in termini strumentali e funzionali.
    Questa situazione mette in seria difficoltà la funzione educativa e un po' protettrice dell'istituzione formativa, soprattutto religiosa.
    Anche i giovani, orientati verso la vita religiosa e sacerdotale, hanno molteplici punti di riferimento e spunta quella "reversibilità delle scelte" che tanto giustamente preoccupa chi riconosce alla vita religiosa e sacerdotale l'esigenza di decisioni stabili e impegnanti. D'altra parte, la pretesa di restituire una funzione totalizzante all'istituzione religiosa fa paura o richiede costi educativi troppo alti.
    Non è solo questione di ambiente di vita e di lavoro o di ritmi che sembrano studiati apposta per isolare da quelli che governano il tempo e gli interessi dei coetanei. Anche la funzione dell'autorità rientra in questa logica.
    All'autorità come "fonte del sapere" e del "dovere", in un tempo di pluralismo si contrappone l'esigenza di riaffermare la propria identità, magari "debole" e frammentata, contro ogni tentativo che ha sapore di espropriazione.

    Dall'isolamento alla compagnia

    Non voglio ricordare tutti i tratti di quel nuovo modo di pensare e di vivere che esprime le trasformazioni culturali in atto.
    Un altro problema va però sottolineato perché propone uno dei punti dove il discernimento è più impegnativo e urgente.
    La vita religiosa e sacerdotale ha, molto spesso, fatto riferimento ad una vasta esigenza di solitudine interiore che spingeva fino all'isolamento. L'enfasi sul monastero, sulla sua collocazione anche geografica e sul suo significato spirituale si è tradotta, per i religiosi di vita apostolica, nella "cella del proprio cuore". Mille raccomandazioni e precauzione tendevano a progettare e a difendere questa situazione, valutata indispensabile per esprimere in modo autentico la sequela.
    La cultura attuale sembra aver quasi capovolto le prospettive, riducendo il cuore dell'uomo ad una piazza su cui scorrono continuamente le proposte le più disparate. Oggi, molti giovani vivono distratti, catturati dal fascino della superficialità, incapaci e persino timorosi di fronte al silenzio, alla vigilanza che nasce dall'interiorità.
    La Chiesa del Concilio ha riscoperto l'esperienza comunionale, persino all'insegna del piccolo gruppo dove siano sperimentabili forme rinnovate di rapporti interpersonali. Lo stesso valore della società viene indicato come uno dei segni dei tempi. Esso si esprime come maturo bisogno di partecipazione attiva e responsabile, che porta al rifiuto netto di ogni tentativo di ridurre a rapporti burocratici e formalizzati. Ma, purtroppo, fanno quasi da riflesso le espressioni eccessive o disturbate di una spontaneità incontrollata o, peggio, in forme di esasperato soggettivismo.

    La questione di fondo: e la vita?

    Le ragioni di crisi e le esigenze di discernimento sono ancora tante. Ogni elenco, per forza di cose, risulta sempre parziale. Per questo preferisco suggerire una lettura complessiva, che funzioni come da orizzonte globale di tutti i problemi.
    Quando, con i giovani più sensibili, abbiamo riflettuto attorno alla vita religiosa e sacerdotale è rimbalzata prepotente una questione: quale atteggiamento assumere di fronte alla vita?
    Dicendo vita penso alla "vita quotidiana", in concreto, nella trama di esperienze, tristi e felici, con cui, giorno dopo giorno, la tessiamo, per noi e con gli altri.
    Questa vita può essere accolta con amore e con passione, anche da chi decide di giocare tutta la sua esistenza nella sequela del Signore Gesù; o, al contrario, questa scelta chiede il coraggio di rompere con le dinamiche della quotidianità, imparando, un po' alla volta, a controllarle e a fuggirle?
    Dobbiamo sentirci vittoriosi quando ci immergiamo in un mondo terso, dove problemi e tensioni della vita quotidiana non stanno più di casa? O, al contrario, siamo chiamati a prendere sul serio la nostra vita, in una reale compagnia con tutti gli uomini, nel nome di Gesù di Nazareth, volto e parola di Dio nella grazia della sua umanità?
    Il problema non è solo teologico. Rimbalza infatti immediatamente in scelte concrete.
    La vita quotidiana, posta al centro, trascina con sé tematiche che sono molto lontane da quelle su cui è stata scritta per tanto tempo la spiritualità cristiana. Penso, per fare qualche esempio, ai temi su cui oggi i giovani sono più sensibili: la riscoperta della soggettività, l'attenzione ai valori della amicizia, della corporeità, della ferialità, della felicità, del "mondo vitale", il bisogno di significatività, la vivibilità delle proposte, la partecipazione, la radicale centralità della propria persona anche sulle norme, sui valori, sulle leggi; la provvisorietà, la relatività, la problematicità, la coscienza (rassegnata o esaltante) della propria finitudine come verità di se stessi. Molti di questi temi sono ritornati anche nelle pagine precedenti, come i punti di maggiore crisi.
    Lo sappiamo tutti, d'esperienza diretta, di quanta ambiguità sono segnate queste dimensioni della nostra cultura. Se le blocchiamo, però, per paura del rischio, ritornando al clima controllato del recente passato, ci sembra di tornare indietro nel tempo, disposti a confrontarci solo con i giovani che sono di un'altra stagione culturale.
    Senza l'accoglienza gioiosa della croce del Risorto non ha senso la vita religiosa e sacerdotale e la stessa vita cristiana resta sbilanciata verso le logiche insidiose della presunzione e dell'autosufficienza.
    Denigrando troppo frettolosamente l'amore alla vita, ci sentiamo stranamente lontani dai giovani, da noi stessi e, in ultima analisi, dalla "bella notizia" del vangelo di Gesù.
    Stretti da questi problemi, ho scoperto che l'esigenza di discernimento non riguardava solamente le manifestazioni esterne dello stato di crisi, ma arrivava, soprattutto, alle dimensioni fondamentali, quelle che orientano le risposte di sempre sulla natura dell'esistenza cristiana.
    Da una parte, sorge l'esigenza di comprendere bene il significato cristiano della croce. Troppi abusi, teologici e antropologici, si sono accumulati lungo i secoli su questo evento.
    Dall'altra si tratta di verificare fino a che punto le esigenze ascetiche della "fuga dalla vita" corrispondono veramente alle esigenze irrinunciabili della croce di Gesù e alla specificità costitutiva della vita religiosa e sacerdotale.

    PER IL REGNO NELLA VERITÀ E CON IL CORAGGIO DELLA RADICALITÀ

    Come ho già cercato di mostrare, ripercorrendo alcuni tratti della cultura attuale, a monte di ogni progetto vocazionale sta un modello di spiritualità: un modo di dire, in termini operativi, chi è il cristiano, come è impegnato a vivere, cosa gli si chiede.
    All'inizio della nostra storia c'è stato un atteggiamento critico nei confronti dei modelli di spiritualità ricorrenti.
    Non ci piaceva la figura globale di credente che essi proponevano. Sentivamo l'esigenza di ricostruirne una nuova, capace di riconciliare meglio le esigenze più irrinunciabili dell'esperienza cristiana con il modo di essere e di vivere dell'uomo e del giovane di oggi.
    E così abbiamo ripensato alla spiritualità e, di conseguenza, è nato un modello di «vocazione». Questo ripensamento è diventato un importante principio di rinnovamento. Ci ha permesso di riscoprire, da una prospettiva nuova, la radice stessa della vita cristiana e della vocazione sacerdotale e religiosa.

    Il regno di Dio al centro della vita cristiana

    Il confronto con i profondi cambi culturali, accolti come segni di una rinnovata presenza dello Spirito di Gesù e interpretati nelle esigenze del Vangelo, aiuta a ripensare vita e croce, felicità e impegno, consacrazione e missione.
    Al centro della vita cristiana dobbiamo collocare la grande passione di Dio per la vita, che Gesù ha testimoniato e realizzato: il «regno di Dio». Lui è «l'uomo del regno di Dio», perché ha fatto della causa della vita, «piena e abbondante» per tutti (Gv 10,10), la «perla preziosa» per acquistare la quale bisogna essere disposti a vendere tutto il resto.
    Alla scuola di Gesù e dei suoi discepoli possiamo amare la vita, in compagnia con tutti gli uomini che la cercano con ansia rinnovata, e siamo sollecitati ad impegnare tutte le nostre energie per restituire la vita «piena e abbondante» a tutti, soprattutto a coloro a cui è stata più violentemente sottratta.
    Questo è un modo molto più evangelico per affermare la «gloria di Dio» e per porre la sua realizzazione come orizzonte della vita cristiana e religiosa.

    Dalla parte del regno di Dio, con radicalità

    Al centro della vita cristiana dobbiamo collocare la grande passione di Dio per la vita, che Gesù ha testimoniato e realizzato: il "regno di Dio". Lui è "l'uomo del regno di Dio", perché ha fatto della causa della vita, "piena e abbondante" per tutti (Gv 10, 10), la "perla preziosa" per acquistare la quale bisogna essere disposti a vendere tutto il resto.
    Alla scuola di Gesù e dei suoi discepoli, possiamo amare la vita, in compagnia con tutti gli uomini che la cercano con ansia rinnovata e siamo sollecitati ad impegnare tutte le nostre energie per restituire la vita "piena e abbondante" a tutti, soprattutto a coloro a cui è stata più violentemente sottratta.
    Il confronto con il Vangelo per il regno di Dio non suggerisce solamente la dimensione fondamentale comune di ogni vocazione cristiana. Aiuta anche a restituire alla decisione coraggiosa di alcuni cristiani quella vera e propria vocazione particolare, che è un "dono divino", come ricorda anche LG 43, in cui si esprime la pienezza della vocazione battesimale.
    Il regno di Dio è la pienezza di vita per ogni uomo. Questa pienezza è tutto frutto della passione operosa di Dio per far nascere vita dove c'è morte. È dono suo, gratuito e imprevedibile. Ma è un dono speciale: sollecita e sostiene la collaborazione responsabile di ogni uomo di buona volontà. La richiede tanto da condizionare, normalmente, il risultato della sua passione per la vita a questa nostra risposta. Ma esige che ogni impegno per la vita sia realizzato "secondo il suo progetto": perché lui è la vita in pienezza e solo in lui e nel suo "stile" possiamo costruire vita in autenticità.
    Il punto di riferimento normativo è Gesù di Nazareth.
    Gesù ha dato la sua vita, come sommo gesto di amore, accettando le conseguenze inaudite di una esistenza tutta protesa nell'impegno di restituire vita e speranza, nel nome di Dio, agli uomini, prigionieri dell'oppressione fisica, culturale, religiosa.
    Chi vuole la vita, si pone come Gesù al servizio della vita, con la coscienza che "dare la vita" è la condizione fondamentale perché la vita sia piena e abbondante per tutti. Chi si impegna per la vita riconosce che l'esito della sua fatica è sempre "oltre" ogni progetto ed ogni realizzazione. Viene dal futuro di Dio, dove ogni lacrima sarà finalmente e definitivamente asciugata.
    Non c'è congruenza tra morte e vita.
    La morte (anche quella accolta per amore dell'altro) è sempre sconfitta. Non potrebbe generare vita se non ci riportasse alla potenza di Dio che si esprime in questa debolezza accolta e sofferta (2 Cor 11, 8).
    La vita è tanto dono di Dio che esplode piena quando sembra ormai tutto finito. Il Dio che fa sorgere figli di Abramo anche dalle pietre, fa nascere vita quando tutto sembra inesorabilmente concluso. La croce è solo follia rispetto alla vita (1 Cor 1). Fa esplodere vita, quando c'è la stessa disponibilità ad entrare in questa strana prospettiva. Ed esplode improvvisa e impensata, proprio perché è dono.
    La sconfitta diventa così vittoria, che travalica i confini del tempo e dello spazio e immerge tutti gli uomini in un vortice di vita nuova.
    Chi vuole la vita e gioca la sua per donarla a tutti, nel nome di Dio, pianta la croce nel centro della sua scelta vocazionale. Riconosce così intensamente la passione fontale di Dio per la vita di tutti che si dichiara disponibile, con i fatti, a perdere la propria vita, come gesto supremo di impegno, concreto e storico, per la vita.
    Questa esigenza attraversa ogni vocazione cristiana.
    Purtroppo però è tanto facile separare la gioia del riconoscimento dalla fatica dell'impegno. Le vocazioni di speciale consacrazione si portano dentro una qualità vocazionale esemplare. Impegnate come tutte le altre vocazioni per la vita nella logica del regno, esprimono, in termini di radicalità perentoria e costitutiva, l'iniziativa fontale di Dio, come provocazione per tutti verso l'autenticità.
    Sono, in qualche modo, una manifestazione sacramentale, come la Chiesa e nella Chiesa stessa, del progetto di salvezza di Dio e della logica con cui Gesù lo sta realizzando.
    Coloro che scelgono la vita religiosa e sacerdotale continuano ad essere uomini del presente, con tutti i nostri fratelli in umanità. Si ancorano nel passato per proclamare le meraviglie di Dio per il suo popolo. E si lanciano verso il futuro, anticipandolo nei piccoli segni della vita quotidiana, per attestare la radice della nostra speranza.

    In compagnia per l'autenticità

    Tra promozione della vita e riconoscimento di Dio c'è un legame molto stretto. Romperlo o svuotarlo ci riporta nel regno triste della morte, dove dominano l'angoscia e la paura o dove l'impegno dell'uomo diventa arrogante e violento.
    Colui che si impegna per la vita con una decisione tanto radicale da mettere Dio sopra ogni cosa e da celebrare quotidianamente la sua potenza, ricorda a tutti una esigenza che deve percorrere la vocazione di tutti.
    Tutti gli uomini che amano la vita e si impegnano al suo servizio, hanno bisogno di un riferimento di questo tipo, per un servizio più autentico alla vita. Siamo diventati troppo facilmente uomini presuntuosi e autosufficienti. Abbiamo scoperto nel Dio di Gesù Cristo il padre che vuole figli adulti e che non si sostituisce alle loro responsabilità. Ma un po' per volta ci viene spontaneo relegarlo tra coloro che non contano nel gioco della vita e della morte: sappiamo tutto su questi eventi e ci sentiamo spesso padroni della trama in cui si svolgono. Siamo disposti a ritrascinarlo nel tessuto dell'esistenza solo quando costatiamo i nostri fallimenti.
    Questo modo di fare è lontanissimo dalle logiche in cui si costruisce il regno di Dio.
    Le vocazioni di speciale consacrazione sono perciò un dono ecclesiale alla vocazione di ogni uomo e di ogni credente.
    La comunità è riconoscente a questi fratelli e invoca incessantemente il Dio della vita perché susciti in molti il coraggio della radicalità e doni la perseveranza e l'entusiasmo a chi ha chiamato a percorrere questo sentiero.
    Essa alza la sua voce per chiamare nel nome di Gesù e chiede a questi fratelli un servizio alla vita di tutti in questa prospettiva.
    Si impegna per "meritare" questo dono.
    Per questo, sollecita i religiosi a schierarsi dalla parte della vita, nel nome e con la compassione del Dio di Gesù Cristo. Essi ritrovano autorevolezza e dignità non perché se ne appropriano con un gesto che ha il sapore della presunzione e della rapina, ma perché sono impegnati fino in fondo dalla parte della vita, con fatti esemplari, concreti e precisi, fino alla fedeltà di un martirio che corre sul filo delle piccole cose della vita quotidiana.

    L'assoluto di Dio

    La vocazione sacerdotale e religiosa proclama, con coraggio e radicalità, l'assoluto di Dio nella storia dell'uomo.
    Questo è un dato che ci viene da lontano e che non può essere di certo smarrito per strada solo perché le espressioni con cui molti ce l'hanno tramandato risentono di modelli teologici e antropologici superati.
    In una situazione di forte soggettivizzazione e di larga relativizzazione, l'educazione alla vita religiosa e sacerdotale comporta la ricostruzione di questa priorità fontale.
    L'incontro con Dio resta sempre misterioso: è un'avventura di fede. La possono vivere solo coloro che hanno il coraggio di rischiare. L'impegno educativo lo sa e lo riconosce. Per questo evita ogni espressione e ogni gesto che tenta di ridurre Dio e la sua volontà a qualcosa di così concreto e preciso da risultare verificabile, magari sulla misura dell'autorità e dei documenti scritti.
    Riconosciamo Dio radicalmente diverso da tutte le altre realtà che fanno la nostra terra. Non è uno dei tanti nostri interlocutori. E neppure lo possiamo considerare come colui che viene a risolvere le nostre paure e difficoltà, quando non ce la facciamo più con le nostre risorse. Solo lui è la realtà vera: la ragione e il fondamento della nostra vita, della nostra speranza e del nostro impegno. Il nostro Dio è un Dio «santo» e misterioso, mistero incomprensibile e sempre presente, che tutto sorregge e orienta, proprio mentre tutto relativizza.
    Ci dà la parola. E ci si sprofonda nel silenzio, dove le parole non bastano più. Veniamo da una radice che non abbiamo seminato: pellegriniamo lungo una strada che sfocia nell'incomprensibile libertà di Dio; siamo protesi tra cielo e terra e non abbiamo né il diritto né la possibilità di rinunciare a nessuno dei due dati. Non sappiamo neppure, in modo assolutamente certo, come la nostra libertà stia concretamente orientandosi nel gioco della nostra esistenza.
    L'esistenza del religioso è perciò un salto nell'abisso sconfinato di Dio. La sua speranza risulta praticabile e sensata solo mediante quel fondamento che non possiamo comprendere né manipolare.
    Quando si abbandona al suo Dio, l'uomo religioso non si getta mai alle spalle la vita di tutti i giorni. Supera la sua vita per consegnarsi al mistero che la sovrasta; e la prende continuamente con sé nel movimento della sua speranza.
    Spera in Dio e ama la sua terra. Appassionato della vita, la vuole piena e abbondante per tutti.
    È impegnato in prima linea nel compito, duro ed esaltante, di dare un senso alle vicende della storia quotidiana, per renderla dimora, accogliente e abitabile, per tutti gli uomini.
    Ha però una grande, insaziabile nostalgia di casa. Gli cresce dentro, tutte le volte che riesce ad anticipare «come in uno specchio» quell'incontro «a faccia a faccia» con Dio, la ragione decisiva della sua esistenza.

    EDUCARE I GIOVANI ALLA VOCAZIONE RELIGIOSA E SACERDOTALE

    Ho suggerito una direzione sulla quale ripensare e riprogettare con coraggio la qualità più radicale della vita religiosa e sacerdotale. Un grosso lavoro attende le comunità ecclesiali che vogliono impegnarsi ad approfondire, verificare e consolidare questa prospettiva.
    Da questa prospettiva immagino una serie di interventi. Li colloco soprattutto in quel terreno, impegnativo perché affidato alla nostra quotidiana fatica, in cui ci educhiamo a pronunciare con gioia e responsabilità la nostra decisione più radicale di vita.

    Una proposta che nasce dalla condivisione d'esperienza

    Soprattutto con i giovani d'oggi, le proposte più significative, quelle che richiedono una adesione di vita, passano attraverso la condivisione e il "fare esperienza".
    Non basta la correttezza del modello teorico. Si richiede uno spazio di vissuto, capace di assicurare identificazione. Solo a queste condizioni risultano tanto significative da sostenere il rischio di una decisione che si pone alternativa rispetto alle logiche dominanti.
    La proposta di un cammino vocazionale ha bisogno perciò di testimoni per essere capace di suscitare nuove adesioni vitali. Un momento importante di questa "presenza" che sa testimoniare, è dato dall'accompagnamento e dalla "direzione spirituale": chi ha fatto già un lungo cammino si pone accanto a chi lo vive solo ai primi passi, per tracciare assieme, nel nome del Signore, l'itinerario su cui impegnarsi, per ritrovare assieme la speranza nonostante le difficoltà, per lasciarsi convertire, come fratelli in cammino educativo, dalla meta che affascina da lontano, oltre i passi i più avanzati.
    Le nostre comunità l'hanno sperimentato da sempre; e hanno moltiplicato tempi e momenti di queste esperienze. Purtroppo molti dei modelli diffusi risentono però eccessivamente di visioni lontane e superate. Ne vanno "inventati" con coraggio di nuovi, sul piano personale e su quello istituzionale.

    Ricostruire un modo autentico di essere uomini

    Molte resistenze alla vita religiosa e sacerdotale provengono, in modo non sempre riflesso, dai modelli culturali dominanti. In essi emerge un'attenzione alla vita e una trama di preoccupazioni per la sua realizzazione così poco evangeliche che riesce difficile immaginare un giovane capace di condividere le esigenze più radicali della vita consacrata.
    La profezia del regno ci chiede l'impegno di servire la crescita in umanità degli uomini di questo nostro tempo, con la stessa passione con cui i nostri fratelli dei secoli scorsi hanno restituito l'abitabilità della terra e la forza della cultura.
    Questa autenticità in umanità, alla scuola del vangelo, investe la fatica quotidiana di definire la propria identità e percorre la capacità di ritessere un rapporto nuovo con le cose, le persone, la legge, il senso.

    Un modo nuovo di porre il problema dell'identità

    Quello della costruzione dell'identità personale è certamente uno dei problemi educativi più urgenti e impegnativi del nostro tempo. Di conseguenza investe chiunque avverte la responsabilità di aiutare le persone a raggiungere un livello alto di maturazione personale che renda possibile e qualificante un'autentica consacrazione religiosa.
    L'identità è un dato strettamente personale. Definendo la propria identità, la persona dice a se stessa e agli altri chi è e chi sogna di essere. Si realizza però attraverso processi relazionali, che legano intensamente ogni persona al proprio mondo.
    Se ne può essere consapevoli o meno, fortemente o in piccola misura, ma il fatto resta. Gli stimoli che sollecitano la persona a definirsi e i valori attorno cui essa decide di comprendersi e di riconoscersi ci provengono dall'ambiente in cui viviamo. Le valutazioni e le operazioni di una persona (e cioè il suo modo di agire, la sua "condotta") possono essere perciò considerate come il frutto dello scambio tra la storia personale di ogni individuo e i contributi culturali forniti dall'esterno, attraverso cui tale storia viene scritta e vissuta.
    In un contesto armonicamente integrato, poco mutevole e dotato di riferimenti univoci, il rapporto della persona con il mondo esterno risultava facilmente stabilizzato e chiaramente orientato. In un tempo di larga complessità e di profondi e rapidi mutamenti com'è il nostro, l'organizzazione dell'identità personale richiede una notevole capacità riflessiva, per elaborare la sovrabbondanza di stimoli e la loro disomogeneità.
    In questo caso, la costruzione di un'identità armonica e stabile è la meta impegnativa di un lungo e faticoso processo di maturazione personale.
    Tanti giovani ci rinunciano e si accontentano di una identità fragile, pronta a sopravvivere, con un livello minimale di organizzazione, nella sovrabbondanza disperata di stimoli e di provocazioni. Altri invece si rinchiudono in difesa, incoraggiati da educatori poco accorti. Ne nasce un'identità battagliera, sicura e forte, finché riesce a scoprire nemici da combattere e finché ce la fa a condividere l'aria rassicurante di un contesto caldo e totalizzante.
    Spesso lo spostamento da una posizione all'altra è rapido e imprevedibile.
    L'educazione alla vita religiosa e sacerdotale richiede l'invenzione e la sperimentazione di modelli nuovi: alternativi nell'espressione, anche se collocati nel cuore dei problemi del contesto attuale. Tre preoccupazioni mi sembrano urgenti, per consolidare questa difficile operazione.
    Prima di tutto, è importante pensare alla formazione dell'identità, lasciandosi provocare dalle sfide che ci circondano, quelle vere e autentiche, che costringono a trovare soluzioni con tutte le energie disponibili. Possiamo dire a noi stessi e agli altri chi siamo, solo quando ci rimbalzano addosso i problemi di vita e di morte di tanti uomini e donne di questo nostro tempo. Ci interroghiamo sulla nostra fede e sulla nostra speranza, accogliendo il grido disperato di chi è privato della possibilità stessa di una vita così come Dio la propone ai figli suoi e di coloro che sono lanciati verso avventure folli alla ricerca di una qualità di vita che la renda respirabile e di un senso che ne assicuri la prospettiva.
    Chi si interroga sulla propria esistenza in questo fragore esistenziale non ha tempo per le mille preoccupazioni inutili che inquietano chi invece blocca lo sguardo verso la realtà per risolvere meglio i suoi problemi.
    La definizione dell'identità non può però avvenire nel frastuono. Abbiamo bisogno urgente di silenzio e di interiorità, per respirare verità dal mistero che la realtà si porta dentro. Solo in questo spazio, circondato di pace e di contemplazione, le voci che ci inquietano possono essere lette e organizzate, dando voce anche alle più sommesse e alle meno provocanti. Solo nel silenzio dell'interiorità, la voce dello Spirito, che è solo come brezza in una sera calda d'estate, diventa il riferimento normativo della propria esistenza.
    La definizione dell'identità si misura infine con i compiti e le responsabilità che intendiamo assumerci, per rispondere alle provocazioni su cui ci siamo definiti. Non sono "quello che segue", dopo l'impegno formativo, come tanti modelli d'un tempo cercavano di suggerire. Sono momento e tempo formativo: il luogo in cui l'identità si dice in autenticità.
    Certo, in questa progettazione di interventi siamo chiamati al realismo e alla concretezza. Tra le tante cose possibili, scegliamo l'ambito piccolo e preciso in cui esprimerci, senza eccessive pretese e senza inutili nostalgie. Questa scelta carismatica dice le risposte che ogni istituzione religiosa e, al suo interno, ogni persona nella sua irripetibile sensibilità intendono offrire ai problemi comuni. Decidendole, con coraggio e lucidità, la persona elabora il pluralismo e stabilizza la sua personalità.

    Rapporti nuovi

    Un luogo privilegiato per costruire in modo autentico la propria identità, con riflessi notevoli sulla qualità della vita religiosa e sacerdotale, è il rapporto con le cose, le persone, la legge e il senso della realtà. Lo ricordo, a battute rapide, perché qui le comunità ecclesiali e religiose possono esprimere una dimensione irrinunciabile del loro servizio educativo.

    * Alla ricerca della solidarietà perduta.
    Il primo punto di confronto mette l'accento su un tema, spesso ripetuto: la solidarietà.
    Per molto tempo è stato il cavallo di battaglia del mondo cattolico. La rifiutava con forza la cultura liberistica, in nome di una presunta sacralità delle leggi economiche. La guardava con sospetto anche il mondo marxista, perché temeva servisse come copertura dei conflitti sociali.
    Qualche volta però veniva vissuta come privazione volontaria e ingiustificata delle cose per motivi religiosi o, peggio, come consegna del "superfluo" a chi era privo del necessario.
    La dobbiamo riscoprire tutti in uno sforzo di autenticità.
    Per noi il riferimento normativo è a Gesù. In lui la povertà non è fine a se stessa, ma rivelazione di amore: condivisione che si esprime nel dono.
    Questa è la solidarietà da recuperare e da realizzare, inventando modalità ed espressioni.
    Delle "cose" abbiamo il diritto di essere signori. Ci sono state affidate dall'amore di Dio creatore. Sono per la felicità di tutti.
    Abbiamo il diritto di "possederle". Il problema grave è un altro: cosa significa "possedere"?
    I modelli culturali dominanti ci suggeriscono una figura di "possesso" che è legata all'"avere", al tener stretto, al difendere con i denti. Più cose abbiamo e più riusciamo a stringerle forte, strappandole magari a più deboli, e più siamo vivi.
    La logica evangelica è molto diversa. Siamo invitati a proclamarla forte con coraggio, a porla davanti al nostro sguardo per ispirare ad essa le nostre scelte e le nostre decisioni.
    Perdere per condividere diventa la condizione per assicurare più intensamente il possesso. Distacco vuol dire perciò consapevolezza crescente di una solidarietà che diventa responsabilità.
    Le cose sono per la vita di tutti. Quello che possediamo, ci appartiene. Ma tutti hanno il diritto di chiederci conto del suo uso. Solo in una condivisione che permette a tutti il diritto al possesso, possiamo davvero esprimere la nostra signoria sulle cose.
    Per questo, la solidarietà nasce e si manifesta nella responsabilità: è risposta ad un diritto di tutti sulle cose di ciascuno.
    Tre dimensioni si intersecano in questa costatazione.
    La faccenda è prima di tutto di giustizia: di uso corretto dei beni.
    La solidarietà autentica non può limitarsi al piano della giustizia. La assume e nello stesso tempo la trascende. Diventa carità. La carità porta alla rinuncia persino del proprio diritto in un dono che fa vivere l'altro nella piena disponibilità a perdere tutto, persino la vita, per assicurarla per tutti.
    Giustizia e carità sono praticabili quando sono poste in essere le condizioni che ne permettano un esercizio reale verso tutti, soprattutto nei confronti di coloro a cui questo diritto è stato più violentemente sottratto.
    Per questo la solidarietà ha sempre una risonanza direttamente politica: parte dalla denuncia e arriva alla costruzione di alternative coraggiose.

    * Dal "cuore violento" alla "convivialità".
    La solidarietà parte da un rapporto nuovo verso le cose ma sollecita immediatamente ad inventare un rapporto nuovo verso le persone.
    Il confronto si pone a due livelli: con i nostri amici e con coloro che sono "diversi" da noi per cultura, razza, scelte di vita, esperienze religiose. Questo secondo livello pregiudica e decide la qualità del primo.
    Tanto spesso abbiamo considerato il diverso una minaccia alla nostra autenticità. Ci siamo difesi esportando le nostre sicurezze e cercando di catturare l'altro ai nostri modelli.
    Oggi, di fronte alla impraticabilità di queste situazioni, corriamo il rischio di concentrare tutta la violenza nel "cuore": ci chiudiamo in un rapporto che privilegia l'omogeneità come condizione pregiudiziale e inventiamo una falsa figura di tolleranza che lascia l'altro nel suo mondo, come condizione per poter conservare intatto il nostro.
    La sfida interpella la qualità della fede. Ci chiede l'invenzione di modelli alternativi concreti, capaci di suggerire vie praticabili verso l'invenzione più generalizzata di un rapporto nuovo tra le persone.
    Solo in questa reale esperienza di convivialità coloro che confessano la speranza nel Risorto possono rappresentare una reale "cultura di comunione", in cui trovare punti di incontro e di condivisione, che aiutino a superare le tensioni delle differenze.

    * A proposito di legalità: tra legge e istituzioni...
    A garanzia di un corretto rapporto verso le cose e le persone, la nostra cultura pone la legge e le istituzioni che la esprimono e la garantiscono.
    Le istituzioni e le leggi che le regolano hanno il compito di guidarci nell'amore. Ma spesso schiacciano l'amore. La legge viene disattesa o piegata verso il favore di qualche persona o di qualche gruppo. L'istituzione diventa impersonale e ossessiva e serve solo a ratificare il sopruso acquisito.
    Purtroppo lo costatiamo tutti i giorni. La reazione è quella spontanea: siamo in un tempo di profonda e diffusa sfiducia verso la legge e verso tutte le istituzioni.
    Per trovare un rimedio il problema non è prima di tutto di metodo. Ho l'impressione che riguardi maggiormente la sostanza delle cose: in che direzione impegnarci?
    Qualcuno vuole leggi sicure e punizioni ferree per i trasgressori. Spesso anche le istituzioni educative si buttano nella stessa logica.
    La logica sembra giustificatissima. In fondo, fanno tutti così...
    Anche in questo ambito non basta richiamarsi al vangelo per sapere cosa fare in concreto. Il riferimento a Gesù e al suo messaggio offrono però un punto decisivo di ispirazione.
    Basta pensare al suo modo di essere.
    Vuole le leggi e ne raccomanda l'osservanza fino ai particolari più piccoli: una virgola o un accento trasgredito bastano per finir male (Mt 5, 17-19). E poi... quando c'è di mezzo la vita, infrange una delle leggi più sacre: quella del sabato, con estrema tranquillità, disposto a scatenare reazioni dure da parte dei suoi nemici (Gv 5, 1-18).
    Ci insegna qualcosa di serio e urgente: l'orizzonte dentro cui pensare e progettare con la fatica quotidiana di chi sa utilizzare scienza e sapienza.
    La Legge è una sola: dare vita dove c'è morte, perdendo la propria perché tutti possiamo averne piena e abbondante.
    Questo va gridato come esito della scelta di vita che porta a confessare che solo Gesù è il Signore. Le altre leggi - tutte, anche se a livelli diversi - sono importanti. Spesso rappresentano la via obbligata per far nascere vita. Qualche volta le esigenze della vita sono tali da costringerci alla libertà della trasgressione. Sempre, sono così urgenti da sollecitare a trapassare l'osservanza della legge: fino, veramente, a dare la vita.

    * Il perdono per la riconciliazione
    Ogni giorno facciamo i conti, dentro e attorno a noi, di come è facile tradire i progetti e vivere nella logica contraria. I credenti chiamano tutto questo "peccato" perché riconoscono che Dio è coinvolto in queste faccende tristi.
    Come uscire da queste situazioni e rimettere le cose a posto?
    Anche a questo livello le strade si dividono.
    Gesù propone uno stile di esistenza come condizione verso la riconciliazione: il perdono.
    Il perdono non è il gesto sciocco di chi chiude gli occhi di fronte al male per il timore di restarne troppo coinvolto o quello pericoloso di chi giustifica tutto, per rimandare la resa dei conti ai tempi che verranno. Il perdono del cristiano è invece un gesto di profonda lucidità, consapevole che chi fa il male è meno uomo di chi lo subisce: un gesto che vuole spezzare l'incantesimo del male, rompendone la logica ferrea. Il cristiano perdona per inchiodare il malvagio al suo peccato, spalancandogli le braccia nell'accoglienza. Il perdono è l'avventura della croce di Gesù: il gesto, lucido e coraggioso, che denuncia il male, lotta per il suo superamento, riconoscendo nella speranza che la croce è vittoria sicura della vita sulla morte.

    * Un rapporto nuovo verso il senso della realtà
    Un quinto punto di verifica è determinato dalla capacità di accogliere e rispettare il "mistero" della vita stessa.
    Viviamo in una cultura che ha la pretesa di manipolare tutto, a fatti o a parole. Per ogni cosa abbiamo una spiegazione e di ogni avvenimento sappiamo responsabilità, positive o negative. Se qualche male ci sovrasta, ne conosciamo il rimedio o, almeno, è solo questione di giorni: presto o tardi, troveremo il nome giusto per identificarlo e gli strumenti adeguati per risolverlo.
    Certamente, le cose non vanno tutte per il verso giusto. Ogni tanto l'ingranaggio si inceppa. Ma anche di questo dato, pretendiamo di gridare forte le colpe e i meriti.
    Quello che non riusciamo a manipolare, ce lo teniamo nascosto, per un senso di pudore. Capita così persino per la morte, quella improvvisa che si affaccia alla nostra esistenza senza rispettare il calendario delle previsioni. La rimuoviamo con caparbietà o la trasformiamo in spettacolo, per riconquistarla dopo che ne eravamo restati sconfitti ad un primo impatto.
    Questa non è la vita, di cui cerchiamo la pienezza e la maturazione.
    Essa si porta dentro, come in filigrana, il mistero. L'imprevedibile e il limite invalicabile sono dimensioni della sua qualità. Abbiamo un ardore sconfinato di sfondare questo limite. L'abbiamo assicurato ormai su tanti livelli; e ne siamo giustamente fieri. Ma il limite resta: un passo più avanti dei nostri passi più avanzati.
    Lo accogliamo e ci conviviamo. Anzi lo restituiamo alla sua dimensione di verità. La realtà non è quella che manipoliamo. È quella che riconosciamo dal mistero che si porta dentro.
    In questa logica ritroviamo il senso determinante della fede per una qualità umana di vita e per radicare sulla sua pienezza il fondamento più sicuro della vita consacrata.

    Ricostruire un'autentica esperienza comunitaria

    L'esperienza di vita comunitaria è molto congeniale alla cultura attuale e alla sensibilità giovanile. In questo senso, l'educazione alla vita religiosa e sacerdotale sembra particolarmente favorita.
    La costatazione è vera e importante. Non possiamo però accogliere anche questo segno positivo senza una necessaria opera di discernimento e, di conseguenza, senza prevedere urgenti interventi educativi.
    Troppo spesso la vita comunitaria, verso cui i giovani di oggi sono spontaneamente attratti, risente di alcuni gravi problemi.
    Predomina una tendenza, diffusa nei gruppi spontanei, che porta i giovani ad identificarsi al gruppo stesso, sognato e sperimentato come un essere vitale, capace di soddisfare ogni attesa affettiva. Per consolidare questa illusione, i membri sono disposti a sacrificare tutti i desideri e tutti i progetti. La fatica di passare all'azione aprirebbe infatti al conflitto e all'angoscia: conflitto richiesto dalla costitutiva ambiguità del reale e angoscia che scaturisce quando si ammettano gli ostacoli che si frappongono alla loro soddisfazione.
    Nel gruppo si scatena così la grande illusione di aver finalmente trovato l'oasi felice, dove godere ogni conforto e dove essere difesi da ogni vento di tempesta.
    Purtroppo, quando questi gruppi si aprono maggiormente verso l'impegno e la responsabilità, si scatenano atteggiamenti a carattere sublimatorio, che permettono la sopravvivenza nonostante le difficoltà che il decentramento verso l'esterno inesorabilmente provoca.
    L'atteggiamento di dipendenza è legato al tentativo di recuperare sicurezza mediante l'accettazione di dipendere supinamente da qualche leader, interno o esterno al gruppo, oppure dal proprio passato, considerato come particolarmente glorioso e affascinante.
    Attraverso atteggiamenti di aggressività si cerca di rimuovere lo stato di crisi lanciandosi contro cose e persone da cui ci si sente minacciati oppure assumendo una reazione, dura e continua, verso l'esterno.
    La sicurezza può essere anche recuperata proiettandosi continuamente verso un domani radioso, sempre irraggiungibile, e per questo utopico. Qualche volta questo atteggiamento assume anche i toni di un idillio a sfondo sessuale.
    Tutto questo rappresenta una minaccia grave alla esperienza religiosa e allo stile di vita comunitaria.
    Insoddisfazioni, espressioni critiche o tentativi nostalgici sono spesso legati alla cattiva gestione di questa stessa esperienza.
    Educare alla matura esperienza comunitaria significa aiutare tutti a ritrovare l'atteggiamento evangelico radicale, di cui la vita consacrata è profezia: la riconsegna continua a Chi, fuori di noi, è la fonte gratuita e interpellante della nostra speranza e del nostro impegno.
    Su questa frontiera si gioca la riaffermazione di una dimensione qualificante della vita religiosa e sacerdotale: la sua ecclesialità. La dimensione ecclesiale richiede non solo la disponibilità a "sentire con la Chiesa" e a "operare nella Chiesa", ma la decisione, vissuta nel ritmo quotidiano, di "identificarsi con essa", per vivere la propria vocazione come espressione della sua vitalità di grazia, di dottrina e di responsabilità evangelizzatrice.
    Questo senso di comunione ecclesiale matura nella misura in cui il gruppo e la piccola comunità in cui i giovani vivono i primi passi di vita ecclesiale, sono veramente luoghi di reale ecclesialità. In essi, trovano spazio i momenti di impegno, di condivisione, la responsabilità, anticipando nel quotidiano i segni del Regno di Dio che viene e che attendiamo con trepida speranza. Essi sono però vissuti in piena e progressiva integrazione con i gesti della fede ecclesiale: l'ascolto della Parola, la celebrazione dei sacramenti, la comunione fattiva con tutti i Pastori.

    Il coraggio di fare proposte, in un tempo di pluralismo

    Siamo in un tempo di pluralismo: un tempo in cui il diritto alla parola sembra riservato solo a chi accetta di dire cose che non contano o a chi sa conquistarsi l'esclusiva a suon di potere.
    È possibile ritrovare il coraggio di fare proposte in una situazione culturale come è questa?
    Troppe volte siamo diventati silenziosi solo per rifarci un po' la coscienza dopo i tempi sicuri del proselitismo e dell'accaparramento.
    Giocare la propria esistenza in un serio impegno vocazionale è qualità della propria vita. Chi ci rinuncia, perde una dimensione qualificante. Si costruisce, con le proprie mani, un po' meno uomo e donna. Non possiamo permettere una devastazione così grave nell'esistenza dei nostri giovani.
    Molti educatori stanno sperimentando un modo di fare proposte, rispettoso e interpellante nella stessa parola: per parlare della vita e delle sue esigenze vocazionali, possiamo raccontarci pagine dell'evangelo e pezzi della vita dei tanti fratelli nostri che hanno vissuto con radicalità la loro scelta di vita.
    In questa storia sono presenti le storie dei grandi credenti e degli uomini che hanno dato tutta la loro esistenza per la vita degli altri, quelle storie che lasciano con il fiato corto quando sono raccontate da sole. Ma c'è anche la storia, piccola e povera, di chi racconta. Egli dice parole più grandi di quelle che riesce a vivere, perché racconta i sogni che fa sulla sua esistenza, con la voce trepida di chi conosce poi bene la durezza della realtà.
    Nel racconto dell'unica storia entrano come parola irrinunciabile anche la vita, le speranze e le sofferenze di coloro a cui la storia è narrata. Sono un pezzo di racconto: quello che lo rende, alla fine, interessante e convincente.
    Questo modo di fare proposte aiuta a superare un'altra falsa ragione di silenzio: la consapevolezza dei propri limiti.
    Il diritto alla parola non è riservato al testimone coerente, perché la forza salvifica e interpellante non sta in questa "coerenza", ma nell'insieme della storia. Un pezzo di essa è ormai costituita ai grandi livelli di forza suasiva e salvifica, perché nella parola si rifrange il volto di Gesù di Nazareth, di Maria, dei grandi fratelli di fede e di passione per l'uomo. Un pezzo è ancora povero e lacerato, perché corre sul ritmo della nostra quotidiana esistenza.
    La diciamo tutta con forza: salva noi che la pronunciamo con tremore e coloro a cui la regaliamo.

    Una visione aperta alla mondialità

    Un altro dato mi sembra importante. Riguarda in modo speciale la vita religiosa. Ma può essere generalizzato anche verso altri referenti.
    Essa è nata, generalmente, nelle chiese europee e si è lanciata verso le terre lontane, con il coraggio di una fede grande e una disponibilità al sacrificio che ha portato fino al martirio. Oggi, sembra quasi che le prospettive si stiano capovolgendo. La disponibilità alla scelta verso la vita consacrata cresce notevolmente in queste terre, mentre sembra languire nelle nostre.
    Non è solo questione di numeri e di istituzioni. Da questi fratelli ci viene restituito il coraggio con cui li abbiamo serviti nel dono dell'evangelizzazione, con la proposta di esperienze di rinnovamento profetico e con presenze che fanno scoprire più intensamente la carità del Signore Gesù.
    In qualche modo viene ricambiato il servizio missionario.
    Tutto questo ci interpella.
    L'educazione alla vita consacrata non può non tenerne conto.
    Da queste frontiere giungono le sfide più drammatiche: povertà, emarginazione e sopraffazione, fame e sfruttamento, spesso guerra e violenza.
    Il servizio alla vita incomincia dai più poveri e da coloro a cui essa è stata più violentemente e ingiustamente deprivata. Su queste sfide si misura la nostra fedeltà al vangelo.
    Nel passato l'abbiamo espressa in forme coraggiose di presenza: l'educazione, la promozione culturale e sociale, il servizio caritativo ai poveri, la cura degli ammalati. Molte restano attuali, soprattutto se ripensate dalla prospettiva delle nuove sfide. Altre, invece, esigono il coraggio di scelte alternative di campo: le stesse che hanno appassionato e inquietato la fede dei nostri fondatori.
    La nuova situazione, inoltre, pone in primo piano, anche nelle nostre comunità, la convivenza tra diverse culture. Questo confronto, per molti aspetti davvero nuovo per coloro che erano abituati a riportare la cultura occidentale anche in terra di missione, ci sollecita a diventare un luogo profetico per l'umanità tutta. Possiamo sperimentare e offrire una reale "cultura di comunione", in cui trovare punti di incontro, aggiustamenti personali, adattamenti mentali, che aiutino a superare quelle tensioni che sorgono spesso come risultato delle differenze.
    Il coraggio di lasciarci "evangelizzare" dalle chiese sorelle dei paesi più poveri del mondo può darci il diritto di continuare il nostro dono ad esse, anche per sostenere la loro fedeltà alla Tradizione, in cui fondiamo la nostra fedeltà al Signore Gesù.

    Sollecitare all'incontro con Gesù il Signore

    Il punto di riferimento della vita cristiana e, di conseguenza, il centro della vita religiosa e sacerdotale è l'incontro personale con Gesù, confessato il Signore nella comunità ecclesiale.
    Tutto il cammino tende a questo obiettivo ed è su questa meta che si verifica e si consolida.
    Non possiamo immaginare che i primi passi nella vita religiosa e sacerdotale siano vissuti con la stessa intensità di fede e di amore che deve caratterizzarne la maturità. Mi piace pensare che anche un giovane di oggi, nella fragilità e incertezza a cui la cultura attuale lo costringe, possa pronunciare una sua decisione piena e gioiosa, anche se destinata a crescere e consolidarsi nel cammino faticoso dell'esistenza.
    Lo sviluppo del primo timido "sì" personale nell'esplosione di un "sì" che esprime il coraggio radicale dei grandi credenti e dei martiri della nostra fede, richiede ritmi e modalità adeguate. Esige però un servizio educativo di sostegno, capace di incoraggiarlo, orientarlo, sollecitarlo continuamente.
    Da una parte, è importante chiedere ai giovani che si aprono alla vita religiosa e sacerdotale quanto essi sono in grado di esprimere. Non possiamo certamente esigere troppo. Il limite non nasce da un frettoloso adattamento che ha paura di essere troppo esigente per assicurare meglio l'accondiscendenza. Sorge invece dalla consapevolezza che prendere sul serio e con rispetto la "maturità relativa" possibile ad un giovane è già, in ultima analisi, un grande atto di fede nel Signore della vita, che ci chiede di diventare discepoli suoi secondo quella pluralità di stili e di espressioni, che risultano possibili e praticabili nelle diverse stagioni dell'esistenza e nella pluriformità di situazioni culturali e sociali.
    È pure però importante spendere tutte le risorse per far maturare questa scelta verso la sua pienezza. La decisione di porre l'incontro personale con Gesù a determinante della propria esistenza ha bisogno di una continua e costante sollecitazione educativa, a sostegno delle sollecitazioni interiori dello Spirito.
    La comunità ecclesiale sta sperimentando modelli e progetti molto interessanti al riguardo: giornate di convivenza, incontri con testimoni privilegiati, momenti di ascolto della Parola di Dio, tempi di preghiera contemplativa e di "lectio divina"...
    Si tratta infine di trasformare progressivamente l'incontro con Gesù in una reale esperienza di fede, capace di coinvolgere tutta l'esistenza. L'incontro con Gesù si trasforma in una conversione continua della propria vita alla sua Parola e alla sua Causa, nella celebrazione della fede nella vita liturgica e sacramentale, in una sequela coraggiosa della sua persona, che porta a rompere con il peccato e con i modelli di vita che ne derivano, nella disponibilità a "portare con gioia la croce" in tutti i momenti della propria giornata per vivere con coerenza e autenticità la propria decisione.

    PROGETTARE PER ITINERARI

    In questi ultimi anni, nel cammino di cui sto raccontando la storia, si è inserita una sensibilità nuova. L'abbiamo sperimentata come un colpo improvviso di vento che cambia l'ordine del materiale accumulato con tanta cura sul nostro tavolo di lavoro.
    Mi riferisco alla mentalità di «itinerario» con cui abbiamo incominciato a pensare e a progettare.
    Ci inducono in questa mentalità anche le ultime riflessioni, quelle in cui ho compreso la qualità progressiva dell'incontro con il Signore Gesù.

    La mentalità da itinerario

    Itinerario evoca tutto quello che il termine «progetto» si porta dentro. Nel nostro caso, ricorda e richiama le riflessioni delle pagine precedenti. Ma aggiunge, quasi come coagulante, la dinamicità della vita.
    La meta è pensata come progressione, organica e articolata di mete intermedie che si portano dentro già la meta globale, in modo germinale. Gli interventi sono esperienze vissute, capaci di far procedere il cammino con la forza propositiva riconosciuta al fare esperienza. La sottolineatura non è di poco peso. Chi pensa al metodo con una logica di prevalente strumentalità, s'accorge di avere a disposizione un bagaglio di «cose», più o meno ampio; e le utilizza, selezionando quelle che hanno dato buoni risultati o cercando, nel fondo del cassetto, qualche risorsa inedita per dare una virata improvvisa al ritmo.
    Nell'itinerario prevale invece la soggettività dei giovani, guidata e incanalata dalla presenza, accorta e amorevole, dell'educatore. Le risorse sono comprese in reciproco collegamento e sono valutate pertinenti nella misura in cui riescono a scatenare esperienze nuove. Adulti e giovani, assieme, camminano verso una meta, facendo esperienza di quanto è stato consolidato e, nella tensione e nel contatto con chi l'ha già raggiunto, di quello verso cui si è in cammino.

    L'animazione vocazionale con mentalità da itinerario

    Abbiamo esperienze e proposte di tipo generale, per progettare il processo globale di educazione dei giovani alla fede con mentalità da itinerario.
    Sull'ambito vocazionale in termini specifici siamo solo ai primi passi. Ho quindi difficoltà serie a suggerire qualcosa: la storia che sto raccontando mi lascia allo scoperto. Con questo limite riconosciuto e affermato, tento qualcosa, affidandolo soprattutto alla ricerca e alla riflessione di gruppo. Mi sembrano urgenti questi movimenti per realizzare un cammino maturo di animazione vocazionale, nell'attuale situazione giovanile e culturale:

    1. Ricostruire un'identità sufficientemente stabilizzata attorno ad una matura esperienza di finitudine che si apre all'invocazione.
    In questo primo movimento sono sottolineate tre esigenze complementari:
    - Si tratta, prima di tutto, di restituire ai giovani la capacità di riconoscere e di amare intensamente il grande dono della vita, che si presenta alla soggettività personale come un evento sempre più grande e misterioso di quello che riusciamo a manipolare nella nostra quotidiana fatica esistenziale.
    - Il «sì alla vita» diventa subito scoperta di una solidarietà costitutiva che si apre verso la responsabilità: l'impegno di rispondere agli altri di quello che giustamente riconosciamo come «nostro» (tempo, energie, risorse, amicizie...).
    - Infine viene sottolineata l'esigenza di ricostruire una struttura di personalità, con quel minimo di organizzazione necessaria e possibile, attorno al riconoscimento del limite invalicabile che attraversa la propria esistenza e dal cui profondo alziamo le braccia «invocando» rassicurazione e conforto. Questo ritorno alla verità della propria vita (la coscienza del limite) sollecita all'impegno senza sprofondare nella rassegnazione o nella presunzione.

    2. L'incontro con Gesù il Signore, testimoniato dai credenti come il fondamento della nostra speranza e il conforto nella nostra invocazione.
    Ricordo le esigenze sottese a questo movimento:
    - L'invocazione cerca un fondamento stabile e rassicurante. La comunità ecclesiale, nel volto concreto di alcuni credenti, racconta l'esperienza, vissuta nell'incontro personale con il Signore della vita e si propone, concretamente, come il luogo dove continuare questa esperienza.
    - Si tratta però di un sostegno specialissimo: rilancia nell'avventura quotidiana della ricerca, perché immerge nel mondo della fede e della speranza (che fanno vedere la vita quotidiana dalla parte dell'invisibile) e esige il silenzio dell'interiorità, sostenuto e favorito dal clima educativo che si respira.
    - L'incontro con Gesù, fondamento della nostra passione per la vita e della compassione per la vita di tutti, nasce sulla proposta «contagiosa» di credenti e di comunità che l'hanno già sperimentato.
    Questa esigenza ne richiama immediatamente altre, come condizioni pregiudiziali:
    - l'esistenza e la vicinanza di questi soggetti «propositivi»: si tratta di ritrovare il coraggio di «invitare» a compartecipare alla propria vita, soprattutto in alcuni momenti significativi;
    - una proposta «fattiva», capace di affascinare e di risultare davvero alternativa: «vieni», «per sperimentare questo e questo...» (una intensa vita spirituale nella logica di fondo della proposta, un impegno apostolico ed educativo incidente...);
    - un modo di «interpretare i fatti», offrendo messaggi: «narrare la propria storia» (un evento fondante - che viene narrato - a chi sa ascoltare - e produce festa).

    3. Una verifica decisiva per la qualità dell'incontro con Gesù: la condivisione appassionata della sua causa (la vita piena e abbondante per tutti).
    L'incontro con Gesù resta sempre misterioso: è un'avventura di fede. La sua verifica esige la scelta di criteri di validazione. A questo livello il cammino vocazionale si fa esigente.
    - Chi ha incontrato Gesù, non misura la sua fede prima di tutto sull'appartenenza, ma sulla passione per il regno: sull'impegno di far nascere vita dove c'è morte, nel nome e per la gloria di Dio.
    - Nasce una qualità nuova di vita, assicurata sulla decisione di far propria la causa di Gesù: l'impegno di giocare tutta la propria vita, nel nome di Dio, perché tutti (soprattutto i più poveri, quelli che ne sono stati più deprivati, in riferimento alle concrete situazioni della loro esistenza storica) possano ritrovare la vita e il suo senso. La dimensione personale (incontro con Gesù) e la dimensione veritativa (accettazione del suo messaggio) sono sempre «dentro» (come aspetti integranti) questo orientamento esistenziale più ampio e più impegnante.
    - E così l'amore alla vita, fondato nella sua radice ultima che è l'affidamento a Gesù di Nazareth nella fede, diventa «compassione» per la vita di tutti.

    4. La passione per la vita di tutti nella grande compassione di Dio per la vita.
    Per un credente la compassione per la vita degli uomini nasce come personale e continuo rendimento di grazie a Dio, che Gesù rivela Padre buono e accogliente, pieno di compassione per tutti. Questa è una dimensione qualificante della vocazione cristiana, perché la colloca nella speranza e nell'atteggiamento evangelico del «servo», come ho ricordato nelle pagine precedenti.

    5. Alla ricerca di un modo concreto e personale per vivere la passione per la vita: una sola vocazione per mille sentieri, fino al sentiero della radicalità.
    La passione per la vita, nella compassione del Dio della vita, è sempre una passione liberatrice e operosa.
    L'unica vocazione si esprime e si concretizza nelle differenti vocazioni.
    Ne ho appena parlato, per ridisegnare il senso delle vocazioni di speciale consacrazione. Voglio solo ricordare un tratto importante di questo impegno per la vita nel nome di Dio, che va progressivamente conquistato nel cammino verso l'autenticità.
    Ho già ricordato che l'unica passione per la pienezza di vita, nella logica del regno è, nello stesso tempo, accoglienza del dono e offerta del proprio impegno.
    Nella vita del cristiano ci sono dei gesti tutti orientati a celebrare il dono ricevuto; e altri totalmente dalla parte dell'impegno attivo. I primi sono costituiti dai momenti in cui il cristiano si sottrae al ritmo normale di una vita operosa e si immerge nella preghiera e nelle celebrazioni liturgiche, che fanno pregustare nella speranza il regno promesso.
    Attraverso questi gesti il cristiano esprime la sua risposta a Dio mettendo l'accento più direttamente sulla radicalità e totale gratuità del dono. La sua realizzazione nel tempo è confessata tutta dalla parte di Dio: per questo la passione di chi vuole il regno di Dio si manifesta in una contemplazione gratuita e festosa.
    Quando il cristiano si immerge nella fatica e nella lotta, costruendo vita e speranza con il sudore della sua fronte, egli esprime invece direttamente la responsabilità dell'uomo nella costruzione del regno di Dio.

    GUARDANDO AL FUTURO

    Non è certo facile progettare qualcosa, in termini educativi, capace di collocarsi dentro l'attuale situazione culturale, in una radicale fedeltà al progetto che vogliamo servire. Di certo, non è tutto chiaro e preciso, della stessa sicurezza che percorre tanti testi sulla vita religiosa e sacerdotale, legati alle logiche del passato. In un tempo di cambiamenti, è più facile scoprire quali sono gli elementi problematici che prevedere quelli progettuali.
    La fatica investe tutta la comunità ecclesiale. La animano coloro che hanno scelto di vivere con radicalità la loro passione per il regno. La sostengono e la incoraggiano quei fratelli a cui è affidato il ministero della verità per l'unità.
    La ricerca, difficile e rischiosa, è però urgente e ineludibile.
    I nostri giovani, segnati dal clima culturale di questo nostro tempo, hanno una visione rinnovata della vita e della storia. Hanno recuperato valori che prima erano sottaciuti e ne hanno messo tra parentesi altri, sottolineati abbondantemente dalla tradizione. Essi non sono confrontati dall'alternativa se essere o meno "uomini religiosi". La sfida è tra vivere una esperienza religiosa che permetta di restare pienamente di questo tempo o rinunciare ad una delle due esigenze: rinunciare alla contemporaneità all'oggi per scegliere di essere religiosi o rinunciare all'esperienza religiosa per restare nel nostro tempo.
    Possiamo cercare con coraggio e speranza. Nello Spirito di Gesù sappiamo di poter attingere prospettive nuove e vecchi tesori dal ricco bagaglio della nostra tradizione religiosa e in compagnia con l'uomo di oggi.


    T e r z a
    p a g i n A


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