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    Una spiritualità per l'impegno politico?



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1991-05-49)


    La prospettiva in cui si colloca questa riflessione è precisa e limitata: la mia è una ricerca sulla spiritualità cristiana. Cerco modelli di vita spirituale "misurati sull'impegno politico". Ma intendo restare nello spazio specifico della spiritualità, evitando accuratamente ogni indebita invasione di campo.
    Non mi chiedo perciò in che modo affrontare le differenti e molteplici situazioni di morte con cui si scontra l'esistenza quotidiana di tanti uomini, spesso a causa dello sfruttamento di altri. E neppure mi interrogo sulle trasformazioni da realizzare per assicurare veramente una casa comune a tutti, in una solidarietà che investa, in prima istanza, coloro a cui la vita è stata più violentemente deprivata.
    Lo so che si tratta di questioni drammatiche e urgenti. L'ambito naturale per affrontarle è quello culturale, sociale e politico, in una difficile compagnia con tutti gli uomini che amano la vita e si impegnano a lottare contro la morte.

    LA PROSPETTIVA: UNA RICERCA SULLA SPIRITUALITÀ

    Il credente si getta in questo impegno con il coraggio della sua passione mai spenta. Coinvolge in esso pienamente la sua fede, ma non pretende di avere risposte assolute e risolutive solo a partire dalla sua perentorietà.
    La ricerca sulla spiritualità percorre invece quella trama esistenziale, personalissima e sempre un poco indecifrabile, dove il mistero di Dio si affaccia sulla nostra esistenza. Ci chiediamo come vivere "dall'esperienza dello Spirito", riconoscendo nel dono dello Spirito la novità di vita che ci permette di superare la paura della morte e ci restituisce alla gioia di riconoscere Dio come Padre (cf Rom. 7 e 8). Corre sul filo del "come essere" per vivere in fedeltà all'evento che ci ha costituiti "creature nuove". Pone in secondo piano la pretesa saccente di "cosa fare", magari "per ottenere la vita eterna" (Lc 18, 18).
    Per conquistare un frammento di interesse, anticipo però le conclusioni a cui giunge la mia ricerca. Proprio a partire dal tentativo di ricomprendere il mistero che ci avvolge, ho scoperto che il centro della spiritualità cristiana sta nel coraggio di giocare la vita, fino alla morte, per la vita, piena e abbondante, di tutti gli uomini, soprattutto di coloro che più ne soffrano la privazione.
    La dimensione di "servizio responsabile" non è un'appendice della spiritualità cristiana, leggibile solo da qualche entusiasta. È invece qualità costitutiva. Possono variare le modalità, sulla misura della vocazione personale e collettiva; il compito resta, unico e irrinunciabile per chiunque confessa Gesù come il Signore.

    LA CAUSA DI GESÙ

    L'esistenza cristiana si configura sull'evento di Gesù di Nazareth: la sua persona e il suo messaggio, come ci sono narrati dalla fede dei suoi primi discepoli.
    Questi testimoni privilegiati ci presentano un ritratto speciale di Gesù. Ci tengono nascosti tanti particolari della sua persona che un pizzico di curiosità vorrebbe farci conoscere. Non si preoccupano mai di dirci cosa ha fatto, dove ha vissuto, come si è mosso, con la precisione che ci piace ritrovare nel ricordo degli amici.
    A differenza di tanti uomini grandi, che sono citati per le cose che hanno scritto o per i progetti culturali che hanno sognato, il Vangelo ci presenta Gesù di Nazareth come un uomo appassionato per una causa. Ne ha parlato spesso, ma soprattutto ha dato tutta la sua vita per realizzarla.
    Una pagina, molto nota, ci aiuta a comprendere quale sia il senso e il contenuto di questa passione.
    Quando i discepoli di Giovanni hanno chiesto a Gesù le sue credenziali, per rassicurare la fede del loro maestro, condannato a morte dalla tracotante malvagità di Erode, Gesù risponde senza mezzi termini: "Andate a raccontare quel che udite e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono risanati, i sordi odono, i morti risorgono e la salvezza viene annunciata ai poveri. Beato chi non perderà la fede in me" (Mt 11, 2-6).
    Per parlare di sé, Gesù parla della sua causa e dei fatti che sta compiendo per realizzarla. Ed è un impegno tutto sbilanciato dalla parte della promozione della vita. Qui dentro nasce una autentica esperienza di fede: "beato chi non perderà la fede in me", ricorda Gesù.
    In questo modo, Gesù ha rivelato chi è Dio e quale era la sua missione. Ha dato un contenuto preciso alla sua "causa": riconoscere la sovranità di Dio su ogni uomo e su tutta la storia, fino a confessare che solo in Dio è possibile possedere vita e felicità. Questo Dio, però, di cui ha proclamato la signoria assoluta, non è il Dio dei morti, ma dei vivi. È il Signore della vita. Fa della vita e della felicità dell'uomo la sua "gloria". In Gesù Dio vuole che "tutti abbiano la vita e ne abbiano in abbondanza" (Gv 10, 10; Gv 11, 25).
    Un po' alla volta, i discepoli hanno incominciato a chiamare la causa di Gesù "regno di Dio", con una espressione che forse hanno appreso dalle parole stesse del Maestro.
    Gesù è l'uomo per il regno di Dio.
    Sul regno di Dio misuriamo perciò l'esistenza cristiana. Essa si esprime come una passione sconfinata per la vita nel nome di Dio: perché tutti abbiano vita, soprattutto coloro a cui è stata più violentemente tolta; perché ne abbiano tanta, da spegnere ogni incertezza; perché la vita offerta a tutti sia quella vera e autentica che possiamo sperimentare solo sprofondati nel mistero di Dio.

    VIVERE L'IMPEGNO DA CREDENTI

    Con "lo sguardo fisso in Gesù, lui che ha aperto la strada della fede" (Eb 12, 2), il cristiano ritrova la spinta verso una spiritualità impegnata. Riconosce però, con la stessa intensità, che il suo impegno non può essere indifferenziato: egli serve la vita solo se opera nella logica del regno di Dio.
    È innegabile la necessità di riscattare l'esperienza spirituale dai modelli disimpegnati e rassegnati, a cui è stata per tanto tempo stranamente consegnata. Ma è ugualmente decisivo scrivere l'impegno in modo che risuoni veramente "nella logica del regno di Dio". Alla tentazione di risolvere tutti i problemi con qualche sacrificio personale o intensificando il ritmo della preghiera fa riscontro oggi la presunzione di chi pensa di poterli risolvere, aumentando e raffinando l'impegno politico.
    Per dare una risonanza concreta a questo richiamo, suggerisco tre "criteri", sui quali costruire e verificare la qualità del nostro servizio "da uomini spirituali", che operano nella vita quotidiana "guidati dallo Spirito" (Rom 8, 5).

    Cosa è vita

    Il contributo più decisivo alla causa della vita che la logica del regno propone sta proprio nella comprensione di cosa sia "vita" e contro quale genere di "morte" siamo chiamati a lottare.
    Vita è oggi una espressione pregiudicata. Un uso frequente e spesso insensato la svuota ogni giorno di significato. Persino i mercanti di morte tentano di venderci i loro prodotti nel nome della vita. Qualche volta, anche i cristiani sono riusciti a trattare male le esigenze della vita, con l'alibi della... vita eterna.
    La possiamo comprendere correttamente solo collocando "alla scuola di Gesù" la ricerca che inquieta il cuore di tanti uomini. Non solo egli si pone dalla parte della vita nel nome di Dio. Nelle parole e nei gesti dice in termini concretissimi cosa è per lui vita e contro quale immagine di morte vuole lottare.
    Basta rileggere quell'episodio bellissimo, tutto carico di simboli, che Luca racconta: "Una volta Gesù stava insegnando in una sinagoga ed era di sabato. C'era anche una donna malata: da diciotto anni uno spirito maligno la teneva ricurva e non poteva in nessun modo stare diritta. Quando Gesù la vide, la chiamò e le disse: Donna, ormai sei guarita dalla tua malattia. Posò le sue mani su di lei ed essa si raddrizzò e si mise a lodare Dio". Di fronte alle proteste del capo della sinagoga "nel nome di Dio" (perché Gesù l'aveva guarita di sabato), Gesù risponde: "Satana la teneva legata da diciotto anni: non doveva dunque essere liberata dalla sua malattia, anche se oggi è sabato?" (Lc 13, 10-17).
    Nel nome della vita, Gesù rimette "in piedi e a testa alta" tutti coloro che vivono piegati sotto il peso delle sopraffazioni. Restituisce dignità a chi ne era considerato privo. Ridà salute a chi è distrutto dalla malattia. Contrasta fortemente ogni esperienza religiosa in cui Dio viene utilizzato contro la vita e la felicità dell'uomo. Egli è davvero il segno di chi è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe: "Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dall'Egitto, perché non siate più schiavi. Da quando ho spezzato il giogo del dominio egiziano che pesava su di voi, potete camminare a testa alta" (Lev 26, 13).
    Per chi crede in Gesù di Nazareth, vita è dominio dell'uomo sulla realtà, creazione di strutture di vita per tutti, comunione filiale con Dio. Morte è il suo contrario.
    Il dominio dell'uomo sulla realtà implica la liberazione dell'uomo dal potere schiavizzante delle cose per impadronirsi di tutte le potenzialità insite in esse.
    Costruire vita significa perciò restituire ogni persona alla consapevolezza della propria dignità. Significa rimettere la soggettività personale al centro dell'esistenza, contro ogni forma di alienazione e spossessamento. Comporta di conseguenza un rapporto nuovo con se stesso e con la realtà, per fare di ogni uomo il signore della sua vita e delle cose che la riempiono e la circondano.
    Questo obiettivo richiede un impegno fattivo, giocato in una speranza operosa, perché tutti siano restituiti alla piena soggettività. Lavorare per la vita significa di conseguenza lavorare perché veramente ogni uomo si riappropri di questa consapevolezza e perché il gioco dell'esistenza sia realizzato dentro strutture che consentano efficacemente a tutti di essere "signori".
    La creazione di strutture per la vita di tutti (e dei più poveri, soprattutto) esige che scompaiano dal mondo gli atteggiamenti, i rapporti e le strutture di divisione e di sopraffazione.
    Il riferimento alla vita chiama in causa, per ragioni di verità, il volto di Dio.
    Chi vive in Dio è nella vita; chi lo ignora, chi lo teme, chi lo pensa un tiranno bizzarro, è nella morte. Nel nome della verità dell'uomo che intende servire e ricostruire, il credente si impegna a restituire a ciascuno libertà e responsabilità in strutture più umane, proclamando a voce alta il Dio di Gesù e sollecitando esplicitamente ad un incontro personale con lui. Nello stesso tempo e nello stesso gesto, ricostruisce nell'autenticità quel volto di Dio che spesso anche i cristiani hanno deturpato (Gaudium et spes 19). Per questo si impegna a sradicare ogni forma di paura e di irresponsabilità nei suoi confronti e ogni tipo di idolatria: solo in questa spazio liberato è possibile poi far crescere adeguati rapporti affettivi e operativi.

    La croce per la vita

    Tra promozione della vita e riconoscimento di Dio c'è un legame molto stretto. Romperlo o svuotarlo ci riporta nel regno triste della morte, dove dominano l'angoscia e la paura o dove l'impegno dell'uomo diventa arrogante e violento.
    Gesù descrive tutto questo e lo stile di esistenza che ne consegue con l'invito ad assumere l'atteggiamento del "servo": "Quando avete fatto tutto quello che vi è stato comandato, dite: Siamo soltanto servitori. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare" (Lc 17, 10).
    L'invito dell'evangelo rappresenta un punto di riferimento qualificante per una costruzione della vita e della speranza nella logica del regno di Dio.
    Chi vuole la vita, si pone come Gesù al servizio della vita, con la coscienza che la vita è il grande dono di Dio. Richiede fatica e disponibilità. Richiede capacità di decentrarsi sugli altri, facendosi attenti ai loro bisogni e alle loro richieste. Pone soprattutto in primo piano l'esigenza di "dare la vita" perché la vita sia piena e abbondante per tutti.
    Il primo grande servitore è perciò Gesù di Nazareth. Nella fatica della croce ha imbandito la festa della vita, perché tutti - e soprattutto i più poveri - possano essere in festa. La sua esistenza è stata il servizio totale per la festa di tutti.
    Per questo, il credente lotta per la vita e resiste alla morte in uno stile che risulta spesso radicalmente opposto a quello corrente.
    Nella cultura che ogni giorno respiriamo, il possesso contempla la necessità di conquistare, di arraffare, di tenere ben strette le cose. Possiede la vita chi se la tiene stretta, come un tesoro prezioso. Magari la nasconde sotto terra, per paura dei ladri, come ha fatto il servo sciocco della parabola dei talenti (Mt 25, 14-28).
    Nel progetto di Gesù, possiede invece la vita chi la sa donare, chi la butta per amore: come il chicco di grano che diventa vivo solo quando muore (Gv 12, 24; cf anche Mt 16, 25).
    Perdere per condividere diventa la condizione per assicurare più intensamente il possesso. Il distacco non è l'atteggiamento manicheo di chi disprezza tutto per un principio superiore. Distacco vuol dire invece consapevolezza crescente di una solidarietà che diventa responsabilità. Le cose sono per la vita di tutti. E tutti hanno il diritto di goderne, soprattutto hanno questo diritto coloro a cui sono sottratte più violentemente e ingiustamente.
    Il povero, l'essere-di-bisogno, è la ragione del nostro distacco. Ci priviamo delle cose, giorno dopo giorno, proprio mentre le possediamo gioiosamente, per permettere ad altri di goderne un po'.

    L'impossibile diventa possibile

    Il terzo criterio sottolinea un'altra preoccupazione importante per dire in modo concreto quella "logica da regno di Dio" in cui siamo chiamati a realizzare la causa della vita.
    Ci sono dei cristiani che hanno bisogno di riconoscersi, distinguendosi e separandosi dagli altri. Cercano una loro identità attraverso una chiara e definita preoccupazione di "differenza": per stile di vita, per scelte di fondo, per orientamenti concreti. Anche nell'impegno per la vita cercano a tutti i costi di fare cose diverse dagli altri. Diventano persino gelosi quando avvertono che l'impegno sembra oltrepassare i confini del loro mondo.
    La meditazione dell'evangelo (si veda, per esempio, Mc 9, 38-40) sembra sollecitare invece ad una compagnia, sincera e convinta, con tutti gli uomini che amano la vita e la vogliono promuovere seriamente, anche se non riescono ancora a farlo nel nome di Gesù.
    Questo non giustifica certamente l'assurdo di una convergenza indifferenziata, assumendo magari il "buon senso comune" a regola dell'agire politico.
    La compagnia del credente con tutti gli uomini nella fatica di costruire vita e speranza, resta sempre tutta originale. La sua esperienza di fede scaturisce dalla testimonianza della croce e da una speranza che va oltre ogni umana sapienza. E questo lo costringe presto ad assumere atteggiamenti, a dire parole e a fare gesti che sono solo suoi, che non riesce più a capire e a condividere chi viaggia solo sull'onda delle logiche correnti.
    Non è facile dire quali siano questi atteggiamenti che costringono il credente alla solitudine nella compagnia. Certamente colpisce una pagina del Vangelo come questa: "Quando arrivarono in mezzo alla gente, un uomo si avvicinò a Gesù, si mise in ginocchio davanti a lui e disse: Signore, abbi pietà di mio figlio. È epilettico e quando ha una crisi spesso cade nel fuoco e nell'acqua. L'ho fatto vedere ai tuoi discepoli, ma non sono riusciti a guarirlo. Allora Gesù rispose: Gente malvagia e senza fede! Fino a quando dovrò restare con voi? Per quanto tempo dovrò sopportarvi? Portatemi qui il ragazzo. Gesù minacciò lo spirito maligno: quello uscì dal ragazzo, e da quel momento il ragazzo fu guarito.
    Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù, lo presero in disparte e gli domandarono: Perché noi non siamo stati capaci di cacciare quello spirito maligno?
    Gesù rispose: Perché non avete fede. Se avrete tanta fede quanto un granello di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, e il monte si sposterà. Niente sarà impossibile per voi" (Mt 17, 14-20).
    C'è di mezzo la vita: quel povero ragazzo ammalato è come se fosse morto.
    Gesù si irrita con i suoi discepoli perché li vede impotenti e rassegnati di fronte alla morte. Non sopporta la vittoria della morte sulla vita.
    Riconosce che l'impresa non è certo facile. Per questo chiede di immergere il problema nel mistero grande di Dio. Qui l'impossibile diventa subito possibile.

    E la vita trionfa.

    Gesù non l'ha solo detto e fatto per gli altri. Ha creduto alla vittoria della vita e della libertà, nel nome del Padre, anche quando la morte si è affacciata violenta nella sua esistenza. Come tutti noi, ho sofferto e pianto. Poi ha gridato tutta la sua fede. E ha vinto la morte, definitivamente e per tutti noi.
    L'impossibile è diventato possibile per lui, per tanti amici suoi, per noi, perché hanno creduto nella vita e hanno costruito, nel piccolo, i segni della grande promessa.
    Questo è un aspetto qualificante: l'impegno di far diventare concretamente possibile ciò che il buon senso definisce come impossibile è un'impresa che chiama in causa la fede. Il credente si impegna per la vita e contro la morte, immergendo la sua passione in quella soglia profonda dell'esistenza dove si affaccia il mistero santo di Dio. Lì trova ragioni e orientamenti per lo stile della sua prassi.
    Se concepiamo Dio in chiave miracolistica, come un essere capace di modificare le situazioni umane, con interventi diretti e puntuali, che aggiungono energia vitale allo sforzo dell'uomo o suppliscono alle sue carenze, allora si trova sicuramente da solo a gridare la speranza, magari nel nome di una provvidenza stranamente faccendona.
    Chi invece prende sul serio l'evento salvifico della creazione, dalla prospettiva dell'incarnazione, concepisce l'azione di Dio come fondante la realtà creata, in modo continuo e costante, senza per questo sostituirsi alle sue dinamiche. Dio non opera nel mondo "accanto" alle sue creature; è invece il fondamento trascendente di ogni nostro impegno.
    L'esperienza autentica del mistero non allontana dalla compagnia sincera con tutti. Sollecita ad un coraggio più grande, ad una fantasia più acuta, alla ricerca di interventi più puntuali e raffinati, proprio a partire dal mistero contemplato e vissuto.

    QUALE IMPEGNO PER LA PROMOZIONE DELLA VITA

    I punti di riferimento su cui mi sono soffermato hanno sottolineato un dato qualificante per definire la qualità cristiana dell'impegno per la vita: la passione per il regno.
    Su questo tema dobbiamo continuare a riflettere. Il confronto con il regno non serve solo a motivare l'esigenza e la qualità di una spiritualità di servizio. Ci aiuta anche a comprendere come possiamo vivere concretamente la nostra vita quotidiana da uomini spirituali, capaci di ritrovare un principio di riconciliazione interiore tra le differenti attività che la frammentano.

    Dalla parte del regno di Dio

    Viviamo da uomini spirituali perché accogliamo il progetto di Dio sulla nostra esistenza, nell'obbedienza della fede, e ci impegniamo a realizzarlo quotidianamente in libertà e responsabilità.
    Non lo facciamo mai in modo diretto e immediato. Rispondiamo a Dio che ci chiama ponendo segni che rivelano e nascondono una decisione più radicale, che continua a restare misteriosa.
    Questo è pacifico oggi, nella sensibilità ecclesiale più matura.
    Il problema è un altro: di merito. Quali gesti esprimono adeguatamente la nostra risposta a Dio che ci chiama?
    Se poniamo la prospettiva del regno di Dio al centro della nostra esistenza cristiana, scopriamo un dato importante.
    L'unica passione per il regno è, nello stesso tempo, accoglienza del dono e offerta del proprio impegno. Celebrando il dono, riconosciamo che tutto è da Dio: anche la nostra decisione di accoglierlo. Giocandoci nella fatica quotidiana, riconosciamo la necessità di impegnare la nostra esistenza per la realizzazione del regno di Dio nella storia.
    Nella vita del cristiano ci sono dei gesti tutti orientati a celebrare il dono ricevuto; e altri totalmente dalla parte dell'impegno attivo.
    I primi sono costituiti dai momenti in cui il cristiano si sottrae al ritmo normale di una vita operosa e si immerge nella preghiera e nelle celebrazioni liturgiche, che fanno pregustare nella speranza il regno promesso.
    Attraverso questi gesti il cristiano esprime la sua risposta a Dio mettendo l'accento più direttamente sulla radicalità e totale gratuità del dono. La sua realizzazione nel tempo è confessata tutta dalla parte di Dio; per questo la passione di chi vuole il regno di Dio si manifesta in una contemplazione gratuita e festosa.
    Quando il cristiano si immerge nella fatica e nella lotta, costruendo vita e speranza con il sudore della sua fronte, egli esprime invece direttamente la responsabilità dell'uomo nella costruzione del regno di Dio.
    La distinzione tra i momenti celebrativi e quelli della prassi operosa è importante. Ci aiuta a cogliere come la stessa passione per il regno di Dio non può esaurirsi solo in alcuni orientamenti. Ci aiuta anche a costatare che i diversi gesti vanno considerati in rapporto all'unica fondamentale passione. Esprimono la ricchezza dell'evento e un modo concreto e specifico di accoglierlo. L'uomo spirituale non esclude la preghiera dalla sua vita solo perché ci sono problemi gravissimi da affrontare e non può bruciare energie in cose che sembrano inutili ed inefficaci. Neppure però si limita ad invocare la potenza di Dio, chiedendo a lui di farsi carico dei poveri del mondo. Non contempla solamente l'amore di Dio in azione; ma gioca fattivamente la fatica della sua intelligenza e della sua operosità.
    La distinzione ricorda anche un altro dato qualificante: i momenti celebrativi e quelli operativi non sono la stessa cosa, anche se sono ugualmente importanti per l'esistenza cristiana.
    I modelli tradizionali di spiritualità tentavano una strana assimilazione tra celebrazioni e azioni. "Il lavoro è preghiera", diceva il cristiano impegnato nella fatica quotidiana, che non aveva molto tempo per pregare; "la preghiera è già un grosso ed efficace impegno politico", assicurava il monaco che aveva scelto di fuggire dalla mischia delle responsabilità dirette.
    Mi sembra importante, al contrario, riconoscere la specificità e l'autonomia dei differenti gesti. Il lavoro è e resta lavoro; la preghiera è e resta preghiera. Ogni gesto ha le sue logiche, le sue strutture, il suo linguaggio. Esprime la stessa passione per il regno secondo modalità specifiche. Per questo ha una sua dignità fondamentale. Non le deriva dalla imitazione forzata del gesto opposto; ma dalla autenticità con cui viene vissuta.
    Le modalità di risposta sono differenti, perché non possiamo immaginare una esistenza umana fatta di gesti tutti eguali, tutti della medesima intensità.
    Il cristiano assume contemporaneamente le due esigenze e ripensa con coraggio la qualità dell'una e dell'altra dalla prospettiva, inquietante e normativa, del regno di Dio e in coerenza con la sua collocazione carismatica.
    Per sostenere una ricerca di certo non facile, attingendo dal vissuto di tanti credenti impegnati nella lotta quotidiana contro la morte, propongo alcune modalità di questo difficile, urgente ripensamento.

    Azioni diverse per la promozione della vita

    Incomincio da quelle che ho chiamato le diverse prassi operose, giocate in responsabilità e compagnia.
    Come realizzarle?
    Non pretendo assolutamente di insegnare cosa ciascuno deve fare e non ho nessuna intenzione di scendere a quel concreto operativo che dobbiamo imparare a progettare, sulla variabile della nostra differente collocazione carismatica, in situazione e in quella compagnia sull'amore alla vita di cui ho già detto.
    Suggerisco soltanto, come esempio, tre situazioni diverse di morte, che chiedono specifiche direzioni di intervento.
    Nelle prime due, il cristiano afferma operosamente che l'impossibile diventa possibile, nel nome e nella potenza di Dio, perché cerca competenza e fantasia, in compagnia con tutti.
    Nella terza, lo afferma nella solitudine della croce del suo Signore.

    Impegno per la vita di fronte a responsabilità precise

    Esistono situazioni di male e di morte che dipendono chiaramente dalla malvagità degli uomini e dalla violenza esercitata dalle strutture che essi hanno costruito.
    In questi casi, stare dalla parte della vita significa conversione e lotta. Per affermare la vita contro la morte, dobbiamo coraggiosamente lottare contro tutti quelli che fanno della morte la loro bandiera. Non riusciamo però ad essere giudici imparziali, perché sappiamo di essere immersi in una solidarietà così profonda che quando chiamiamo per nome i responsabili di questi tradimenti, siamo sempre costretti a pronunciare, almeno sottovoce, anche il nostro nome. Dobbiamo perciò assicurare una continua conversione, personale e collettiva. Solo uomini fatti nuovi, in una trasformazione radicale, possono nella verità impegnarsi per la vittoria della vita.
    Lotta e conversione si esprimono in una vicinanza amorevole e appassionata con chi soffre ed è oppresso. In questo gesto di inesauribile libertà, il cristiano testimonia che ogni uomo è capace di giocare tutto di sé per la sua vita, se è restituito alla gioia di vivere e al coraggio di sperare.

    Impegno per la vita in situazioni di complessità

    Ci sono poi delle situazioni di male e di morte in cui riesce difficile identificare le responsabilità o appare complicato programmare gli interventi necessari. Mille segnali inducano a cogliere innegabili responsabilità. Gesti e voci coraggiose fanno intravedere vie di uscita. Resta però l'impressione di ritrovarsi come in un labirinto intricato. Le responsabilità sfumano come nebbie al sole e gli interventi sono sempre rimandati, per ragioni superiori. In questi casi stare dalla parte della vita richiede al cristiano il coraggio delle previsioni a lungo termine e la tenacia che sollecita alle inversioni di rotta, competenza e fantasia per progettare l'inedito, a vantaggio, una buona volta, di coloro a cui è stato sempre sottratta questa possibilità.
    A questo livello, l'impegno per la vita risulta come una scommessa impegnata: affonda sulla serietà e competenza dell'impegno, ma procede sul rischio che le cose possono cambiare, se tutti ci mettiamo a cercare alternative.
    Chi confessa Gesù come il Signore vive, in questa trama complessa, la sua esperienza di fede. È lucido davanti alle situazioni di morte, per un appassionato amore alla vita. Lotta per superarle, fino a perdere la propria vita.
    Pone gesti concreti, anche se piccoli e incerti. Crede intensamente. Per questo agisce, inventa, trasgredisce, spera contro ogni speranza. E non si arrende.
    Un po' alla volta, quello che sembrava impossibile nella logica corrente diventa davvero esperienza gioiosa e diffusa.

    Impegno per la vita di fronte al mistero del dolore e della morte

    Esistono situazioni di male e di morte le cui responsabilità non dipendono da nessuna cattiva volontà. Sono il limite invalicabile della nostra esistenza: siamo consegnati inesorabilmente a questa morte proprio perché siamo immersi nella vita.
    In questo caso, di fronte al male che appare ineliminabile dalla esistenza delle singole persone, il cristiano testimonia nella sua speranza un progetto di salvezza che è vita, perché è libertà di portare questo male, senza esserne schiacciati, in piena solidarietà con la croce di Gesù. Come Gesù, abbandonato dagli amici nella solitudine dell'orto degli ulivi, oppresso dalle feroci prospettive che si addensano sul suo capo, soffre la disperazione del limite invalicabile in cui è prigioniera la sua esistenza. Ma guarda avanti, verso la luce senza tramonto.

    LE PRATICHE RELIGIOSE IN UNA SPIRITUALITÀ DI «SERVIZIO RESPONSABILE»

    Dalla prospettiva del regno di Dio è possibile anche comprendere il significato delle pratiche religiose e il loro rapporto con l'impegno promozionale, proprio in ordine alla risposta personale a Dio.
    Come ho già ricordato, il cristiano possiede esperienze, tempi e gesti che sembrano sottratti al duro conflitto che attraversa la vita: la preghiera, le celebrazioni liturgiche e sacramentali, la meditazione della Parola di Dio, l'esperienza della comunione ecclesiale.
    Non possono essere vissuti come l'oasi felice dove rifugiarsi quando fuori soffia impetuoso il vento della crisi. Ma neppure li possiamo ridurre a momenti di progettazione politica né a sorgenti a cui attingere ispirazione e coraggio per le nostre imprese rivoluzionarie. Quando l'abbiamo fatto negli anni passati... ne abbiamo sperimentato tutto il fallimento.
    Vanno ripensati in una spiritualità di servizio responsabile, in profonda sintonia con gli altri gesti della nostra vita credente, per vivere da cristiani "riconciliati dentro".
    Ho l'impressione che questo sia uno dei problemi più urgenti, allo stato attuale delle ricerche sulla spiritualità cristiana.

    Pregare e celebrare da uomo impegnato

    Una prima esigenza va affermata forte.
    Il cristiano ha il diritto di essere aiutato a pregare da uomo impegnato nella storia, come, di fatto, la gente della contemplazione e della preghiera ha impostato un modo di lavorare adeguato alla propria scelta di vita.
    Il cristiano che gioca la sua giornata nel lavoro, ha diritto di pregare come persona impegnata nel lavoro e non come un "monaco di formato ridotto".
    Troppo spesso, invece, le celebrazioni sono pensate e progettate da monaci e sono imposte di peso sui cristiani che sentono invece la responsabilità di esprimere la loro decisione per il Dio di Gesù Cristo nella prassi liberatrice per l'uomo.
    Non è questione prima di tutto di dosaggio o di quantità. In gioco c'è invece un ripensamento profondo sul piano della qualità: dell'intonazione, dello stile, del ritmo, del contenuto stesso dell'atto liturgico. Questo comporta un tipo speciale di preghiera, più vibrante della sua quotidianità, più vicino alla sua responsabilità, contemporaneo alla sua ricerca.

    Una ipotesi: la festa del futuro nel tempo della necessità

    Le modalità concrete vanno cercate e costruite, con coraggio e fantasia, nella libertà di chi crede alla vita e al suo Signore.
    Nel breve cammino della spiritualità giovanile salesiana qualcosa sta germinando, proprio in questa direzione.
    Lo ricordo, per dare voce ad un vissuto che rappresenta ormai una felice esperienza.
    Le celebrazioni liturgiche sono una festa: il ricordo del passato e un frammento di futuro tra le pieghe del presente.
    Per goderle e cercarle con l'ansia gioiosa con cui molti cristiani le hanno vissuti, dobbiamo riscoprire la festa.
    Nella festa, quella riconquistata, il passato è rievocato come ragione festosa. Non è il greve condizionamento che pesa sul presente; ma la trama degli avvenimenti che gli danno senso.
    Viene anche anticipato il futuro. La festa è scoperta gratuita e entusiasta dei segni della novità anche tra le pieghe tristi del presente. Per questo è una grande esperienza trasformatrice. Aiuta a spezzare le catene del presente, senza fuggirlo. È un piccolo gesto di libertà, che sa giocare con il tempo della necessità e sa anticipare il nuovo sognato: il regno della convivialità, della libertà, della collaborazione, della speranza, della condivisione.
    Per i credenti, le celebrazioni liturgiche sono la grande festa del presente tra passato e futuro, il tempo della festa tra memoria e profezia: il tempo del futuro dentro i segni della necessità, tanto efficace e potente da generare vita nuova.
    Memoria solenne ed efficace del passato, riscrivono nell'oggi i grandi eventi della nostra salvezza. Restituiscono così il presente alla sua verità per la forza degli eventi. E immergono nel futuro la nostra piena condivisione al presente: in quel frammento del nostro tempo che è tutto dalla parte del dono insperato e inatteso.
    Le celebrazioni liturgiche sono la festa del passato e del futuro, che ci dà il diritto alla festa nel presente.
    Contempliamo il tempo, fino a toccarne le soglie più profonde. In questa discesa verso la sua verità, siamo sollecitati a restare uomini della libertà e della festa, anche quando siamo segnati dalla sofferenza, della lotta e dalla croce.
    Impariamo così a cantare i canti del Signore anche in terra straniera. Riusciamo a cantarli, in una convivialità nutrita di speranza, in questa nostra terra.
    Cantando i canti del Signore in terra straniera, la riscopriamo la nostra terra, provvisoria e precaria, ma l'unica terra di tutti.
    Cantando i canti del Signore, la "terra straniera" diventa la nostra terra, proprio mentre sogniamo, cantando, la casa del Padre.

    SELEZIONARE GLI IMPEGNI O QUALIFICARE OGNI IMPEGNO?

    Nel grande fervore politico degli anni della contestazione, molti giovani cristiani si sono posti il problema della scelta professionale.
    In genere gli sbocchi erano selezionati in base alla presunta possibilità di dare esplicita risonanza politica al proprio futuro professionale. Così, alcuni mestieri erano facilmente demonizzati; altri erano caricati di forte risonanza progettuale.
    Come capita spesso, l'orientamento è servito più sul piano della creazione di una coscienza che su quello della prassi concreta.
    Oggi abbiamo superato le alternative rigide, anche perché le possibilità reali sono davvero poche nell'ambito del lavoro.
    Non credo però che sia corretto azzerare il problema con qualche battuta moralistica.
    Il progetto di vita spirituale che ho ritagliato convince, chi lo condivide, ad assumere nel ritmo concreto della vita quotidiana (e, di conseguenza, in ogni impegno professionale) uno stile preciso di esistenza credente: mostrare, con i fatti, che il trionfo della vita sulla morte, impossibile nelle logiche dominanti, diventa progressivamente possibile nella logica del Crocifisso risorto.
    Le vie che rendono praticabile concretamente questo impegno sono tante. Ed è inutile cercare la migliore o quella risolutiva in assoluto.
    In questi anni abbiamo maturato una prospettiva come qualificante: l'educazione.
    Essa può diventare la qualità operosa che percorre tutta la spiritualità, come modalità salesiana per realizzare l'impegno, in ogni profilo professionale. Si colloca con un suo progetto nella situazione di crisi drammatica e complessa in cui viviamo. Privilegiarla significa "scommettere" sulla sua incidenza e sulla sua capacità di ritrovare la globalità dal frammento.
    In questa logica, il credente, che vive una spiritualità impegnata al servizio della causa di Dio nella causa dell'uomo, fa dell'educazione la sua passione, lo stile della sua presenza, lo strumento privilegiato della sua azione promozionale. Attorno all'educazione organizza le sue risorse. Nel nome dell'educazione chiede a tutti gli uomini di buona volontà e alle istituzioni pubbliche un impegno di promozione dell'uomo e di trasformazione politica e culturale.
    Scegliendo di giocare la sua speranza nell'educazione, sa di essere fedele al suo Signore. Crede all'efficacia dei mezzi poveri per la rigenerazione personale e collettiva e crede all'uomo come principio di rigenerazione.


    T e r z a
    p a g i n A


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