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    Per una narrazone autentica



    R. Tonelli - L. A. Gallo - M. Pollo

    (NPG 1992-04-39)


    Non basta entusiasmo e passione per diventare buoni narratori dell'evangelo di Gesù.
    L'evangelizzazione richiede fedeltà a quelle esigenze che la tradizione della fede ecclesiale e la sensibilità attuale riconoscono come irrinunciabili.
    Ci confrontiamo con alcune di esse per indicare limiti e condizioni di una narrazione autentica.

    TRA SINCERITÀ E VERITÀ

    Il primo tema, su cui vogliamo fermarci un po' a pensare, propone un problema di fondo: il rapporto tra soggettività e oggettività nell'atto narrativo.
    Fare evangelizzazione narrando alza innegabilmente l'indice di coinvolgimento e di ascolto. Non si trascina anche spontaneamente il rischio strisciante di soggettivizzare il dato della fede e la sua riduzione ad una facile esperienza emotiva?

    Il difficile rapporto tra soggettività e oggettività

    Tra attenzione alla soggettività e rispetto dell'oggettività il dialogo non è mai stato troppo facile. E le soluzioni sbrigative sono servite soprattutto a complicarne ulteriormente il rapporto.
    L'abbiamo sperimentato in questi anni.
    Qualcuno si è accontentato di riaffermare la soggettività, convinto che l'evangelizzazione può risuonare come significativa e coinvolgente per la forza dell'esperienza personale che sa proporre o per quella che sa scatenare.
    Si dice: basta testimoniare ciò che si annuncia con autenticità e con coerenza. Una buona testimonianza risolve tutti i problemi e la sincerità del testimone diventa principio di credibilità di quanto viene proclamato.
    Qualche altro, invece, si erge a difensore intransigente della verità. Parte dalla convinzione di poter incontrare la verità in un'isola felice, lontana dai conflitti culturali e dai limiti personali dell'evangelizzatore. Cerca così di separare, con acribia e perentorietà, quello che deve restare oggettivo dai suoi condizionamenti soggettivi.

    Non basta la sincerità

    La sincerità è dalla parte del soggetto: dice il suo atteggiamento esistenziale verso l'oggetto su cui si misura e che nel racconto cerca di interpretare, per sé e per altri.
    La verità è dalla parte dell'oggetto. È nella verità perciò chi cerca di esprimere l'evento senza deformazioni o senza limitazioni: si sforza, con coraggio e disponibilità, di restare "fedele" ad una verità "data" per la nostra vita.
    Nelle narrazioni salvifiche e nei racconti che vogliono sollecitare ad approfondire la fede, questo problema è centrale. La narrazione "salva" solo quando la sincerità e la forza evocativa sono fondate sull'oggettività dell'evento: il dono della salvezza non proviene dal narratore, ma dall'evento narrato. Non possiamo infatti confondere la parola umana con la Parola di Dio che attraverso essa viene proclamata né l'esperienza salvifica con l'interpretazione personale di questa esperienza o con la risonanza emotiva che essa suscita.
    Un esempio può dare un riscontro concreto a queste affermazioni.
    Proviamo ad analizzare il resoconto di una partita di calcio che un tifoso fa ad amici del suo club. Egli racconta quello che ha vissuto con foga e con passione. Si sente coinvolto nell'evento narrato e sente quanto l'esperienza faccia vibrare i suoi interlocutori. Questa passione reciproca non è minaccia alla verità del racconto. Al contrario, l'assicura con maggiore intensità, perché l'avvenimento raccontato ha un senso che va molto oltre il dato fisico.
    Questo tifoso però può raccontare cose viste e vissute che non corrispondono affatto a quello che in effetti è capitato. Egli ha visto veramente un'infrazione grave di regolamento, che avrebbe meritato una punizione severa. Di fatto però non c'è stata, come potrebbe documentare la registrazione della partita. Quando egli parla di questo momento discusso, è sincero; non dice però la verità. Il coinvolgimento intersoggettivo è alto e l'esperienza diventa evocativa. Ma non produce nulla di sostanziale, perché non è autentica.
    Certamente, la sincerità del testimone è importante, in un tempo in cui anche le parole più impegnative risuonano come vuote se non sono accompagnate e interpretate dai fatti. Questa sincerità è poi tutt'altro che facile, minacciata com'è dalla superficialità, che spinge a considerare come significative le impressioni e le affermazioni non motivate. In ogni caso, non è sufficiente. Sappiamo tutti molto bene che la capacità salvifica dell'evangelizzazione risiede nell'evento testimoniato: sta quindi in un dato collocato oltre la soggettività, che, in qualche modo, la giudica e la misura.

    Non è sufficiente il richiamo alla verità oggettiva

    Non basta chiedere al narratore di essere sincero. Gli si deve chiedere lo sforzo di narrare secondo verità.
    Non può però essere considerata pacifica quella distinzione troppo netta tra oggettività e soggettività, che sostiene chi pensa di difendere la verità, dimenticando il condizionamento umano in cui sempre si esprime. Nella logica dell'Incarnazione, ogni proposta di valori e ogni realizzazione di avvenimenti salvifici prende infatti l'"umana carne" della cultura e dell'esperienza del testimone ecclesiale. La Parola assoluta di Dio si fa parola d'uomo per farsi evento di salvezza per l'uomo concreto. Questo "svuotamento" radicale (cf Fil 2, 6-9), che la potenza di Dio ha scelto per farsi vicina e interpellante, quasi a sostegno della responsabilità dell'uomo, attraversa il farsi quotidiano della salvezza. Non ne sono sicuramente esclusi gli eventi linguistici.

    Criteri per risolvere il problema

    La narrazione rappresenta uno degli ambiti in cui il difficile rapporto tra oggettività e soggettività diventa particolarmente inquietante: essa cerca fede e salvezza (eventi fondati nella radice sicura del mistero di Dio), attraverso un modello comunicativo che pone al centro le persone concrete e ne sollecita libertà e responsabilità.
    Una soluzione va trovata, capace di assicurare il rispetto della "verità" della fede e dell'oggettività degli eventi salvifici, anche nel vortice di quel coinvolgimento soggettivo che la narrazione sollecita e costruisce.
    In che direzione?
    La sensibilità ecclesiale più matura propone, come soluzione corretta e praticabile, l'elaborazione di criteri di riferimento, da ripensare e concretizzare poi, di volta in volta, nelle concrete situazioni.
    In questo orizzonte si colloca anche la nostra riflessione.
    Per valutare l'autenticità della narrazione e per costruire modelli capaci di far evitare i tranelli della soggettivizzazione, suggeriamo tre criteri operativi.

    Una ricerca sincera della verità

    Il primo di questi criteri sta proprio nel confronto serio e inquietante tra "sincerità" e "verità".
    Certo, non è facile distinguere in concreto i due momenti, perché le esperienze di fede non hanno riscontri verificabili, come capita invece nelle vicende della nostra vita quotidiana. Il narratore tende a piegare l'evento all'esperienza vissuta, a sostituire l'interpretazione personale alla realtà da interpretare. Impegnato a coinvolgere nella stessa esperienza anche i suoi interlocutori, per fare di essi una dimensione importante della narrazione stessa, è sempre tentato di manipolare a questo scopo l'evento che narra, accentuando alcuni aspetti e celandone altri.
    Per superare le difficoltà interpretative, nella ricerca appassionata di fedeltà, non basta né la buona volontà né la migliore intenzione di questo mondo. Al narratore si richiede l'impegno di misurarsi con condizioni concrete e consistenti.
    Prima di tutto, il narratore è chiamato a conoscere l'interpretazione autentica dei documenti che narra. Per questo studia, si informa, racconta con le parole della sua esperienza solo dopo essere riuscito a penetrare il testo per quello che esso significa e vuole esprimere. Questa competenza è intessuta di un bagaglio di conoscenze, anche dal sapore tecnico, che riguardano i processi comunicativi, il mondo dei suoi interlocutori, la loro cultura e la loro lingua, la qualità dei fenomeni e dei conflitti che si scatenano nell'atto comunicativo.
    In secondo luogo, al narratore si chiede la capacità di possedere e di coltivare la coscienza del suo limite: il narratore resta continuamente consapevole dello scarto esistente tra l'esperienza che lui ha vissuto nel contatto con l'evento narrato, l'interpretazione personale di questa stessa esperienza e l'evento che sta alla radice di tutto ciò. Nonostante la sua buona volontà e la costante ricerca di sincerità, egli riconosce l'esistenza di tante componenti personali emotive che sfuggono al suo controllo e che riaffiorano proprio nel momento impegnativo della narrazione.

    Tra interpretazione ed esperienza

    Il secondo criterio ricorda un dato importante e lo trascina verso alcune conseguenze operative.
    Sappiamo che Dio parla all'uomo attraverso fatti e parole che restano "parole umane" per poter essere percepite e comprese dall'uomo (DV 13).
    Basta pensare ai racconti biblici che per il credente rappresentano il luogo centrale (anche se non unico) della Rivelazione di Dio.
    La Bibbia propone il resoconto delle cose meravigliose che Dio ha compiuto nella storia per la vita e la salvezza dell'uomo. Lo fa però sempre in un modo del tutto originale.
    Essa non dice semplicemente quello che Dio ha fatto, come se si trattasse di un resoconto stenografico degli eventi salvifici. Indica piuttosto ciò che gli uomini hanno compreso, vivendo determinate esperienze storiche suscitate dall'azione salvifica di Dio. Questi eventi sono avvenimenti della storia dell'uomo e dell'umanità: la nostalgia della patria per un popolo deportato, le difficoltà del deserto, l'amore coniugale, i tradimenti e gli entusiasmi, le guerre e le sconfitte, il desiderio di avventura e l'interrogativo bruciante di fronte alla morte e al dolore... Questi stessi avvenimenti diventano il segno di realtà molto più grandi e, anche per questo, un po' misteriose, perché sono interpretati alla luce del progetto di Dio, come suo svelamento.
    I racconti biblici propongono quindi le interpretazioni di coloro che hanno vissuto le esperienze narrate. Le parole attribuite a Dio sono sempre parole umane che interpretano gli eventi suscitati dalla potenza di Dio. Lo Spirito assiste in modo privilegiato questa opera interpretativa, fino a rassicuraci della sua verità, per fondare su essa la nostra fede e la nostra vita.
    Come si nota, nella Rivelazione c'è sempre un gioco tra evento e interpretazione. L'evento si rende comunicabile nella sua interpretazione, anche se non coincide mai con essa.
    Questo stesso intreccio continua nella narrazione. Essa è sempre interpretazione di eventi: necessaria per rendere comunicabile l'evento, limitata e povera rispetto all'evento stesso.
    Il criterio sta nella dialettica ricercata e consapevole tra queste due dimensioni irrinunciabili. Quando prevale l'interpretazione sull'evento, la narrazione diventa vuota fabulazione, prigioniera della soggettività. Se si cerca un'impossibile oggettività dell'evento, si corre il rischio grave di mascherare surrettiziamente la propria interpretazione.
    Se invece il confronto resta, arricchente e inquietante, e il narratore conserva la coscienza che il suo narrare è un prezioso momento interpretativo, il racconto ritrova la mirabile capacità di raccogliere parole non ancora ascoltate, per renderle forti e sonore.
    L'interpretazione non è mai vera in senso definitivo e non è mai espressione di tutta la verità conoscibile e dicibile. Essa è sempre provvisoria e parziale. Riguarda una delle tante prospettive in questione e risente delle condizioni soggettive del narratore e dei narrati. È però avvenimento salvifico, perché interpretazione attualizzante di un evento di salvezza: rivelazione che continua, per il narratore e per la comunità a cui narra, protesa verso una verità che è sempre oltre le espressioni linguistiche e storiche.

    Nel grembo materno della comunità ecclesiale

    Un terzo importante criterio è dato dal riferimento alla fede della Chiesa e ai modelli linguistici in cui essa la esprime.
    Noi possediamo espressioni consolidate per dire la nostra fede. Ci vengono da lontano. Alcune hanno origine direttamente dai tempi della prima comunità cristiana, come manifestazione dell'esperienza fatta con Gesù. Altre sono andate maturando nella coscienza della Chiesa nel lungo cammino dei secoli, e le incontriamo ormai, precise e solenni, nei documenti ufficiali. Altre, infine, propongono, con l'autorevolezza che riconosciamo al Papa e ai Vescovi, il livello oggi raggiunto dalla fede ecclesiale, su temi e problemi importanti.
    Tutte esprimono quel modo comune per dire la fede, che ci permette di credere in compagnia con i cristiani dei tempi passati e con quelli sparsi nei quattro angoli del mondo.
    Chi narra si misura con questi dati per annunciare la sua fede nella professione di fede della Chiesa, perché la Chiesa è il luogo della verità, nell'unità e nella carità.
    Il riferimento alle formule della fede ecclesiale e il confronto con i documenti in cui sono contenute, non vanno pensati come un progressivo avvicinamento della personale professione di fede ad un codice già confezionato e concluso di affermazioni, da ripetere con la preoccupazione di non sbagliare neppure una virgola.
    È certamente importante riconoscere la funzione autorevole dei testimoni della fede e della Parola. L'esigenza è decisiva sempre, per rispettare il progetto di Gesù sulla Chiesa; e lo è in modo particolare oggi, in un tempo in cui siamo tutti ammalati di soggettivismo e ci viene facile e spontaneo sostituire le nostre parole a quelle con cui i credenti hanno confessato la loro fede e la loro speranza.
    Non possiamo però immaginare che questo riconoscimento funzioni solo quando affidiamo al magistero il compito di controllare quale sia ancora la distanza tra la formulazione ufficiale e quella personale. In questo modello, la confessione di fede assomiglia molto all'ascolto di una bella sinfonia musicale, in una camera insonorizzata e con strumenti di registrazione raffinati. Tutto è gradevole, perché la riproduzione e perfetta... e quando non è così, si richiede l'intervento dei tecnici per riparare i guasti.
    La persona del credente è sempre al centro della sua professione di fede. Dice parole che si avvicinano al mistero con la stessa forza coinvolgente dei simboli dell'amore e della poesia.
    Quando pretende di descrivere il mistero in modo sicuro e definitivo, con le sue parole o con quelle prese a prestito dai documenti ufficiali, corre il rischio di perdersi nella ricerca affannosa di qualcosa che non riuscirà mai a trovare.
    Il procedimento è un altro, molto più impegnativo. Siamo invitati a crescere verso le espressioni consolidate e verso l'obbedienza sincera e cordiale nei confronti di quei fratelli che hanno il compito di sostenere nella verità la nostra ricerca. Tutto questo rappresenta il punto d'arrivo del nostro cammino, la tensione verso la maturità piena, il confronto che giudica e inquieta il nostro quotidiano procedere.
    Diremo sempre la fede con le nostre parole, anche quando riusciremo a dirla con le parole che altri hanno costruito per noi, nella loro fede. Non possono non restare "parole nostre", perché solo così diciamo nella verità la nostra fede.
    Spesso le parole saranno tanto nostre, che ci metteremo del nostro: battute, espressioni, inflessioni di voce, qualche virgola di troppo. Non possiamo essere in crisi per questo: perché nessuna parola potrà mai essere tanto perfetta da dire tutto il mistero.
    Ci lasceremo invece inquietare dalla necessità di far progredire la nostra confessione di fede, fino ad esprimere la nostra passione e la nostra speranza nel modo che risuona, alto e solenne, nella comunità ecclesiale.
    Tutto questo per una ragione semplicissima: c'è una differenza sostanziale tra il dire la fede e ripetere una formula di chimica o un teorema di matematica. Nel secondo caso dico cose vere e autentiche solo quando ripeto esattamente ciò che ho appreso. Nel primo, invece, sono nella verità e nell'autenticità quando dico io, con la vita e con le parole che so elaborare, quello che ho sperimentato del dono affascinante dello Spirito di Gesù.

    IL PROBLEMA DELLA SISTEMATICITÀ

    Quello della "verità" non è l'unico motivo di contestazione, rivolto alla narrazione.
    Qualcuno ha l'impressione che la scelta della narrazione pregiudichi un'altra importante qualità della evangelizzazione: la sistematicità.[1]
    Dopo un periodo di incertezze e di tentativi poco riusciti, si riafferma oggi, con una certa forza, l'esigenza di comunicare i contenuti dell'esperienza cristiana in quella organizzazione linguistica che la fede della Chiesa ha progressivamente assunto.
    Molti hanno l'impressione che la scelta della narrazione nella evangelizzazione comporti invece l'utilizzazione di metodi disorganici e troppo frammentati.

    Quale sistematicità

    Basta guardarsi un po' d'attorno per costatare quanto lo stesso richiamo alla "sistematicità", largamente condiviso, si esprima poi in modalità concrete molto diverse. Non è certo facile assumerne una come l'unica e l'assoluta.
    È evidente la necessità di pensarci con attenzione: per ricomprendere in termini corretti il bisogno di sistematicità e per ripensare la narrazione da questa prospettiva.

    I modelli più tradizionali

    Spesso, per assicurare l'esigenza di sistematicità, l'evangelizzazione e la pastorale catechistica hanno percorso la via di una sistematicità "previa". Esistono manuali e prontuari dove le cose sono dette bene e sono organizzate adeguatamente; ad essi ci si deve riferire per sapere cosa dire e come dirlo. Il richiamo alla sistematicità ha imitato così un modo di fare caratteristico dei modelli deduttivi e indottrinanti. Si parte dall'ipotesi che deve esistere un quadro organico di verità teologiche, legate tra di loro da una consequenzialità rigida e discendente. Esse vanno fatte assimilare al soggetto in fase di crescita. Gli adattamenti sono opportuni e previsti. Risultano sempre provvisori e parziali, nell'attesa che la maturità acquisita permetta di procedere verso la completezza ottimale.
    Un esempio tipico di questo modo di fare è il "Catechismo di Pio X", attraverso cui per tanto tempo è stata realizzata la formazione cristiana delle giovani generazioni. Esso ha una sua struttura completa, costruita attraverso "risposte lunghe" e paragrafi molteplici. L'insieme esprime il contenuto veritativo dell'esperienza cristiana.
    I catechismi per età prevedevano i necessari adattamenti: alcuni paragrafi potevano essere trascurati e di molte domande esisteva una edizione breve, che tralasciava gli incisi più impegnativi. In ogni caso però la sistematicità era salva, anche se gli adattamenti provvisori ne prevedevano un progressivo ampliamento.
    Questo è un modello di sistematicità. Non è certo l'unico. E, forse, non è davvero il più adatto per esprimere gli eventi della nostra fede, come abbiamo cercato di mostrare nelle pagine precedenti.

    La "gerarchia delle verità"

    Da molte parti e in modo autorevole sono state suggerite alternative interessanti, capaci di recuperare l'esigenza, superandone i limiti e le incongruenze.
    Punto di partenza di questo profondo rinnovamento è stata una raccomandazione conciliare: "Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o gerarchia nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana" (Unitatis redintegratio 11).[2]
    All'evangelizzazione si riconosce il compito di proporre i contenuti della fede, esprimendo la struttura fondamentale del messaggio cristiano: essa è costituita da un insieme organico di "verità", collegate tra loro secondo una logica molto precisa, che vuole rispettare ciò che è decisivo e lo distingue da ciò che invece risulta soltanto marginale. "Questo significa che non è lecito trascurare il rapporto strettissimo che unisce tra loro tutte le verità cristiane, e che queste non vanno concepite come un elenco piattamente uniforme di enunciati, ma secondo un ordine gerarchico di importanza nel piano salvifico di Dio".[3]
    La distinzione tra centrale e marginale e l'organizzazione coerente di quello che è fondamentale assicurano la sistematicità.[4]
    Anche questo è un modo di pensare alla sistematicità. Sembra però ancora abbastanza legato a schemi logico-razionali. L'articolazione e il collegamento tra i diversi contenuti della fede cristiana riproduce, più o meno, lo sviluppo consequenziale di un buon trattato di matematica. La vita e la sua ricomprensione riflessa sembrano percorrere direzioni diverse.

    I "temi generatori"

    Nella prassi pastorale, ispirata alla pedagogia della liberazione, è stata sperimentata una categoria semantica interessante, proprio in ordine a questo problema: i "temi generatori".
    Essi rappresentano un modo di realizzare l'annuncio cristiano, che prende le distanze, nello stesso tempo, dalla occasionalità e dalla sistematicità deduttiva. Le coniuga assieme nel tentativo di attivare processi comunicativi a forte carica evocativa.
    Per descrivere cosa caratterizza questa ipotesi, è più facile procedere dal negativo.[5]
    Prima di tutto i "temi generatori" non sono "dimensioni" del messaggio cristiano, quegli aspetti che lo percorrono tutto (come, per esempio, la dimensione cristologica, ecclesiologica, soteriologica, spirituale, ecclesiale...), da assumere sempre per una sua completezza.
    In secondo luogo, i "temi generatori" non sono neppure quelle "idee madri" di cui parla Il rinnovamento della catechesi.[6] In questa logica, la concentrazione e l'unificazione del messaggio evangelico viene realizzata attraverso passaggi e interventi che privilegiano l'oggettività formale e la sistematicità razionale.
    Per questa stessa ragione i "temi generatori" non coincidono con le "formule brevi" della fede, di cui si diceva poco sopra. Nelle "idee madri" e nelle "formule brevi" il collegamento tra i diversi contenuti della fede è ottenuto mediante procedimenti di carattere denotativo. Una affermazione è centrale e portante; da essa scaturisce o ad essa si collegano logicamente le altre.
    I "temi generatori" si caratterizzano invece sulla forza evocativa. Essi rompono il cerchio di silenzio, chiamano alla disponibilità personale e, cosa importante, coinvolgono progressivamente verso una esperienza più intensa e profonda, che è già "data" ma va scoperta e accolta, in una reale esperienza di profondità esistenziale.
    In questo senso, essi sono "moltiplicatori vitali" che sollecitano a prendere posizione: non danno risposte ad alcune domande, ma costringono a prendere in mano globalmente tutta la propria esistenza, senza mai sfuggire dalla concretezza della quotidianità.
    In sintesi, il "tema generatore" si porta dentro, in qualche modo, il "già" e il "non ancora" della salvezza cristiana, sperimentato nella vita quotidiana e progressivamente allargato a tutta l'esistenza personale e collettiva, attraverso i procedimenti, poco controllabili, dell'evocazione. Facendo leva sulla capacità evocativa del tema, viene generato un allargamento progressivo e intenso verso il quadro complessivo dell'esperienza cristiana.
    Anche questo è un modello di sistematicità: non procede per deduzione, ma per evocazione. È molto vicino a quello che la narrazione cerca di assicurare. Ma non coincide con esso.

    Una storia a tre storie

    Esprimiamo il modello di sistematicità che la narrazione persegue, con una formula un po' brachilogica: una storia a tre storie.
    La parola dell'evangelizzatore è sempre un racconto: una storia di vita, raccontata per aiutare altri a vivere, nella gioia, nella speranza, nella libertà di ritrovarsi protagonisti. Nel racconto si intrecciano tre storie: quella narrata, quella del narratore e quella degli ascoltatori.
    L'evangelizzatore racconta i testi della sua fede ecclesiale: le pagine della Scrittura, le storie dei grandi credenti, i documenti della vita della Chiesa, la coscienza attuale della comunità ecclesiale attorno ai problemi di fondo dell'esistenza quotidiana. In questo primo momento, propone, con coraggio e fermezza, le esigenze oggettive della verità donata. Si misura con gli eventi che sono prima della sua parola e con le formulazioni dottrinali in cui i credenti li hanno espressi nel lungo cammino della fede ecclesiale.
    La prima delle tre storie su cui è costruita l'unica storia narrata, ripropone quindi i "contenuti" della fede e la loro articolazione organica. Senza questa precisa collocazione nessuna narrazione può dare vita e nessuna può fondare sulla roccia la speranza.
    Questi dati hanno bisogno di vita vissuta e di testimonianza di fede per essere detti in modo significativo. Per questo l'evangelizzatore ritrova nella sua esperienza e nella sua passione le parole e i contenuti per ridare vitalità e contemporaneità al suo racconto. La sua esperienza è parte integrante della storia che narra: non può parlare correttamente della vita e del suo Signore, senza dire tutto questo con le parole, povere e concrete, della sua vita.
    Anche questa esigenza ricostruisce un frammento della verità della storia narrata. La sottrae dagli spazi del silenzio freddo delle formule e del passato per immergerla nella passione calda della vita e del presente.
    Dalla parte della salvezza, anche i destinatari diventano protagonisti del racconto stesso. La loro esistenza dà parola al racconto: fornisce la terza delle tre storie, su cui si intreccia l'unica storia.
    Come nel testo evangelico, la narrazione coinvolge nella sua struttura l'evento narrato, la vita e la fede del narratore e della comunità narrante, i problemi, le attese e le speranze di coloro a cui il racconto si indirizza. Questo coinvolgimento assicura la funzione performativa della narrazione. Se essa volesse prima di tutto dare informazioni corrette, si richiederebbe la ripetizione delle stesse parole e la riproduzione dei medesimi particolari. Se invece il racconto ci chiede una decisione di vita, è più importante suscitare una forte esperienza evocativa e collegare il racconto alla concreta esistenza. Parole e particolari possono variare, quando è assicurata la radicale fedeltà all'evento narrato, in cui sta la ragione costitutiva della forza salvifica della narrazione.
    In forza del coinvolgimento personale del narratore, la narrazione non è mai una proposta rassegnata o distaccata. Chi narra la storia di Gesù vuole una scelta di vita: per Gesù, il Signore della vita o per la decisione, folle e suicida, di vivere senza di lui.
    Per questo l'indifferenza tormenta sempre l'evangelizzatore che evangelizza narrando. Egli anticipa nel piccolo le cose meravigliose di cui narra, per interpellare più radicalmente e per coinvolgere più intensamente.
    Come si vede, la narrazione libera la figura di sistematicità da quelle concezioni rigide e schematiche di cui è spesso prigioniera, che tendono a ridurre la proposta della fede ad un vecchio testo di geometria, dove tutto discende da alcuni postulati e si sviluppa per progressive deduzioni.
    Cerca un'alternativa seria a contrapposizioni che risultano schematiche e inutilmente rissose. Pensiamo, per esempio, alle categorie "dall'alto" e "dal basso", alla ricerca su quali temi debbano prevalere nella evangelizzazione (temi teologici o antropologici?), all'uso di preferire la comunità e la testimonianza personale al libro e viceversa.
    Viene superata anche la logica domanda/risposta, su cui è stata impostata molta catechesi attuale e i cui limiti sono oggi giustamente denunciati, senza per questo ritornare ai vecchi modelli indottrinanti e oggettivistici.
    La storia del narratore e quella di coloro a cui la narrazione è rivolta si distendono nella storia "oggettiva" dei contenuti della fede. Ritrovano in questa base, sicura ed articolata, il loro tessuto connettivo: priorità, scadenze, articolazioni, quelle esigenze, insomma, che la formula "sistematicità" serve a richiamare. Lo fanno ponendo, come filtro, il vissuto del narratore e quello dei narrati. La vita sta quindi al centro, come criterio operativo e orizzonte in cui collocare le giuste esigenze dell'oggettività.
    La vita le ridimensiona, innegabilmente. Ma non lo fa come un nemico pericoloso da cui difendersi. L'esistenza personale, compresa dal mistero di Dio in cui è immersa, rappresenta un luogo fondamentale e originale proprio per quella sistematicità salvifica che stiamo cercando, per radicarci nella verità.

    UN TEMPO PER NARRARE E UN TEMPO PER ARGOMENTARE?

    Quello narrativo è l'unico modello comunicativo da utilizzare nella evangelizzazione o, al contrario, la scelta di privilegiarlo non significa assolutamente escludere gli altri modelli? Possiamo, di conseguenza, riconoscere il rapporto tra i differenti modelli comunicativi in una conclusione che fa eco alla sapienza un po' rassegnata dell'Ecclesiaste: nella evangelizzazione c'è un tempo per narrare e uno per argomentare?
    È facile costatare quanto l'argomento sia delicato, proprio per i suoi risvolti sul piano operativo. Ci riflettiamo con la stessa cura con cui abbiamo affrontato i precedenti problemi, per suggerire una nostra prospettiva.

    La Bibbia propone differenti modelli comunicativi

    Per affrontare correttamente un tema tanto impegnativo, abbiamo bisogno di indicazioni autorevoli.
    Non è complicato trovarle: la Bibbia propone il riferimento normativo per ogni processo evangelizzatore, sul piano dei contenuti e su quello delle strutture linguistiche.
    La stragrande maggioranza dei testi biblici sono di tipo "narrativo". Pongono davanti al lettore degli avvenimenti singolari, per costringerlo a prendere posizione personale. La comunità apostolica è una comunità che narra un'esperienza affascinante vissuta: "Noi l'abbiamo udita, l'abbiamo vista con i nostri occhi, l'abbiamo contemplata, l'abbiamo toccata con le nostre mani. La vita si è manifestata a noi e noi l'abbiamo veduta. Siamo suoi testimoni e perciò ve ne parliamo" (1 Gv 1, 1). "Gesù di Nazareth ci si presenta prevalentemente come una persona narrata, spesso anche come un narratore narrato, e i discepoli compaiono in veste di persone che ascoltano questi racconti, che a loro volta tramandano quanto hanno ascoltato e lo ripetono per via orale o per iscritto".[7]
    Nella Bibbia però sono presenti anche altri modelli linguistici.
    Esiste un linguaggio di carattere "argomentativo", destinato a dare le ragioni degli eventi, quasi per giustificare ai credenti la fondatezza della loro fede.
    C'è anche un linguaggio di carattere "provocativo": esso chiama a responsabilità, indicando compiti e doveri a cui il credente non può sottrarsi per coerenza con la sua fede.
    Il confronto con la Bibbia suggerisce che la scelta della narrazione non può certamente essere considerata come esclusiva, capace cioè da sola di esaurire tutti i compiti dell'evangelizzazione. Sembra davvero pacifico concludere sulla necessità di una pluralità di linguaggi.

    Un poco di sospetto sulla "divisione del lavoro"

    Sull'affermazione non ci sono dubbi. Ce la sollecita anche la consapevolezza che la verità che vogliamo servire con le nostre parole è tanto grande che nessuna di esse può mai pretendere di esprimerla adeguatamente.
    Il problema concreto riguarda però il rapporto tra questi differenti stili propositivi.
    Concludere per una specie di comoda divisione del lavoro, decidendo che stile narrativo e stile argomentativo hanno pari diritto di cittadinanza nella evangelizzazione, e l'orientamento verso l'uno o l'altro dipende solo da circostanze esterne, significa, in ultima analisi, sconfessare tutto il cammino percorso. La cosa infatti era pacifica nella comunità ecclesiale prima della svolta "narrativa", documentata nel capitolo sesto.
    La riscoperta della narrazione, dopo il lungo periodo in cui i cristiani avevano perso "l'innocenza narrativa",[8] nasce dalla consapevolezza di quanto sia insufficiente l'argomentazione per dire, con le parole della nostra esperienza quotidiana, un evento che resta sempre indicibile e ineffabile. Porre i due modelli sullo stesso piano, riconoscendo loro la stessa capacità comunicativa, significa dimenticare che solo il volto e la parola di testimoni (Gesù di Nazareth e, in lui, coloro che continuano la sua passione per la vita nel nome di Dio) rende vicino questo evento.
    La "divisione dei compiti" non sembra giustificata neppure dalla pretesa di affidare alla argomentazione la cura di esigenze che la narrazione trascurerebbe. Anche la narrazione, infatti, vuole descrivere, provocare, comunicare, proprio come fa il linguaggio argomentativo e quello denotativo. Cerca però di rispettare più intensamente la natura dell'evento evangelizzato, irriducibile alle categorie tipiche delle nostre argomentazioni. E si impegna ad affermare quel protagonismo attivo dell'interlocutore, che è decisivo in ogni processo di salvezza.
    Non ci sembra adeguato neppure il criterio della funzionalità concreta, che, di fronte ad interventi di pari dignità, spinge a scegliere quelli che permettono di far risuonare la parola della fede come "buona notizia" al livello di vita e di esperienza del destinatario.

    L'argomentazione in un linguaggio simbolico-evocativo

    Se consideriamo argomentazione e narrazione come due modi differenti di comunicazione, siamo per forza costretti a sceglierne uno, abbandonando l'altro. In una prospettiva lineare, non esistono altre possibilità: un modello esclude l'altro. Chi vuole l'argomentazione deve rinunciare alla narrazione; e viceversa.
    Proviamo invece a pensare il rapporto in prospettiva funzionale, collocando l'innegabile differenza tra modelli argomentativi e narrativi solo a livelli diversi di un unico atto comunicativo. In questo caso non siamo affatto costretti a scegliere in modo esclusivo; possiamo invece utilizzare i due modelli in momenti successivi e complementari, in base alla capacità di assolvere compiti diversificati.
    Per spiegare e motivare l'ipotesi, ritorniamo, per un momento, su temi ed esigenze di cui abbiamo già parlato a più riprese.

    Comunicare attraverso segni e attraverso simboli

    La comunicazione da persona a persona si svolge sempre in una struttura simbolica. Per comunicare non ci scambiamo cose o oggetti. Assumiamo, produciamo e ci scambiamo dei segni, con la speranza che l'interlocutore li sappia decifrare e possa così giungere alle realtà che essi richiamano.
    Il rapporto tra il segno e la realtà percorre sentieri differenti. Esistono dei segni che denotano in modo preciso una realtà; altri invece la richiamano più vagamente, costringendo l'interlocutore ad un supplemento di fantasia interpretativa.
    Anche nel primo caso l'operazione non è mai meccanica. Ad ogni segno corrisponde però un preciso "oggetto" culturale; ed è importante utilizzare i segni corretti per evitare che la comunicazione sia disturbata e il messaggio indecifrabile.
    Nel secondo caso la decifrazione del segno verso l'oggetto esige un coinvolgimento più intenso da parte dell'interlocutore ed una maggiore responsabilità personale. Il segno stesso la invoca, perché non si pone mai in termini univoci rispetto al referente.
    Di questa categoria, dove alla denotazione si sostituisce l'evocazione, sono i simboli. Essi sono segni come tutti gli altri, perché trascinano verso oggetti reali nel significato, spontaneo o convenzionale, che richiamano. Sono però speciali perché possiedono anche un secondo significato, riconoscibile solo attraverso il primo.
    Il significato primario è già fissato nel suo uso e ci colloca in un mondo di realtà note e largamente disponibili. Esso è evocato dalla parola o dal gesto, lanciato nella comunicazione. Quello secondario, invece, è molto più misterioso e impegnativo, tutto da scoprire per accedere pienamente al messaggio comunicato.
    Generalmente, nelle nostre comunicazioni, utilizziamo i segni, perché siamo in grado di oggettivare abbastanza bene la realtà di cui vogliamo parlare. Diciamo "pane", "libro", "casa" oppure stringiamo la mano ad un amico che incontriamo o gli stampiamo un bacio sulla fronte. Recuperiamo da un repertorio, riconosciuto e consolidato, questi segni per esprimere quello che vogliamo comunicare; e siamo certi che il nostro interlocutore li sa decodificare, raccogliendo il messaggio che vogliamo lanciargli.
    Ricorriamo invece ai simboli quando non disponiamo dei mezzi necessari per presentare direttamente i significati che vogliamo richiamare. Per dire quello che vogliamo esprimere, non ci basta il significato primario dei segni utilizzati; abbiamo bisogno di svelare un significato secondario, collegato al primo e riconoscibile soltanto attraverso il primo.
    Per fare un esempio, riproponiamo una affermazione, centrale nella evangelizzazione: "Dio è padre", annuncia l'evangelizzatore. L'abbiamo già analizzata tante volte e ci torneremo ancora, tra un attimo. Dicendo "padre", in genere, proponiamo una realtà nota: il significato primario, evocato dal segno-parola "padre", richiama una serie di connotazioni esperienziali condivise e verificabili. "Padre", in riferimento a Dio, non è però un segno come tutti gli altri. Possiede anche un significato secondario, suggerito dal primo: l'esperienza nella fede di essere immersi in un amore che "assomiglia" a quello di un padre e di una madre per il proprio figlio, ma che è sconfinatamente più grande, persistente e fedele, al cui interno comprendo il mistero di Dio per la mia vita. "Padre" è un simbolo antico ed eloquente, capace di evocare una intensa esperienza d'amore, quando i cristiani lo riferiscono a Dio.

    Il rapporto interpretativo tra significato primario e secondario

    È importante non dimenticare che il rapporto interpretativo tra significato primario e secondario è veramente speciale. Da una parte esso è obbligato: quello che Dio è per noi "assomiglia" moltissimo a quei rapporti d'amore che la parola "padre" evoca nella nostra vita quotidiana. Dall'altra, è sempre molto soggettivo e va riconquistato ogni volta. Dio non è esattamente la stessa realtà richiamata dal segno "padre": anche quando lo descriviamo con il segno eloquente della paternità, resta mistero grande ed inaccessibile. Diciamo a noi stessi chi egli è per noi, in un gioco di coinvolgimento e di libertà personale. Questa realtà misteriosa, che costituisce il messaggio della comunicazione, è conoscibile solo attraverso il significato primario che il segno "padre" richiama, riconoscibile attraverso la fatica di un approccio scientifico ed esperienziale. La conoscenza raggiunta non è però mai determinata una volta per sempre né lo è in termini perentori e assoluti.
    Con una immagine si potrebbe dire che il significato primario è come una rampa di lancio a partire dalla quale il significato secondario può spiccare il volo, in libertà e fantasia.
    Altre annotazioni vanno aggiunte, per dare un quadro più completo del problema.
    Quando dico "questo tappeto è rosso" oppure "Carlo è mio fratello", dispongo degli strumenti necessari per dichiarare sensata la proposizione. Gli elementi di cui si compone (tappeto, rosso; Carlo, fratello) sono presenti all'attenzione degli interlocutori o comunque possono essere resi disponibili; di conseguenza possono essere sperimentati e verificati. Sto comunicando attraverso segni a carattere denotativo.
    Quando invece annuncio che "Dio è padre", un elemento rimane assente e indisponibile, proprio mentre lo dichiaro presente e lo sottopongo a giudizio. La differenza rispetto al caso citato sopra è enorme, nonostante le apparenze linguistiche. Non solo "Dio" continua a restare misterioso e lontano proprio mentre lo rendo presente; ma soprattutto sono costretto a passare attraverso l'altro elemento (padre) per accedere al primo (Dio): solo l'esperienza di padre mi permette di incontrare il mistero di Dio. Sto comunicando attraverso simboli; privilegio la via evocativa.
    C'è di più. Il verbo "è", che lega "Dio" e "padre", non "dichiara" qualcosa in modo preciso e assoluto. Si richiede invece uno sforzo personale di decifrazione: il verbo diventa sensato solo all'interno di una interpretazione personale. Questa interpretazione non può essere posta una volta per sempre, come se potessi presumere di possedere "Dio" solo perché sono stato in grado di riconoscere cosa significa "padre" e in quale rapporto si collega a "Dio". Il processo di decifrazione, che permette di accedere al mistero di Dio passando attraverso l'esperienza di padre, è continuo ed esige di essere incessantemente ripreso.

    La funzione dell'argomentazione rispetto al significato primario

    Queste indicazioni ci aiutano a precisare e a motivare il modo in cui ci piace comprendere il gioco tra modelli argomentativi e narrativi nella evangelizzazione.
    Vogliamo privilegiare, nella evangelizzazione, l'approccio simbolico perché esso è l'unico adeguato per dichiarare qualcosa di sensato sulla realtà di Dio che continua a restare assente, misteriosa, indisponibile. Solo il simbolo, nella sua forza evocativa, ci permette di parlare di questa realtà, fino a rendercela presente nonostante l'impossibilità fisica di eliminare l'assenza.
    La narrazione è uno di questi modelli evocativi. Non è l'unico, perché la parola non è assolutamente l'unico modo di realizzare l'annuncio del Dio di Gesù. Come abbiamo ricordato tante volte, evangelizziamo anche producendo fatti di vita e restituendo alla vita chi stava affogando tra le onde della morte. Questi "gesti" hanno veramente un loro significato, preciso, concreto, verificabile: è innegabile. Pronunciati nell'atto dell'evangelizzazione portano verso un significato secondario, incontrabile solo in questo primario, che spalanca sul mistero del Dio della vita.
    Nella parola narrata e nel gesto che produce vita abbiamo urgente bisogno dell'argomentazione: l'argomentazione non è alternativa alla narrazione, ma complementare e funzionale a livelli differenti.
    L'argomentazione non serve per spalancare le soglie del mistero. Ricorriamo al simbolo perché ciò che vogliamo comunicare appartiene ad una sfera di significati non direttamente riconoscibili attraverso mezzi semantici propri. L'argomentazione ci apre l'accesso a questo mondo di significati vitali, per quello che le compete: al livello del significato primario per coglierne tutta la ricchezza espressiva; e nel processo di decifrazione verso il significato secondario, per sollecitare ed abilitare le persone, spesso distratte o catturate dall'immediato, a procedere oltre verso quell'accoglienza del mistero che è sempre rischio e scommessa personale.
    Argomentare vuol dire le tante cose che riusciamo ad immaginare in una passione educativa unita ad un pizzico di fantasia: studiare realisticamente i segni di morte da trasformare in esperienze di vita, andando alle cause e alla trama violenta delle connessioni, restituire alle parole quello spessore culturale e storico che ci permette un uso collettivo e socialmente rilevante, ricostruire un tessuto di libertà e di responsabilità al cui interno le parole pronunciate e i gesti compiuti risuonino come impegni seri e solenni, ridare parola a coloro a cui è stata sottratta per spalancare le vie al mistero e ridare spessore alle parole per far camminare veramente verso il mistero.
    Fa parte dell'approccio argomentativo anche il coraggio di misurarci con una verità, consistente e data, nel cui grembo possiamo crescere verso eventi più grandi delle loro formulazioni.
    Diventa importante momento argomentativo anche quello sforzo educativo che sa ricostruire la capacità logico-speculativa, per interpretare il linguaggio che ancora la abita e per dare a sé e agli altri le buone ragioni della propria fede.
    Abbiamo delineato un'ipotesi nuova di rapporto tra argomentazione e narrazione. Supera le contrapposizioni e le esclusioni, come se fossimo costretti a scegliere nell'evangelizzazione quotidiana l'uno o l'altro dei modelli comunicativi. Ricostruisce invece un dialogo funzionale tra due modalità egualmente preziose, anche se a livelli diversi. E aiuta così a formulare meglio il significato reciproco.
    Lo diciamo in concreto, pensando a quel modello comunicativo che ci sta particolarmente a cuore. La narrazione diventa sempre meno un "modello", concreto e pronto all'uso; e sempre di più uno "stile" globale di evangelizzazione. Essa dà all'evangelizzatore una sensibilità, una competenza ed una passione mai spenta, che lo abilitano ad imitare il saggio dell'evangelo che sa ricavare dal suo tesoro "cose antiche e cose nuove" (Mt 13, 51).

    L'autorevolezza del narratore

    Un'altra costatazione, di genere diverso, ci sollecitare a recuperare l'argomentazione proprio a partire dalla scelta privilegiata per la narrazione nella evangelizzazione. Essa chiama direttamente in causa il narratore.
    Colui che vuole sostenere la vita e generare la speranza attraverso la narrazione ha bisogno di un indice alto di autorevolezza propositiva. Non si rassegna a dire cose dello stesso peso e della stessa forza dei mille discorsi futili che riempiono le nostre giornate. Parla di eventi che inquietano e chiedono una conversione profonda. Sollecita ad una decisione coraggiosa e rischiosa.
    Ha bisogno di essere preso sul serio.
    Dove fonda l'autorevolezza necessaria? L'argomentazione serve a fondare il diritto di narrare. Argomentando, l'evangelizzatore si conquista il diritto di dire cose impegnative in stile narrativo.
    Il modello argomentativo serve a dare all'evangelizzatore e ai suoi interlocutori le buone ragioni per giustificare una proposta, realizzata in stile narrativo. La pretesa di diventare guida ai suoi stessi compagni di viaggio è motivata attraverso argomentazioni previe all'atto narrativo.
    Il rapporto tra i differenti stili comunicativi non è risolto né attraverso difficili equilibri logici, né tanto meno è verificato solo sulle circostanze concrete in cui si svolge l'evangelizzazione. Esso è invece affidato alla passione, competente e creativa, della persona dell'evangelizzatore.
    Ritorniamo così, ancora una volta, alla radice della trasmissione della fede cristiana: non annunciamo il Signore con parole sapienti, ma raccontando quello che abbiamo sperimentato nella nostra vita (1 Cor 1, 17-31).


    NOTE

    [1] "Nel suo discorso di chiusura della IV Assemblea Generale del Sinodo, il Pontefice Paolo VI si rallegrava nel 'costatare che era stata sottolineata da tutti l'assoluta necessità di una catechesi ben ordinata e coerente, poiché un tale approfondimento dello stesso mistero cristiano distingue fondamentalmente la catechesi da tutte le altre forme di annuncio della Parola.
    Di fronte alle difficoltà pratiche debbono essere sottolineate, tra le altre, alcune caratteristiche di tale insegnamento:
    - esso deve essere un insegnamento sistematico, non improvvisato, secondo un programma che gli consenta di giungere al suo scopo preciso [...]" (Catechesi tradendae 21).
    [2] Il documento Unitatis redintegratio - da cui è tratta la citazione - riguarda il dialogo ecumenico. Ma ci si è resi conto rapidamente del significato più generale della raccomandazione. Lo stesso documento aiuta a pensare in una prospettiva generale anche a partire dal coraggioso esame di coscienza che propone: "La Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma [...], in modo che se alcune cose [...] anche nel modo di enunziare la dottrina [...] fossero, secondo le circostanze, osservate meno accuratamente, siano opportunamente rimesse nel giusto e debito ordine" (UR 6).
    Per tutto questo problema, si veda HOUTEPEN A., "Hierarchia veritatum" ed ortodossia, in "Concilium" 33 (1987) 4 595-609.
    [3] GROPPO G., Contenuti (criteri), in GEVAERT J., Dizionario di catechetica (LDC, Leumann 1986) 176.
    [4] Non di solo pane (Edizioni Conferenza Episcopale Italiana, Roma 1979) ha tentato, a conclusione, la strada della "formula breve" della fede. Sono interessanti le note che giustificano la proposta.
    "... accadde che si perdesse un poco di vista l'unità profonda del Credo cristiano, quell'unità per cui il cristianesimo non è un mucchio di dottrine e di regole di vita, ma è una visione rigorosamente coerente della vita e della vicenda storica che ha il suo fondamento ultimo su una persona, Gesù il Cristo. [...] Nacque così, più o meno distintamente, l'immagine di un cristianesimo inteso non come una verità, ma come una raccolta di molte dottrine, tutte garantite dall'unica autorità di Dio che rivela, senza però unità interiore. [...] Dalla difficoltà ad individuare il nocciolo essenziale del cristianesimo emerge un compito evidente: quello della concentrazione della realtà cristiana intorno al suo centro" (300-302).
    [5] Si veda per esempio BUCCIARELLI C., Educazione e politica nel metodo psicosociale di Paulo Freire: un'alternativa per la liberazione, in "Orientamenti pedagogici" 25 (1978) 802-836.
    Abbiamo studiato i "temi generatori" e il loro utilizzo nella pastorale in una monografia di "Note di pastorale giovanile". Raccomandiamo soprattutto i seguenti contributi: BISSOLI C., Bibbia e temi generatori, 17 (1983) 1 26-31; NANNI C., L'antropologia dei temi generatori, 17 (1983) 1 13-20; Una proposta NPG: i temi generatori nella pastorale giovanile, 17 (1983) 1 4-12.
    [6] "Assai fecondo, su questo piano, appare il criterio di servirsi di grandi idee madri e di prospettive unitarie su tutto il mistero cristiano, come pure la distribuzione della materia in chiare unità didattiche", RdC 174.
    [7] WEINRICH H., Teologia narrativa, in "Concilium" 5 (1973) 5, 71.
    [8] La battuta fa eco ai primi passi della "teologia narrativa" e a quel famoso numero di "Concilium" che ha aperto, quasi ufficialmente, la ricerca sul tema.


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