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    Verso una nuova evangelizzazione: problemi e prospettive



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1990-02-15)

     


    Quello della "nuova" evangelizzazione è un tema oggi ricorrente. Lanciato con forza, in differenti contesti, da Giovanni Paolo II, è stato ripreso e assunto con gioia e con coraggio da molte istituzioni e comunità ecclesiali.
    I Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice hanno deciso di dedicare al problema i loro prossimi Capitoli generali.
    Viene spontaneo chiedersi: il qualificativo "nuova" aggiunge qualcosa ad una esigenza che ha sempre trovato concordi e impegnati i cristiani di tutti i tempi?
    Suggerisco una risposta all'interrogativo, con alcune riflessioni che privilegiano l'ambito metodologico.

    PERCHÉ UNA "NUOVA" EVANGELIZZAZIONE

    Propongo prima di tutto alcune rapide costatazioni sul contesto al cui interno si pone oggi il problema. Richiamano informazioni già molto note, con l'unica preoccupazione di motivare l'esigenza di una "nuova evangelizzazione" e mostrare le direzioni in cui viene generalmente perseguita.

    Segni di risveglio religioso

    In questi ultimi anni si sono moltiplicate le previsioni sulla fine per insignificanza dell'esperienza religiosa, nel nostro mondo occidentale. E, invece, sta nascendo qualcosa di nuovo: molti segnali indicano la presenza di un interessante risveglio religioso.
    Il fatto è innegabile e diffuso. Va però compreso bene: non rappresenta certamente la riedizione dei temi tradizionali dell'esistenza cristiana, ma li coinvolge sull'onda di problemi nuovi.

    La "domanda di senso" nella cultura attuale
    Dopo il tempo dell'onnipotenza ideologica e il silenzio disperato, nato sulle sue ceneri, sta risorgendo una intensa, sofferta "domanda di senso". Qualcuno la interpreta persino come esplicita "domanda religiosa", richiesta di certezze teologiche ed etiche.
    Senso significa fine, obiettivo, scopo. Quando si parla di "domanda sul senso" ci si riferisce soprattutto alla ricerca di un rapporto tra l'esistenza umana e qualcosa capace di rappresentare il suo fine totale.
    La definizione del senso si realizza in un doppio movimento. Da una parte, ogni persona ricerca un suo senso soggettivo; dall'altra, essa si misura con una razionalità costitutiva, che determina il senso oggettivo perché rimanda al fondamento del mondo e dell'uomo. Di solito, l'uomo incontra il senso oggettivo e definisce il suo senso soggettivo all'interno della "cultura" in cui vive, anche grazie alla legittimazione, fornita generalmente dalla religione.
    Per molte e differenti ragioni, riconducibili ultimativamente all'esito di quella complessità strutturale e culturale che caratterizza il nostro tempo, è entrata in crisi la circolazione collettiva del senso oggettivo della realtà: l'individuo è diventato all'improvviso il produttore autonomo del senso della sua vita, senza alcun punto di riferimento riconosciuto.

    * Fatti nuovi e inediti
    Per precisare e spiegare un po' l'affermazione ci vorrebbero lunghe e approfondite analisi. Le risparmio, anche perché ormai sono abbastanza risapute.
    Sottolineo solo l'esito della complessità sul piano dei valori e dei significati vitali, con una citazione, che dà certamente da pensare. Anche se non condividiamo la valutazione positiva che l'autore dà dei fenomeni che descrive e anche se non facciamo nostro il suo giudizio pesantemente negativo sui nostalgici dei vecchi modelli, i dati di fatto restano indiscutibili, prima delle nostre valutazioni.
    "L'immagine di una realtà ordinata razionalmente sulla base di un fondamento è solo un mito rassicurativo proprio di una umanità ancora primitiva e barbara. [...] La nostalgia di una realtà solida, unitaria, stabile e autorevole... rischia di trasformarsi continuamente in un atteggiamento nevrotico, nello sforzo di ricostruire il mondo della nostra infanzia, dove le autorità familiari erano insieme minacciose e rassicuranti. [...]
    Caduta l'idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità locali - minoranze etniche, sessuali, religiose, estetiche - che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall'idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare" (G. VATTIMO, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989, 15-17).

    * Gli esiti sulla "domanda di senso"
    In una situazione culturale come è quella appena descritta, la domanda sul senso assume connotazioni inedite. Per questo, come dicevo, non sembra corretto pensare al risveglio religioso in atto come se nulla fosse cambiato e si stesse tranquillamente ritornando ai modelli tradizionali.
    Riemerge violentemente il bisogno di fondamento, come esigenza di sopravvivenza. Molti diventano così ricercatori appassionati di quel senso che non riescono più a possedere spontaneamente. Di qui l'insieme dei fatti che accompagnano il riemergere acuto della domanda di senso. Essi rappresentano, nel loro insieme, uno dei segni più indiscutibili di risveglio religioso.
    La ricerca è però segnata da quella soggettivizzazione, che affiora ormai come componente di ogni espressione esistenziale.
    Il senso non si propone più alle persone come un dato da scoprire e da accogliere, perché residente nella struttura costitutiva della realtà. Esso è invece prodotto, momento per momento, nel frammento di vita che esprimiamo. Si passa così dal confronto con i "valori", intesi come indicatori del senso oggettivo del reale, alla ricerca di "valorizzazioni", come espressioni soggettive di quello che una persona valuta importante per sé.
    I quadri di riferimento restano di conseguenza molto soggettivizzati e i tracciati di coerenza personale risultano frammentati e incongruenti.
    Qualche volta, la soggettivizzazione dell'esperienza di senso è trascinata fino alle sue dimensioni estreme, nell'affermazione che quello del senso è solo un falso, inutile problema.

    L'offerta religiosa
    Nell'immediato dopoconcilio ha prevalso, in molte comunità ecclesiali, la scelta sofferta del silenzio. Si voleva rimeditare in profondità l'esperienza cristiana per restituirle forza e vigore dal suo interno. Qualcuno sentiva il bisogno di farsi perdonare quella saccenteria teologica che pretendeva di spiegare tutto.
    Oggi, un po' sotto la spinta della nuova e diffusa domanda sul senso e un po' sul dono del rinnovamento conciliare che ha restituito una intensa coscienza missionaria alla Chiesa, i credenti riscoprono con fierezza di avere una "buona notizia" da offrire anche in questo contesto.
    Essi non vogliono più lasciare il diritto alla parola solo a coloro che un pizzico di buon senso ridurrebbe invece al silenzio. Sanno di possedere un evangelo che è sorgente di vita. Sanno che solo nel loro Signore è possibile ottenere la vita. Per questo ritrovano la gioia dell'annuncio. E ricercano tempi e modi per realizzarlo in pienezza.
    Chi ha tentato e si mette a verificare l'esito dei suoi interventi, costata spesso quanto quello che a prima vista sembrava abbastanza facile, risulta invece complicato. Il dialogo è davvero difficile e non basta alzare il tono della voce per riattivare la comunicazione.
    Non basta di certo autoaccusarci di incompetenza o di poca fede. Una lettura attenta mette in primo piano ragioni molto più impegnative.
    L'attuale contesto sociale e culturale sembra fatto apposta per spingere la diffusa domanda di vita e la coraggiosa offerta di senso in direzioni lontane e divergenti.
    Basta confrontare l'orizzonte antropologico in cui generalmente viene espressa l'evangelizzazione, e quello che tutti sappiamo dell'attuale contesto culturale, con quella disponibilità che porta a comprendere i fatti prima di giudicarli: siamo davvero in presenza di due modi, diversi e spesso opposti, di intendere le dimensioni di fondo dell'esistenza.
    In uno, per esempio, prevale la preoccupazione dell'oggettività, il richiamo alla natura delle cose, l'appello al dato consegnato alla responsabilità personale su un'autorevolezza esterna. Nell'altro invece domina la soggettività e l'autonomia personale, il rimando alla natura delle cose è fatto soprattutto in termini di progettualità e la responsabilità è sempre l'esito di un consenso reciproco.
    Nel primo modello, la coerenza è fedeltà a decisioni maturate nel passato, i cui esiti rimbalzano come impegnativi nell'oggi. Nell'altro, la coerenza è capacità di trascendimento dell'oggi verso un futuro nuovo da inventare sulla traccia timida dell'esistente.
    Nella cultura attuale l'attenzione alla trascendenza non è spontanea e nasce, eventualmente, solo a partire dall'esperienza della quotidianità. Il cristiano tradizionale invece cercava motivazioni che lo ancorassero di più alla sua terra, consapevole come era della centralità esigente della "vita eterna".
    In questo conflitto profondo di modelli antropologici, molti di coloro che nelle nostre comunità ecclesiali sentono risuonare la parola dell'evangelizzazione hanno l'impressione di trovarsi come in un paese straniero, dove si parla una lingua sconosciuta. E così la loro ricerca di senso resta dissonante rispetto all'offerta.

    Due modalità per comprendere la "novità"

    La ritrovata passione evangelizzatrice della comunità ecclesiale e la sofferta costatazione delle difficoltà culturali che la minacciano spingono verso una "nuova" evangelizzazione.
    Sull'esigenza l'accordo è ampio e diffuso. In una situazione culturale come è la nostra, non basta di certo né il modello né il ritmo tradizionale di evangelizzazione. Qualcosa di nuovo va progettato, con coraggio e con responsabilità: l'evangelizzazione deve rinnovarsi, per tornare ad essere significativa.
    Le comunità ecclesiali si dividono invece quando cercano di definire il modo e le condizioni che fanno "nuova" l'evangelizzazione. La stessa preoccupazione e la stessa passione danno origine a risposte assai diverse.
    Le ipotesi ricorrenti, nella prassi e nei documenti, mi sembrano fondamentalmente riconducibili a due. Ripetono quelle due "anime" della Chiesa italiana che rispuntano di fronte a tutte le grosse scelte.
    Un gruppo di credenti fonda la novità soprattutto sulla riaffermazione forte e decisa dei contenuti, proclamati coraggiosamente in tutta la loro verità, così come suona e come è stata tramandata nella tradizione ecclesiale. Per fare questo con maggior incidenza e significatività, è necessario il ricompattamento dei credenti, per entrare "uniti" nella situazione attuale, denunciandone con forza i limiti, consapevoli che "solo" in Cristo (e di conseguenza nella Chiesa) c'è salvezza, soprattutto in questa situazione.
    Altri credenti invece sottolineano maggiormente il rapporto dialogico con la cultura attuale e cercano una rivisitazione dei contenuti e dei metodi, in confronto con essa. Essi ricordano che l'evangelizzazione proclama una verità che è sempre "per l'uomo": è, in qualche modo, funzionale, per essere salvifica. Viene spesso citato un coraggioso articolo di Il rinnovamento della catechesi: "La misura e il modo di questa pienezza ["la piena predicazione del messaggio cristiano", come dice il titolo del capitolo] sono variabili e relativi alle attitudini e necessità di fede dei singoli cristiani e al contesto di cultura e di vita in cui si trovano. La Chiesa ha sempre predicato quelle verità che, in un determinato contesto, possono essere integrate nel pensiero e nella vita dei vari ascoltatori, proponendole secondo quanto conviene alla situazione e al dovere di stato di ciascuno" (RdC 75).
    Questa consapevolezza sollecita alla gradualità, al dialogo e soprattutto all'accoglienza dell'esistente, alla ricerca dei frammenti positivi sparsi, per portarli a compimento e a pienezza, ripensando eventualmente la stessa esperienza credente.

    RICOMPRENDERE LA NATURA DELL'EVANGELIZZAZIONE

    Le due alternative sono serie. Hanno certamente tutte e due un'anima profonda di verità e possono produrre documenti e esperienze significative a sostegno e fondamento dei propri orientamenti.
    Rappresentano però due modelli di difficile conciliazione, perché anche le preoccupazioni apparentemente comuni sono espresse all'interno di un orizzonte antropologico e teologico molto diverso.
    Ho l'impressione che la scelta di una posizione o dell'altra sia d'obbligo, se non si vuole restare prigionieri di un pericoloso eclettismo pastorale.
    Per scegliere - in modo saggio e non sull'onda delle emozioni - dobbiamo confrontarci con alcuni punti di riferimento, che riportino il più possibile alla radice del processo. Solo a questa condizione il modello di evangelizzazione suggerito sarà "nuovo" per fedeltà alla missione della comunità ecclesiale e non perché sono cambiati i tempi.
    Cerco quindi di comprendere la natura dell'evangelizzazione con un approccio a carattere interdisciplinare, a partire da quanto la comunità ecclesiale riconosce nel mistero di Dio che si rivela in Gesù di Nazareth.
    Non ho la pretesa di risolvere tutti i problemi e neppure quella di dire le cose in modo conclusivo. Ricordando, molto modestamente, una sensibilità diffusa nella più matura coscienza ecclesiale attuale, spero di poter decidere la qualità e l'ambito del rinnovamento, con un modello capace di riformulare dalla prospettiva scelta quegli elementi un po' trascurati, che sono difesi con maggior forza nella prospettiva non scelta.

    Una comunicazione tra contenuto e relazione

    Per comprendere la natura dell'evangelizzazione, la comunità ecclesiale possiede un punto di riferimento obbligato: la meditazione di quel fondamentale evento evangelizzatore che è la Rivelazione. Confrontando i problemi di oggi con la Rivelazione, non ci rifugiamo in quel gioco linguistico strano che porta, qualche volta, a spiegare ciò che è noto dalla prospettiva di quanto è invece ignoto. Poniamo invece davanti a noi un evento collocato nel tempo e nella storia, di cui la comunità ecclesiale possiede una coscienza riflessa molto precisa.
    La Rivelazione è comunicazione: Dio parla di sé all'uomo, utilizzando il linguaggio umano e le logiche in cui si realizza, come strumento per far accedere al mistero. Lo dice in modo solenne la Dei verbum: "Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlar dell'uomo, come già il Verbo dell'Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo" (DV 13).
    L'evangelizzazione ripete la stessa struttura linguistica. Essa è comunicazione tra soggetto e soggetto: l'evangelizzatore propone qualcosa del mistero grande di Dio per la vita dell'uomo attraverso sistemi linguistici che riconosce sempre "umani" e che seleziona in base alla loro significatività.
    Anche la risposta che l'uomo dà all'appello contenuto nella evangelizzazione, ripete lo stesso schema comunicativo. La persona dice la sua decisione attraverso esperienze e parole del proprio vissuto quotidiano. Esse si portano dentro l'accoglienza di Dio come ragione decisiva della propria esistenza, o il suo rifiuto, nel gioco di una libertà che si piega o resiste.
    L'oggetto scambiato è il "contenuto" della comunicazione; il processo che porta due interlocutori a scambiarsi oggetti linguistici si definisce di solito come la "relazione comunicativa".
    Da questa prospettiva di comunicazione tra soggetto e soggetto per realizzare uno scambio di messaggi di natura simbolica, possiamo analizzare la struttura complessiva dell'evangelizzazione, alla ricerca di eventuali principi di rinnovamento.
    Purtroppo, una vecchia abitudine intellettualistica ci porta invece spesso a considerare i contenuti come più importanti o più decisivi della relazione. In questa logica, il rinnovamento si esprime prevalentemente nella rivisitazione dei contenuti.
    Gli studi attuali sulla comunicazione procedono spesso in una logica quasi opposta: privilegiano la relazione e il contesto sui contenuti. La ricerca sulla "nuova evangelizzazione" diventa così solo una questione di metodo.
    Una corretta verifica dell'evangelizzazione chiede invece di studiare i due momenti in modo interattivo.
    Provo a farlo, sottolineando quattro dimensioni complementari di quell'avvenimento linguistico che è ogni evangelizzazione.

    Rapporto tra segno e realtà
    Nella Rivelazione e nell'evangelizzazione, proprio come avviene nelle nostre conversazioni e nel ritmo quotidiano della nostra esistenza, siamo in presenza di un avvenimento a carattere simbolico. La comunità ecclesiale che lancia l'appello della evangelizzazione e il credente che offre la risposta della sua decisione di vita, non propongono direttamente la parola assoluta e ineffabile di Dio. Quello che si vede, si può controllare e manipolare è solo un segno, una povera "cifra" umana di un grande evento di salvezza e d'amore. Attraverso questo segno la comunità ecclesiale rende presente nella parola umana l'ineffabile parola di Dio e il credente esprime la sua decisione radicale nella fede, speranza e carità.
    Questo è il dato importante per misurare i limiti e i compiti di ogni processo di evangelizzazione: le parole pronunciate e i gesti compiuti non sono la realtà evangelizzata, ma soltanto suoi simboli. Essi manifestano, attraverso il gioco del simbolo, qualcosa che è diverso da quello che si ode e si costata fisicamente.
    Il dato va compreso in tutta la sua risonanza.
    Quando poniamo dei segni (diciamo una parola per ricordare delle realtà o poniamo dei gesti per sottolineare atteggiamenti interiori: il bacio, per esempio, rispetto all'amore che due persone si portano), scateniamo un'operazione complessa. In essa si intrecciano tre elementi: il significante, il significato e il referente.
    La parola o il gesto prodotto (in gergo sono chiamati il "significante") sono facilmente costatabili da tutti coloro che li osservano: la parola pronunciata viene udita o il gesto viene visto. Nel rapporto tra due persone nulla finisce qui: il gesto va interpretato e riportato al suo significato convenzionale. Parole e gesti fanno venire in mente qualcosa verso cui sono indirizzati, che evocano e rivelano, anche se non sono mai in grado di obiettivare fisicamente. La forza evocativa del significante si chiama (ancora in gergo) il suo "significato". In ogni segno c'è perciò qualcosa che si può toccare, udire, manipolare (una gesto, una cosa, una parola) ed un suo significato.
    L'insieme di significante e di significato (e cioè il segno) trascina verso il referente (l'oggetto reale che il segno ha il compito di evocare, rendendolo presente e vicino, anche se continua ad essere fisicamente assente). Quel rapido contatto viene interpretato come un "bacio" e gli osservatori costatano che le due persone che se lo scambiano, si vogliono bene.
    Si è realizzato un avvenimento linguistico: è stato prodotto un segno.
    L'evangelizzazione, come la Rivelazione, percorre la stessa struttura: comunichiamo eventi misteriosi e indicibili attraverso avvenimenti linguistici di natura simbolica.
    Quando diciamo "Dio è padre", nel significante "padre" evochiamo quel qualcosa, fisicamente assente nella parola "padre", dato dall'esperienza di paternità. Il segno "padre" (parola e esperienza di paternità: significante e significato) manifesta, rende presente simbolicamente l'oggetto reale: Dio come padre.
    La struttura simbolica è tutta giocata nel rapporto presenza-assenza, vicinanza-lontananza. Ciò che posso vedere, toccare, sentire chiama in causa e fa venire in mente qualche realtà, fisicamente assente e lontano, ma così implicata in ciò che si costata da essere, in qualche modo, presente e vicina.
    Nella struttura simbolica non possiamo quindi contrapporre presenza e assenza, come facciamo giustamente di fronte ad eventi fisici. La realtà che il simbolo evoca è nello stesso tempo presente e assente, vicina e lontana. Il segno rivela e nasconde: rende presente sulla forza dell'autocoinvolgimento personale qualcosa che continua a restare fisicamente lontano e assente.

    Quali segni?
    Non esiste un segno capace di rendere presente la realtà evocata in modo totale o esclusivo, come non esiste alcun segno capace di rivelarla in termini oggettivi. La capacità interpretativa del soggetto è chiamata in causa: per superare l'opacità del segno e raggiungere il referente attraverso esso.
    Non per nulla le parole e i gesti dell'evangelizzazione richiedono sempre un atteggiamento personale di fede.
    Il rapporto tra segno e realtà non è però un gioco assurdo, tutto sbilanciato dalla parte dell'intenzionalità soggettiva e fondato unicamente sulle convenzioni logiche. Non capita così neppure nelle conversazioni quotidiane, quando la cultura comune a due interlocutori fa da supporto. Non avviene certamente nel processo di evangelizzazione. La presenza specialissima dello Spirito di Gesù nella comunità ecclesiale garantisce che le parole pronunciate e i gesti celebrati rivelano gli eventi misteriosi di cui sono segno.
    La comunità ecclesiale proclama la sua fede in parole umane; ma le ricava in una lunga e consolidata tradizione linguistica, confortata dall'autorevolezza del suo Signore e di coloro che hanno il ministero di confermare i fratelli nell'unità e nella verità.
    Tutto questo è vero e importante. Sottrae sicuramente l'evangelizzazione da quel bisogno di rincorrere continuamente le espressioni culturali, a cui sono costretti i segni giocati unicamente sul piano della intenzionalità soggettiva.
    La costatazione non dispensa però dal confronto con la cultura, nella ricerca di quali segni possano risultare più espressivi e più trasparenti, in ogni concreto contesto, rispetto alla realtà che vogliono evocare. Il segno è sempre un fatto culturale: nasce in una cultura precisa e diventa significativo solo nel suo ambito. Esso è di natura sua relativo e mutevole, come ogni parola umana.
    La più matura tradizione ecclesiale ha sempre compreso l'evangelizzazione in un doppio convergente movimento: la "traditio" e la "redditio". A colui che chiede di vivere nella fede, la comunità propone un progetto che essa ha ricevuto. L'iniziato però risponde in pieno esercizio della sua soggettività: riconsegna quello che gli è stato offerto, dopo averlo riscritto in novità nella parola eloquente della sua esistenza, perché solo così risuona come decisione di vita e di fede, autentica e responsabile.
    L'operazione non riguarda solo la comunità ecclesiale e colui che chiede di vivere da credente. Se leggiamo il processo in prospettiva diacronica, c'è una "traditio" e una "redditio" che lega comunità a comunità nello scorrere del tempo. La comunità ecclesiale attuale "restituisce" la fede che ha ricevuto dalla tradizione, in una riespressione nuova e fedele nella stessa parola: dice gli eventi che fondano la sua fede dentro la cultura che condivide con gli uomini del suo tempo.
    I gesti e le parole diffuse nella comunicazione sono segni proprio perché rendono "presente" una realtà più profonda e nascosta, manipolabile solo attraverso le sue riproduzioni simboliche.
    Non tutti i segni possono risultare utili in ordine ad un determinato referente: sono segni comunicativi solo quelli che possiedono la capacità di evocarlo.
    Quando si utilizzano segni troppo opachi rispetto al loro referente, la comunicazione viene disturbata e, nei casi più gravi, risulta totalmente esclusa. Siamo di fronte a quella situazione tipica del nostro tempo (e di molti processi di evangelizzazione) di comunicazioni con un messaggio scarso o inesistente.
    Su questa constatazione le comunità ecclesiali si misurano oggi con la questione, spinosa e attualissima, dei segni linguistici da privilegiare nell'evangelizzazione, in un tempo di profondi cambi culturali, che determinano ormai l'emergere di nuovi modelli antropologici.

    Una comunicazione protesa verso il senso
    Esistono dei processi comunicativi la cui forza e la cui ragione è data dalla novità dell'informazione diffusa o dalla sua verità. Altri processi invece si caratterizzano e si qualificano proprio sulla pretesa di sporgere decisamente verso il senso: si protendono verso una realtà per dotarla del senso nuovo embricato nell'informazione diffusa. Per i primi, la ricerca della "sensatezza" è meno rilevante perché viene risolta su esigenze oggettive. Per i secondi invece rappresenta la categoria costitutiva.
    Dove si colloca l'evangelizzazione?
    L'evangelizzazione è proposta di senso all'esistenza umana, perché nell'evangelo che essa diffonde si offre un orientamento critico e un progetto che dà consistenza e orizzonte esattamente all'esistenza quotidiana.
    Quando dico "Dio è padre" ad una persona in crisi, piegata sotto il peso del dolore e dell'oppressione, non diffondo solo una informazione con la pretesa di dire una cosa nuova o di ripetere qualcosa di vero e importante. Faccio molto di più. Penetro nel santuario intimissimo dell'esistenza di questa persona e gli suggerisco una ragione per vivere e per sperare, nonostante la dura esperienza di morte di cui soffre. Ripeto con forza l'affermazione non perché immagino che sia "nuova" rispetto alle conoscenze dell'interlocutore; e neppure perché rappresenta un enunciato "vero". La propongo per suggerire un senso di cui costato la ricerca o l'urgenza.
    L'evangelizzazione si colloca, di natura sua, nel cuore dell'umana ricerca e produzione di senso: l'esige, la provoca, la satura. Essa non è autentica solo quando dà informazioni formalmente vere né è urgente solo perché dà notizie altrimenti ignote; è autentica quando viene sperimentata come "sensata".
    Tutto questo pone un nuovo problema di comunicazione.
    La produzione di senso per la propria esistenza è sempre un fatto strettamente personale: ogni uomo elabora un suo sistema di significati giocando in questo la sua autonoma capacità progettuale. La costatazione è sempre stata vera, anche se alcuni modelli culturali rendevano più facilmente disponibili ad accogliere offerte di senso, maturate all'esterno della propria esperienza. Oggi invece l'autonomia è vissuta come un'esigenza inalienabile: molto difficilmente siamo disposti ad accogliere offerte di senso che provengono dall'esterno.
    Con questa sensibilità si scontra l'evangelizzazione. Essa propone eventi dotati di uno spessore di verità oggettiva, che non possono essere ridimensionati a piacimento né possono essere filtrati attraverso le categorie della soggettività. Nasce, per forza di cose, un conflitto tra la pretesa di autonomia e la forza provocante dell'evangelo, che sconvolge questa pretesa, riportando verso un senso che opera come il fondamento e la critica di ogni personale valutazione.
    Il conflitto non può essere risolto, inventando uno spazio protetto in cui i due contendenti ridimensionano le loro esigenze. L'uomo non può rinunciare alla propria autonomia, perché l'evangelo cerca libertà e responsabilità e può essere accolto e vissuto in pienezza solo da chi è signore della propria esistenza. L'evangelizzazione non può passare sulla testa della gente, come se non riguardasse la loro vita quotidiana e parlasse solo di eventi astratti e remoti.
    Purtroppo non abbiamo alle spalle esperienze troppo rassicuranti, a cui fare appello per affrontare questo nodo inquietante.
    Per molto tempo, l'evangelizzazione ha privilegiato la prospettiva di una oggettività fredda e sicura. La logica è quella nota: il senso della vita è già preciso e ben confezionato; basta accoglierlo, e si diventa persone "sensate"; lo si può certo anche rifiutare in un gioco suicida della propria libertà, ma, in questo caso, si resta inesorabilmente persone "insensate". È significativa la testimonianza del libro della Sapienza: "Stolti per natura erano gli uomini che vivevano nell'ignoranza di Dio" (Sap 13, 1).
    Gli ultimi anni sono stati segnati da una logica quasi opposta. La forza interpellante e sconvolgente dell'evangelo è stata stemperata e addomesticata, fino a ridurre Gesù Cristo ad un vecchio saggio, che traspira perbenismo da tutti i pori o ad assumerlo come il prototipo delle nostre mode contestative. Svuotato della sua forza profetica, il vangelo si è spento per insignificanza e la speranza cristiana, smontata di radicalità, ci ha lasciato con le nostre angosce.
    L'alternativa è per buona parte da inventare, per restituire all'evangelizzazione la capacità di rilettura, interpretazione e riespressione dell'esistenza quotidiana, nel segno del Crocifisso risorto.

    La funzione del contesto
    La comunicazione è un atto che "esiste" collocandosi in un preciso qui-ora del tempo e dello spazio.
    Nell'atto del comunicare s'incrociano le componenti storiche (la dimensione diacronica) e quelle situazionali (la dimensione sincronica). Le prime producono la ricchezza dei diversi segni linguistici, perché in essi si è accumulata la storia dell'uomo, che il segno concentra ed evoca. Così, quando dico "volume" connoto molti e diversi significati e quel mondo culturale che ciascuno di essi produce. Le seconde, invece, creando il contesto al segno utilizzato, limitano la sua ricchezza e l'orientano verso un preciso significato tra i tanti possibili. Così, per ritornare all'esempio, se sviluppo un tema geometrico, la parola "volume" sarà interpretata come "la misura di un corpo nello spazio"; se invece il tema è quello della biblioteca, la parola "volume" sarà interpretata come "libro".
    Il sovraccarico di senso che ogni simbolo possiede e la pluralità di possibili referenti che può evocare, vengono orientati e precisati dal contesto in cui il segno è pronunciato.
    Nel caso dell'evangelizzazione, si richiedono istituzioni capaci di farsi luogo di produzione di un sistema di simboli (un "linguaggio"), che articoli in unità la soggettività della persona credente, l'oggettività dell'evento evangelizzato e il tessuto anche istituzionale della comunità ecclesiale che di quest'evento è testimone nella sua storia, cultura e vita.
    Quest'operazione va realizzata innescando processi d'identificazione. Chiamo "identificazione" il processo attraverso cui una persona, anche senza esserne chiaramente consapevole, giunge a far proprie qualità, caratteristiche e valori, percepiti in un'altra persona o in una istituzione formativa, riconosciute come importanti e autorevoli. Attraverso l'identificazione la persona riesce a comprendere il senso autentico delle proposte, nonostante il conflitto dei possibili significati e le valuta affettivamente interessanti.
    Il contesto funziona quindi da sostegno prezioso per l'evangelizzazione.
    Anche su questo fronte la cultura in cui viviamo pone problemi seri.
    In un tempo di complessità e di pluralismo la pluralità di appartenenze viene vissuta da molte persone come perdita, riconosciuta e condivisa, di ogni principio di riferimento normativo. L'appartenenza diventa debole e molto soggettivizzata, in un contesto che pone la necessità di spartire l'esistenza tra appartenenze plurime e conflittuali.

    Tra contenuto e metodo: quale verità?

    Ho descritto il processo di evangelizzazione cercando soprattutto di mostrare alcune delle esigenze che scaturiscono dalla sua natura di comunicazione a carattere simbolico.
    Queste costatazioni sono già molto importanti: aiutano a superare ogni visione schematica della verità; non ci permettono più di immaginare il rapporto tra evento e parole in termini fondamentalistici; introducono quel prezioso "sospetto ermeneutico" che porta a distinguere tra il contenuto della fede e le sue espressioni linguistiche. Indicano, insomma, la qualità di una evangelizzazione che vuole rinnovarsi.
    Non bastano però da sole per deciderne il tracciato. Lo sappiamo e l'ho già ricordato in diversi contesti: l'esperienza cristiana ha una sua consistenza veritativa; e la comunità ecclesiale è consapevole di amare e servire l'uomo solo nella fedeltà incondizionata a questo progetto che le viene da lontano.
    L'evangelizzazione è chiamata quindi a misurarsi con le esigenze della verità: nessuna ricerca di "nuova" evangelizzazione può essere condotta a scapito della verità.
    Il richiamo alla verità sta a cuore certamente a quei credenti che cercano il confronto con la cultura di oggi, con la stessa intensità con cui lo difendono coloro che propongono invece un contatto duro e critico.
    Il nodo del problema è un altro, molto più profondo e radicale: quando è "vera" l'informazione lanciata nell'evangelizzazione?
    La ricomprensione del processo di evangelizzazione dalla prospettiva di quello che conosciamo dell'evento della Rivelazione, ci suggerisce indicazioni preziose anche al riguardo di questo nuovo, inquietante interrogativo.

    Una struttura simbolica: di che tipo?
    Il problema della "verità" va compreso nella prospettiva del dato di fondo: la struttura simbolica dell'evangelizzazione.
    Il rapporto tra segno ed evento si può realizzare secondo modalità differenti. Semplificando un po' le cose, si possono immaginare modelli comunicativi a carattere denotativo e modelli a carattere evocativo.
    Mi spiego con un esempio.
    Chi cerca un libro in una grande biblioteca, può lavorare sullo schedario o può ottenere l'autorizzazione di accedere alla sala-deposito.
    Lavorando nello schedario, rintraccio la scheda di collocazione del libro desiderato. Essa mi dà informazioni preziose per reperire il libro. Non ho ancora il libro tra le mani. Ma sono in grado di arrivare sicuramente ad esso.
    In questo caso, il rapporto tra segno (la scheda) e referente (il libro) è molto stretto e ben determinato. La scheda informa in modo denotativo rispetto al libro.
    La scheda deve contenere informazioni esatte, identiche tutte le volte che ricorre nello schedario.
    Chi invece accede nella sala-deposito, si muove con alcune informazioni generali. Conosce la pianta della biblioteca e conosce la logica di sistemazione dei libri. Forse sa anche in quale scaffale è collocato il libro desiderato.
    Cercandolo, si imbatte in altri libri. Li consulta frettolosamente e forse arriva a concludere che ce ne sono di più aggiornati rispetto a quello richiesto o si convince, a ragion veduta, della scelta prevista.
    L'informazione conduce al libro, in un gioco raffinato di fantasia e di responsabilità personale. Si tratta di un segno a carattere evocativo. Informa, evocando e responsabilizzando.
    L'evangelizzazione si realizza in una struttura simbolica. Di quale ordine? Evangelizzando, la comunità ecclesiale lancia segnali univoci, che conducono deterministicamente all'oggetto, oppure utilizza di fatto solo dei segni a carattere evocativo?
    I contenuti dell'evangelizzazione sono "veri" solo quando "denotano" l'evento? Oppure possono essere "veri" anche quando lo "evocano"?
    Non mi chiedo quale ipotesi sia la migliore. Mi chiedo, prima di tutto, quale sia quella più vicina al progetto di Dio, riconosciuto in Gesù.

    Simboli evocativi e simboli denotativi
    Le prime volte che mi sono posto in modo riflesso l'interrogativo, sono rimasto profondamente inquietato.
    L'ipotesi evocativa mi affascinava, anche come modalità matura di vivere nella fede. La decisione ultima che fa vivere di fede, interpretando la chiamata alla fede contenuta nella parola dell'evangelizzazione, è sempre infatti un atto di coinvolgimento libero e responsabile della persona: l'esperienza di un credente che ha sperimentato l'espansione di senso della fede nella storia umana, nella catena ininterrotta di altre esperienze credenti, che conduce fino i discepoli di Gesù di Nazareth.
    Eppure non riuscivo a concludere in termini tranquilli. Una lunga tradizione ecclesiale sembra spingere in altre direzioni. Mi faceva anche paura il gioco scatenato della soggettività, a cui sembra aprire la scelta di privilegiare i modelli evocativi.
    Per capirci un po' di più, sono andato all'esperienza fondante della nostra esistenza cristiana: i vangeli e le lettere apostoliche.

    La redazione dei Vangeli
    Ho cercato come evangelizzare, alla scuola di coloro che hanno evangelizzato il Signore Gesù e sollecitato a vivere nella sua sequela.
    Ho costatato un fatto di estremo interesse pastorale: i vangeli e le testimonianze apostoliche non sono mai il resoconto materiale degli avvenimenti della vita di Gesù di Nazareth, di cui i discepoli sono stati testimoni; essi sono invece un documento di fede: espressione autentica di eventi, riscritti nella confessione trepidante dell'agiografo e in dialogo con i concreti destinatari.
    Sono, in fondo, un documento tra fede e storia, capace di suscitare altre esperienze di fede, nell'autorevolezza e nella verità "storica" assicurata dalla presenza specialissima dello Spirito del Risorto.
    Considero, come esempio significativo, i racconti della Cena.
    Nel Nuovo Testamento esistono quattro redazioni della Cena: tre dei Sinottici e una nella 1 Cor.
    Le redazioni dei Sinottici sono molto simili (non certamente identiche). Si limitano a raccontare il fatto, senza particolari commenti. Paolo, invece, cambia registro. Racconta a cenni rapidi l'avvenimento, tutto preoccupato di sottolinearne le conseguenze sul piano dello stile di vita. Raccomanda la condivisione del pane terreno a coloro che partecipano dello stesso gesto eucaristico. Minaccia di morte quelli che invece conservano nel cuore e nei fatti la divisione e il sopruso.
    Nel suo vangelo Giovanni non racconta esplicitamente la Cena. Sembra quasi ignorare questo momento solenne della vita cristiana. Contiene però un racconto che ha il medesimo ritmo narrativo: la lavanda dei piedi. Analizzando con attenzione la pagina, ci si accorge dello stesso schema di fondo, quasi a carattere liturgico, fino a sollecitare alla medesima conclusione della Cena: "Fate lo stesso, in mia memoria", raccomanda Gesù.
    Perché racconti così diversi?
    Non sono il resoconto stenografico di un avvenimento, ma la sua espressione nella fede e nella passione di un testimone. L'autore non vuole descrivere dei fatti. Li ripropone come avvenimento salvifico. Li ricorda e li fa rivivere, perché sono la fonte, unica e definitiva, della salvezza. Ma li esprime, allargandoli con le parole della sua fede e con i bisogni concreti dei suoi destinatari.
    Giovanni vuole riportare la comunità ecclesiale allo spessore autentico dell'Eucaristia: Gesù dà la sua vita perché tutti abbiano la vita e chiede ai suoi discepoli di continuare lo stesso gesto. Sembra sostituire il simbolo del pane a quello più provocante della lavanda dei piedi, proprio per sollecitare all'evento che dà sostanza all'Eucaristia: la croce.
    Paolo grida la sua minaccia, nel nome del pane della vita, perché si rivolge a cristiani intorpiditi, consegnati al loro egoismo mentre celebrano il sacramento dell'amore e della condivisione.
    L'evento ricordato, la fede del testimone, la vita dei destinatari sono dimensioni dell'unico racconto.
    La stessa analisi può essere fatta su tutti gli avvenimenti raccontati dai vangeli.
    Basta pensare, per fare un altro esempio, ai testi solenni della preghiera del "Padre nostro": le parole riprodotte nei testi evangelici sono diverse, anche se la coscienza di aver appreso la preghiera alla scuola di Gesù resta vivissima.
    Intravedo una conclusione importante. Mi aiuta a decifrare secondo quali procedure comunicative siamo chiamati a servire la verità della fede nell'evangelizzazione.
    La parola umana non è mai in grado di obiettivare l'evento misterioso di cui è manifestazione. Nella parola pronunciata l'evento è presente e assente nello stesso tempo: presente nella povertà del segno e assente perché la parola è sempre espressione limitata ed opaca.
    La verità, così importante nel cammino della fede, è nella relazione tra espressione verbale ed evento: non tutte le parole possono obiettivare l'evento e non in tutte le obiettivazioni l'evento si esprime nella sua ricchezza.
    La comunità (e i fratelli a cui nella comunità è affidato il ministero della verità per l'unità) valuta questa congruenza e sollecita ad una progressiva adeguazione dell'espressione soggettiva della fede verso la sua formulazione oggettiva ed ecclesiale.

    UN'EVANGELIZZAZIONE "NUOVA" PERCHÉ NEL CUORE DEI PROBLEMI

    Ho accumulato materiale di riferimento prezioso e stimolante.
    Ci permette di concludere così: l'evangelizzazione chiama in causa contemporaneamente i contenuti che sono messi in circolazione, la relazione che si instaura tra i soggetti e la qualità dell'ambiente in cui si svolge.
    Questa costatazione offre una comprensione concettuale accurata e precisa dell'evangelizzazione, mostra dove possono annidarsi le difficoltà che rendono complicato oggi il processo e, indirettamente, suggerisce i rimedi.
    L'evangelizzazione diventa "nuova" quando verifica, in modo unitario, contenuti e relazione, in vista di un reale processo comunicativo.
    Non basta rivisitare i contenuti, per assicurare una loro modernizzazione o sul tentativo di difendere meglio la loro ortodossia. Se l'evangelizzazione è comunicazione, questi contenuti funzionano correttamente, nel concreto del processo, solo quando lo sollecitano e lo sostengono.
    Nell'ambito dell'evangelizzazione, opera da elemento di verifica linguistica la discriminante tra "significativo" e "non significativo": solo quello che risulta significativo, nel contesto del processo comunicativo, può attivare la comunicazione. Non è certamente sufficiente ritornare al vecchio principio intellettualistico che divide tra "vero" e "falso", come se bastasse una espressione vera per assicurare comunicazione intersoggettiva.
    D'altra parte però non sono sufficienti le attenzioni concentrate sulla relazione interpersonale, come se bastasse attivare un indice alto di ascolto e di partecipazione in un ambiente favorevole, per assicurare un reale evento evangelizzatore.
    Per l'autenticità della comunicazione la significatività sui contenuti e sulla relazione deve essere contemporaneamente fondata sulla verità teologale.
    Sulla provocazione che nasce dalle esigenze appena ricordate posso tentare un modello di "nuova" evangelizzazione, con una prospettiva complessiva e unitaria.
    Lo riconosco una delle tante ipotesi possibili, aperta al confronto e alla verifica. La propongo con passione perché ha il sapore del vissuto, vivace e sofferto, di tanti amici, impegnati a proclamare il vangelo del Signore della vita nel mondo dei giovani.

    L'intenzione dell'evangelizzatore e l'esito del processo

    Facendo evangelizzazione, la comunità ecclesiale rompe il muro del silenzio e penetra nell'esistenza di una persona con la pretesa di offrire ad essa un senso che si colloca oltre quelli che ciascuno elabora autonomamente e che li giudica tutti.
    Chi le dà questo diritto, rischioso e coraggioso?
    La comunità ecclesiale riconosce nella fedeltà al suo Signore la ragione e il fondamento della sua missione. Essa evangelizza per continuare nel tempo la proclamazione del suo evento, come unico "nome" in cui ottenere la salvezza.
    Questo fatto attraversa i tempi e le culture e collega i cristiani in un'unica grande passione.
    È importante però dare un contenuto preciso a questo impegno: anche la salvezza nel nome di Gesù Cristo è una di quelle esperienze che è rimasta, per forza di cose, segnata dai modelli culturali in cui i cristiani l'hanno detta e vissuta.
    Un primo elemento di novità sta proprio nel tentativo di esprimere l'intenzione dell'evangelizzatore e l'esito a cui egli tende nel suo impegno, in modo da risultare comprensibile e significativo anche per l'uomo di oggi.

    Dare vita
    Quando i discepoli di Giovanni hanno chiesto a Gesù le sue credenziali, per rassicurare la fede del loro maestro, condannato a morte dalla tracotante malvagità di Erode, Gesù risponde senza mezzi termini: "Andate a raccontare quel che udite e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono risanati, i sordi odono, i morti risorgono e la salvezza viene annunciata ai poveri. Beato chi non perderà la fede in me" (Mt 11, 2-6).
    Per parlare di sé Gesù parla della sua causa e dei fatti che sta compiendo per realizzarla. Ed è un impegno tutto sbilanciato dalla parte della promozione della vita. Qui dentro nasce una autentica esperienza di fede: "beato chi non perderà la fede in me", ricorda Gesù.
    In questo modo, Gesù ha rivelato chi è Dio e quale era la sua missione. Ha dato un contenuto preciso alla sua "causa": riconoscere la sovranità di Dio su ogni uomo e su tutta la storia, fino a confessare che solo in Dio è possibile possedere vita e felicità. Questo Dio, però, di cui ha proclamato la signoria assoluta, non è il Dio dei morti, ma dei vivi. È il Signore della vita. Fa della vita e della felicità dell'uomo la sua "gloria".
    Gesù di Nazareth è la scommessa di Dio sulla vita, il segno sconvolgente della sua passione perché "tutti abbiano la vita e ne abbiano in abbondanza" (Gv 11, 25).
    L'intenzione che la comunità ecclesiale pone alla radice della sua pretesa evangelizzatrice e su cui misura la sua missione condivide pienamente l'intenzione di Gesù e la sua causa: l'impegno appassionato, con Gesù e in lui, perché tutti abbiano vita e ne abbiano in abbondanza.

    Cosa è vita
    Lo so che anche vita è una espressione pregiudicata. Un uso frequente e spesso insensato la svuota ogni giorno di significato. Persino i mercanti di morte tentano di venderci i loro prodotti nel nome della vita.
    Va compresa, per essere detta e vissuta con cognizione di causa.
    Possiamo farlo, mettendoci alla scuola di Gesù. Non solo egli si pone dalla parte della vita nel nome di Dio. Nelle parole e nei gesti dice in termini concretissimi cosa è per lui vita e contro quale immagine di morte vuole lottare.
    Basta rileggere quell'episodio bellissimo, tutto carico di simboli, che Luca racconta: "Una volta Gesù stava insegnando in una sinagoga ed era di sabato. C'era anche una donna malata: da diciotto anni uno spirito maligno la teneva ricurva e non poteva in nessun modo stare diritta. Quando Gesù la vide, la chiamò e le disse: Donna, ormai sei guarita dalla tua malattia. Posò le sue mani su di lei ed essa si raddrizzò e si mise a lodare Dio". Di fronte alle proteste del capo della sinagoga "nel nome di Dio" (perché Gesù l'aveva guarita di sabato), Gesù risponde: "Satana la teneva legata da diciotto anni: non doveva dunque essere liberata dalla sua malattia, anche se oggi è sabato?" (Lc 13, 10-17).
    Nel nome della vita, Gesù rimette "in piedi e a testa alta" tutti coloro che vivono piegati sotto il peso delle sopraffazioni. Restituisce dignità a chi ne era considerato privo. Ridà salute a chi è distrutto dalla malattia. Contrasta fortemente ogni esperienza religiosa in cui Dio viene utilizzato contro la vita e la felicità dell'uomo. Egli è davvero il segno di chi è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe: "Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dall'Egitto, perché non siate più schiavi. Da quando ho spezzato il giogo del dominio egiziano che pesava su di voi, potete camminare a testa alta" (Lev 26, 13).
    Per chi crede in Gesù di Nazareth, vita è dominio dell'uomo sulla realtà, creazione di strutture di vita per tutti, comunione filiale con Dio. Morte è il suo contrario.
    Il dominio dell'uomo sulla realtà implica la liberazione dell'uomo dal potere schiavizzante delle cose per impadronirsi di tutte le potenzialità insite in esse.
    Costruire vita significa perciò restituire ogni persona alla consapevolezza della propria dignità. Significa rimettere la soggettività personale al centro dell'esistenza, contro ogni forma di alienazione e spossessamento. Comporta di conseguenza un rapporto nuovo con se stesso e con la realtà, per fare di ogni uomo il signore della sua vita e delle cose che la riempiono e la circondano.
    Questo obiettivo richiede però un impegno fattivo, giocato in una speranza operosa, perché tutti siano restituiti alla piena soggettività. Lavorare per la vita significa di conseguenza lavorare perché veramente ogni uomo si riappropri di questa consapevolezza e perché il gioco dell'esistenza sia realizzato dentro strutture che consentano efficacemente a tutti di essere "signori".
    La creazione di strutture per la vita di tutti (e dei più poveri, soprattutto) esige che scompaiano dal mondo gli atteggiamenti, i rapporti e le strutture di divisione e di sopraffazione.
    Chi vive in Dio è nella vita; chi lo ignora, chi lo teme, chi lo pensa un tiranno bizzarro, è nella morte. Nel nome della verità dell'uomo che intende servire e ricostruire, la comunità ecclesiale si impegna a restituire a ciascuno libertà e responsabilità in strutture più umane, proclamando a voce alta il Dio di Gesù e sollecitando esplicitamente ad un incontro personale con lui. Nello stesso tempo e nello stesso gesto, ricostruisce nell'autenticità quel volto di Dio che spesso anche i cristiani hanno deturpato. Per questo si impegna a sradicare ogni forma di paura e di irresponsabilità nei suoi confronti e ogni tipo di idolatria: solo in questa spazio liberato è possibile poi far crescere adeguati rapporti affettivi e operativi.

    Nel nome di Gesù e nella sua logica
    Attraverso l'evangelizzazione, la comunità ecclesiale non solo genera vita dove costata la presenza di morte. Essa si impegna soprattutto per dare ragioni per credere alla vita nonostante quell'esperienza quotidiana di morte, che investe e attraversa la nostra esistenza.
    Lo fa nello stile che le compete: colloca il duro quotidiano duello tra vita e morte nell'evento del Crocifisso risorto e quindi nella logica con cui Gesù stesso ha vissuto l'esperienza di morte.
    Nella cultura che ogni giorno respiriamo, il possesso contempla la necessità di conquistare, di arraffare, di tenere ben strette le cose. In questa logica, possiede la vita chi se la tiene stretta, come un tesoro prezioso. Magari la nasconde sotto terra, per paura dei ladri, come ha fatto il servo sciocco della parabola dei talenti (Mt 25, 14-28).
    Nel progetto di Gesù, possiede invece la vita chi la sa donare, chi la butta per amore: come il chicco di grano che diventa vivo solo quando muore (Gv 12, 24; cf anche Mt 16, 25).
    Perdere la vita così è amore alla vita. Non è rinunciare alla vita, disprezzarla, fuggire la mischia delle cose alla ricerca di uno spazio sicuro e protetto. L'esito è il possesso pieno e assoluto. Perdere diventa la condizione per assicurare più intensamente il possesso.
    Evangelizzando il suo Signore la comunità ecclesiale propone un modo nuovo di essere uomini: offre il suo servizio alla vita perché si impegna a costruirla dove costata morte e perché si ostina a proporla nella logica, sconvolgente ed esaltante, di Gesù.

    Un modello concreto: evangelizzare narrando

    Per aiutare a vivere la comunità ecclesiale proclama la verità sul Dio di Gesù. Come l'annuncia per restituire alla parola vera tutta la sua forza significativa e coinvolgente?
    Trascinando verso una sintesi metodologica molte delle riflessioni precedenti, propongo un modello concreto: una evangelizzazione di stile evocativo.
    L'evangelizzatore, che fa proposte "evocando", infrange il silenzio, chiama in causa le esigenze fondamentali della vita, si pone al servizio di progetti che lo superano e lo interpellano. Lo fa però senza la pretesa di dire le cose in termini irreformabili, quasi che la sua fosse l'unica verità dicibile.
    Nell'esperienza di molti evangelizzatori e nella riflessione di alcuni teologi, particolarmente sensibili ai problemi linguistici, ha preso progressivamente consistenza un modello comunicativo capace di assicurare le condizioni di una evangelizzazione a carattere evocativo. Viene di solito richiamato con la formula "narrazione", per sottolinearne qualità e movimento.
    Ripropongo quindi la narrazione come esperienza concreta di evangelizzazione.

    Le condizioni per una vera narrazione
    Cosa significa "narrare"? Cosa diversifica lo stile evocativo da quello denotativo?
    Un simpatico racconto, tratto da I racconti di Chassidim, mi aiuta a rispondere alla domanda, proprio attraverso un metodo narrativo.
    "Si pregò un rabbi, il cui nonno era stato alla scuola di Baalschem, di raccontare una storia. Una storia, egli disse, la si deve narrare in modo che possa essere d'aiuto. E raccontò: Mio nonno era paralitico. Un giorno gli si chiese di narrare una storia del suo maestro. Ed allora prese a raccontare come il santo Baalschem, quando pregava, saltellasse e ballasse. Mio nonno si alzò in piedi e raccontò. Ma la storia lo trasportava talmente che doveva anche mostrare come il maestro facesse, cantando e ballando lui pure. E così, dopo un'ora, era guarito. È questo il modo di raccontare storie".
    Questo testo aiuta bene a comprendere cosa è "narrazione". E suggerisce, con una facile trasposizione, quali sono le condizioni che deve possedere una narrazione per diventare momento di evangelizzazione, senza banalizzarsi a vuota fabulazione.
    Ne ricordo tre: suggeriscono nella loro armonia complessiva un modello operativo di evangelizzazione in stile narrativo.

    * Comunicazione di una esperienza
    In primo luogo, è narrativo quel modello di evangelizzazione che è costruito sulla comunicazione dell'esperienza di colui che narra e di coloro a cui si rivolge il racconto.
    Tante volte ci siamo impressionati fortemente dal tono delle grandi catechesi apostoliche, come sono documentate dagli Atti e dalle Lettere. Giovanni, per esempio, apre la sua Lettera con una testimonianza solenne: " La vita si è manifestata e noi l'abbiamo veduta. Noi l'abbiamo udita, l'abbiamo vista con i nostri occhi, l'abbiamo contemplata, l'abbiamo toccata con le nostre mani" (1 Gv 1, 1-2). Anche Paolo ricorda l'esperienza personale quando sottolinea i temi centrali della sua predicazione (si veda, per esempio, 1 Cor 15 e 2 Cor 12).
    Questa è una dimensione qualificante dell'annuncio cristiano: quello che viene comunicato proviene da una esperienza personale diretta e si protende verso gli altri con l'intenzione esplicita di suscitare nuove esperienze. Esso non è prima di tutto un messaggio, ma una esperienza di vita che si fa messaggio, in una catena ininterrotta che riporta all'esperienza fondante che alcuni credenti hanno avuto in Gesù.
    Chi racconta sa di essere competente a narrare solo perché è già stato salvato dalla storia che narra; e questo perché ha ascoltato questa stessa storia da altre persone. La sua parola è quindi una testimonianza; la storia narrata non riguarda solo eventi o persone del passato, ma anche il narratore e coloro a cui si rivolge la narrazione. Essa è in qualche modo la loro storia. Chi narra, lo fa da uomo salvato, che racconta la sua storia per coinvolgere altri in questa stessa esperienza.

    * Una comunicazione che spinge alla sequela
    In secondo luogo, la narrazione si caratterizza per l'intenzione autoimplicativa. La formula di gergo sottolinea una esigenza fondamentale: l'evangelizzazione è sempre il racconto di una storia che spinge alla sequela. La sua struttura linguistica non è finalizzata cioè a dare delle informazioni, ma sollecita ad una decisione di vita.
    Anche questa indicazione si fonda sui modelli evangelici.
    Ho già sottolineato la cosa nella ricostruzione dei racconti della Cena, fatta nelle pagine precedenti.
    Altri esempi vengono dalle parabole. Esse non sono il resoconto di avvenimenti, consegnati all'analisi critica dello storico. Non sono preziosi e significativi perché riusciamo a ricostruire il tempo e il luogo in cui si svolge l'avvenimento narrato o perché possiamo verificare la congruenza dei particolari. Sono invece una chiamata personale a coinvolgersi nell'avvenimento per prendere posizione. Tutto è finalizzato a questa decisione personale. "Se, per esempio, di fronte alla parabola del Padre misericordioso (Lc 15, 11-32) uno storico volesse investigare in quale regione il figlio prodigo fosse emigrato o quanto tempo avesse trascorso lontano da casa ed, in base alle sue ricerche sulle carestie che colpirono le diverse regioni dell'Oriente, offrisse le sue conclusioni anche solo come probabili, meriterebbe di non essere ascoltato. Vi è nella parabola evangelica una verità profonda che non è di competenza dello storico, giacché il racconto appartiene al genere parabolico" (C. Molari).
    L'invito alla conversione non viene assicurato perché sono diffuse informazioni non ancora note, ma perché l'interlocutore viene chiamato in causa in prima persona. Non può restare indifferente di fronte alla provocazione: le due braccia spalancate del padre che aspetta con ansia il ritorno a casa del figlio perduto, costringono a decidere da che parte si vuole stare. Nasce formazione non sulla misura delle cose nuove apprese, ma nel riconoscimento dello stile di vita a cui sono sollecitati coloro che desiderano far parte del movimento dei credenti.
    La scelta di privilegiare una prospettiva implicativa su quella descrittiva è importante anche per una ragione di competenza.
    Quando si è chiamati a trasmettere informazioni tecniche, il diritto alla parola viene misurato sulla competenza posseduta: chi conosce le cose da dire, può parlare; chi non le conosce bene, deve tacere.
    Quando invece al centro della comunicazione c'è l'invito alla sequela e al coraggio della conversione, la scienza non basta più. Ci vuole la passione e il coinvolgimento personale. Il diritto alla parola non è riservato solo a coloro che sanno pronunciare enunciati che descrivono in modo corretto e preciso quello a cui ci si riferisce. Chi ha vissuto una esperienza salvifica, la racconta agli altri; così facendo aiuta a vivere e precisa lo stile di vita da assumere per poter far parte gioiosamente del movimento di coloro che vogliono vivere nell'esperienza salvifica di Gesù di Nazareth.
    Per questa ragione, l'evangelizzazione è sempre interpellante.
    La comunità ecclesiale sa che l'esito resta imprevedibile, consegnato al misterioso gioco di due libertà (quella di Dio e quella dell'uomo) a reciproco confronto. Non per questo narra la storia di Gesù in modo rassegnato o distaccato, quasi che le bastasse pronunciare le parole che deve dire, per assolvere la sua missione. La comunità ecclesiale sa che è autentica la storia narrata solo quando viene avvertita come storia interpellante. Per questo è tormentata dall'indifferenza. Vuole una scelta di vita: per Gesù o per la decisione, folle e suicida, di salvarsi senza di lui.

    * Una comunicazione che anticipa nel piccolo quello che si annuncia
    In terzo luogo, l'evangelizzazione è narrativa quando possiede la capacità di produrre ciò che annuncia, per essere segno salvifico. Il racconto si snoda con un coinvolgimento interpersonale così intenso da vivere nell'oggi quello di cui si fa memoria. La storia diventa racconto di speranza.
    Non si tratta di ricavare dalla memoria di un calcolatore delle informazioni fredde e impersonali, ma di liberare la forza critica racchiusa nel racconto.
    Così chi narra di Colui che ha dato la vista ai ciechi e ha fatto camminare gli storpi, fa i conti con la quotidiana fatica di sanare i ciechi e gli storpi di oggi. Anche se annuncia una liberazione definitiva solo nella casa del Padre, tenta di anticiparne i segni nella provvisorietà dell'oggi.
    Troppe volte le situazioni tragiche restano nella loro logica disperata ed oppressiva. Sembrano un grido di rivolta contro l'evangelo della vita e della speranza.
    Il racconto della storia di Gesù, a differenza dell'argomentazione che tutto spiega e su ogni caso ha la parola sicura, parla con concretezza e con realismo della sofferenza dell'uomo. Non possiede la chiave dialettica per risolvere tutte le situazioni e non ha la pretesa di districare in modo lucido i meandri oscuri della storia. Condivide il cammino faticoso dell'uomo; cerca di superare le contraddizioni in compagnia con tutti; parla, con parole buone, rispettose, riconcilianti, concrete.
    La parola evangelizzata mostra con i fatti il Dio della vita: libera e risana, rimettendo a testa alta chi procede distrutto sotto il peso degli avvenimenti, personali e collettivi; restituisce dignità a coloro a cui è stata sottratta; dà a tutti la libertà di guardare al futuro, in una speranza operosa, verso quei cieli nuovi e nuove terre dove finalmente ogni lacrima sarà asciugata (Apoc 21).

    * Una storia a tre storie
    Se analizziamo con attenzione le condizioni che ho appena ricordato, è facile concludere che la narrazione è nello stesso tempo ripresa di un evento della storia e espressione della fede appassionata del narratore.
    Questo è un elemento di estrema importanza. Ridisegna, in ultima analisi, la funzione dell'evangelizzatore. Riporta, nella sua prassi quotidiana di testimone delle esigenze più radicali della vita, lo stile con cui sono stati costruiti i vangeli dalla fede della comunità apostolica, sotto l'ispirazione dello Spirito di Gesù.
    La parola dell'evangelizzatore è sempre un racconto: una storia di vita, raccontata per aiutare altri a vivere, nella gioia, nella speranza, nella libertà di ritrovarsi protagonisti.
    Nel suo racconto si intrecciano tre storie: quella narrata, quella del narratore e quella degli ascoltatori.
    Racconta i testi della sua fede ecclesiale: le pagine della Scrittura, le storie dei grandi credenti, i documenti della vita della Chiesa, la coscienza attuale della comunità ecclesiale attorno ai problemi di fondo dell'esistenza quotidiana. In questo primo elemento, propone, con coraggio e fermezza, le esigenze oggettive della vita, ricompresa dalla parte della verità donata. Credere alla vita, servirla perché nasca contro ogni situazione di morte, non può certo significare stemperare le esigenze più radicali e nemmeno lasciare campo allo sbando della ricerca senza orizzonti e della pura soggettività.
    Ripetere questo racconto non significa però riprodurre un evento sempre con le stesse parole. Comporta invece la capacità di esprimere la storia raccontata dentro la propria esperienza e la propria fede.
    Per questo l'evangelizzatore ritrova nella sua esperienza e nella sua passione le parole e i contenuti per ridare vitalità e contemporaneità al suo racconto. La sua esperienza è parte integrante della storia che narra: non può parlare correttamente della vita e del suo Signore, senza dire tutto questo con le parole, povere e concrete, della sua vita.
    Anche questa esigenza ricostruisce un frammento della verità della storia narrata. La sottrae dagli spazi del silenzio freddo dei principi per immergerla nella passione calda della salvezza.
    Dalla parte della salvezza, anche i destinatari diventano protagonisti del racconto stesso. La loro esistenza dà parola al racconto: fornisce la terza delle tre storie, su cui si intreccia l'unica storia.
    Come nel testo evangelico, la narrazione coinvolge nella sua struttura l'evento narrato, la vita e la fede del narratore e della comunità narrante, i problemi, le attese e le speranze di coloro a cui il racconto si indirizza. Questo coinvolgimento assicura la funzione performativa della narrazione. Se essa volesse prima di tutto dare informazioni corrette, si richiederebbe la ripetizione delle stesse parole e la riproduzione dei medesimi particolari. Se invece il racconto ci chiede una decisione di vita, è più importante suscitare una forte esperienza evocativa e collegare il racconto alla concreta esistenza. Parole e particolari possono variare, quando è assicurata la radicale fedeltà all'evento narrato, in cui sta la ragione costitutiva della forza salvifica della narrazione.
    In forza del coinvolgimento personale del narratore, la narrazione non è mai una proposta rassegnata o distaccata. Chi narra la storia di Gesù vuole una scelta di vita: per Gesù, il Signore della vita o per la decisione, folle e suicida, di vivere senza di lui.
    Per questo l'indifferenza tormenta sempre l'evangelizzatore che evangelizza narrando. Egli anticipa nel piccolo le cose meravigliose di cui narra, per interpellare più radicalmente e per coinvolgere più intensamente.

    L'autorevolezza di dire cose importanti, raccontando storie
    L'evangelizzatore racconta la storia di Gesù di Nazareth e della fede che molti uomini hanno avuto in lui, con una pretesa: chiede di sceglierlo come il Signore della propria vita, fino "a vedere la storia come Lui, a giudicare la vita come Lui, a scegliere ad amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo" (RdC 38).
    L'evangelizzazione invade così l'esistenza di una persona, con una proposta che sconvolge le logiche dominanti. L'ho già ricordato molte volte: si tratta di una esigenza costitutiva di ogni autentico annuncio di Gesù Cristo, a cui non possiamo rinunciare anche se la costatiamo un problema serio per colui che fa della propria soggettività il principio discriminante di ogni proposta.
    Per farlo, soprattutto in un tempo come il nostro, egli ha bisogno di una dose alta di autorevolezza.
    Di questa autorevolezza l'evangelizzatore ha un bisogno particolare soprattutto quando si impegna a svolgere la sua funzione "narrando". La scelta di un modello evocativo richiede un credito tutto speciale, per sollecitare la responsabilità e la fantasia dell'interlocutore nella direzione della sua maturazione umana e cristiana.
    Il recupero di autorevolezza non è legato al tono e alla perentorietà con cui sono fatte le proposte. In questo momento l'evangelizzatore dice, con sincerità e coraggio, quello che vuole prospettare, nello stile, buono e coinvolgente, della narrazione.
    Si realizza prima attraverso una serie di interventi che sono globalmente di carattere argomentativo. Con un gioco di parole, mi piace affermare: argomentando, l'evangelizzatore fonda l'autorevolezza necessaria per fare proposte in modo narrativo. Mi spiego.
    L'evangelizzatore giustifica la sua pretesa di avere qualcosa da dire di importante, quando accetta, con disponibilità e coraggio, di proporsi come testimone di eventi già dati, che misurano quotidianamente la sua e la nostra soggettività. Di questi eventi egli è davvero soltanto "servo". La loro "verità" non sta sulla credibilità con cui ne parliamo, come se le parole fossero credibili (e quindi salvifiche) solo perché l'evangelizzatore le rende tali nella sua testimonianza.
    L'evangelizzatore che collega la sua parola ad eventi più grandi e fondanti, riconosce una credibilità molto più ampia e complessa. Essa coinvolge nel suo insieme la comunità cristiana e, in prima persona, Gesù di Nazareth, l'unico che ha detto parole totalmente credibili e quindi definitivamente salvifiche.
    In secondo luogo, argomentare vuol dire anche contare su una competenza acquisita nella quotidiana fatica della disciplina, dello studio, dell'aggiornamento. L'evangelizzatore pronuncia parole che gli sono costate impegno e responsabilità, sulla cui meditazione ha speso tempo, risorse, entusiasmo.
    Argomentare vuol dire ancora capacità di porre concretamente gesti dalla parte della promozione della vita, fino alla disponibilità fattiva di dare la propria vita perché tutti abbiano un po' più di vita.
    Questo recupero di autorevolezza dalla frontiera della credibilità, della competenza e del servizio aiuta a riscoprire la Chiesa, l'unico soggetto vero e autorevole di evangelizzazione.
    Continuiamo a pronunciare le parole di Gesù di Nazareth nel suo nome. Ci impegniamo ogni giorno a convertire la nostra vita verso una verità che non è davvero solo questione di congruenza tra soggetto e predicato. E ritroviamo il coraggio di proclamare forte anche quello che non viviamo personalmente nel nome di una profonda credibilità ecclesiale.

    RILEGGENDO EVANGELII NUNTIANDI

    Possediamo un documento prezioso per comprendere la natura della evangelizzazione: l'Esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi. È un punto di riferimento indispensabile per chiunque voglia riflettere sul tema, perché ne indica, in modo autorevole, il processo, i problemi e le prospettive di soluzione.
    Nel corso della mia riflessione sono stato scarso di richiami espliciti a questo testo. Ha rappresentato però il mio costante confronto, proprio nel tentativo di rileggerlo all'interno delle sfide che l'attuale cultura ci lancia.
    Ho cercato infatti di assumerne pienamente la prospettiva di fondo, organizzando la ricerca di nuovi modelli comunicativi attorno a quel difficile rapporto tra fede e cultura che la Evangelii nuntiandi indica come uno dei punti nevralgici di tutto il processo.
    Dalla sua prospettiva posso quindi concludere il mio cammino, riprendendo la definizione descrittiva di evangelizzazione proposta dal documento. Mi sembra preziosa anche per comprendere in modo sintetico le dimensione che la fanno "nuova".
    Evangelii nuntiandi definisce l'evangelizzazione come un processo complesso, articolato in differenti interventi (EN 17-23).
    Con una schematizzazione utile, il documento li riassume in tre: la testimonianza, l'annuncio, la celebrazione. Di ciascuno offre una sua descrizione per evitare cattive letture. La ricordo, sottolineando soprattutto quello che ci riporta meglio alle indicazioni suggerite nelle pagine precedenti.
    Testimonianza è un modo di essere presenti nella realtà e la qualità dell'impegno per trasformarla. Questa presenza, condivisa con tutti gli uomini di buona volontà, è orientata a creare uno stile di vita e spazi concreti dove sia possibile per tutti vivere la propria quotidiana esistenza in modo umano. È giudicata e verificata sulla qualità di questo impegno e sull'esito che esso è capace di assicurare.
    La sua forza provocatoria e interpellante non è data dalla distanza che i cristiani cercano di assumere nei confronti degli altri uomini o nelle differenze culturali in cui si trincerano. È assicurata invece sulla qualità nuova di vita, che essi perseguono e per cui si pongono come alternativi rispetto ai modelli dominanti.
    La testimonianza fa nascere domande attorno al senso dell'esistenza, personale e collettiva. A queste domande, l'evangelizzazione risponde attraverso l'annuncio, la seconda dimensione dell'evangelizzazione. Nell'annuncio il credente dà le ragioni dei gesti di testimonianza che ha posto. Li colloca in un orizzonte di definitività, li interpreta, e, soprattutto, li collega esplicitamente con il mistero del Dio di Gesù Cristo, nella comunità ecclesiale.
    L'annuncio, nella proposta offerta da Evangelii nuntiandi, non è perciò la diffusione di parole, ma la giustificazione attraverso la parola proclamata ("dare le ragioni", dice esplicitamente EN) di un impegno promozionale.
    La terza dimensione dell'evangelizzazione è costituita dalla celebrazione. Certamente il documento pensa alle celebrazioni liturgiche e sacramentali, momento vertice di tutto il processo. Ricorda però anche l'esperienza globale di vita nuova: un clima, respirato e vissuto, che assicura, nell'oggi e per connaturalità, della verità di quanto è proposto per il futuro.
    Ritorna, anche a questo livello, un aspetto caratteristico del rapporto tra fede e cultura: le comunità ecclesiali e i cristiani sono "diversi" non perché fanno cose differenti, ma perché cercano con coraggio una qualità nuova di vita nella vita quotidiana condivisa con tutti.
    È importante non dimenticare che l'Evangelii nuntiandi propone questi tre momenti come dimensioni dell'unico processo di evangelizzazione. Sembra ricordare che solo nella articolazione complessiva il processo è vero. Nessun elemento è previo o va interpretato solo come successivo quasi ci fossero gesti di semplice pre-evangelizzazione o si potessero progettare interventi con scadenze logiche o valoriali.
    La sottolineatura è davvero preziosa. Invita a superare contrapposizioni o schematismi. Soprattutto ci permette di riaffermare con forza quelle esigenze di comunicazione "sensata" di cui ho parlato a lungo nelle pagine precedenti e ricostruisce, in modo nuovo, l'autorevolezza di cui ogni evangelizzatore ha sempre bisogno.
    Compresa così la natura dell'evangelizzazione e la qualità del suo essere "nuova", viene restituita alle singole comunità ecclesiali la responsabilità di essere soggetto di evangelizzazione.
    Lo ricorda con forza Evangelii nuntiandi: La costatazione che la Chiesa è inviata e destinata all'evangelizzazione, dovrebbe suscitare in noi due convinzioni.
    La prima: evangelizzare non è mai per nessuno un atto individuale e isolato, ma profondamente ecclesiale. [...]
    Come conseguenza, la seconda convinzione: se ciascuno evangelizza in nome della Chiesa, la quale a suo volta lo fa in virtù di un mandato del Signore, nessun evangelizzatore è padrone assoluto della propria azione evangelizzatrice, con potere discrezionale di svolgerla secondo criteri e prospettive individualistiche, ma deve farlo in comunione con la Chiesa e con i suoi Pastori (EN 60).


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