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    Chiesa locale, gruppi, movimenti e catechesi



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1988-04-22)


    Come appare dal titolo, nella mia riflessione sono in gioco quattro variabili: Chiesa locale, gruppi, movimenti e catechesi. È possibile farle interagire in modi diversi, dando origine a punti di vista molto differenti.
    Lo metto al centro l'iniziazione cristiana. Non è nel titolo, ma fa da sfondo evidente a tutta la ricerca. Per dirla in gergo, rappresenta la variabile indipendente su cui si misurano e da cui dipendono le altre quattro.
    La catechesi è uno dei momenti e dei servizi che la comunità ecclesiale offre ai credenti, per assicurare e consolidare i processi di iniziazione cristiana (cf Rdc 30).
    Si può fare catechesi in molti modi: in tempi, ambiti, relazioni diverse. In questo contesto intendo verificare la pertinenza e la funzionalità di quello assicurato oggi dai gruppi e dai movimenti, nei confronti dei giovani, in ordine alla loro maturazione nella fede.
    La questione non è certamente solo accademica.
    Molti oggi denunciano la crisi della catechesi giovanile: crisi di proposte e crisi di esiti.
    Nello stesso tempo, è innegabile la vitalità dell'associazionismo ecclesiale. Molti lo indicano come segno di speranza, proprio nel cuore di questa diffusa crisi.
    Nei gruppi e nei movimenti sembra possibile assicurare una comunicazione della fede non disturbata e sembra facile rilevare la sua incidenza.
    I fatti sono ormai sulla bocca di tutti. Gli entusiasti li citano come un modello significativo e generalizzabile. I più critici partono da questi stessi fatti per sottolineare preoccupazioni e perplessità.
    Non mi preoccupo, prima di tutto, di verificare quale ipotesi possa essere considerata la più ragionevole. E neppure, almeno per il momento, cerco di immaginare cosa si possa fare per arginare le falle o per potenziare le chances.
    Mi muovo invece con il ritmo procedurale tipico di ogni riflessione pastorale: rilevo prima i problemi, costato poi le possibilità di soluzione, suggerisco infine le condizioni da assicurare. La mia è una scelta: la riconosco parziale e la spero corretta. Nella misura in cui viene condivisa, può aiutare ciascuno a rifare il cammino da prospettive differenti.

    I PROBLEMI: CATECHESI COME COMUNICAZIONE

    Quando si parla di catechesi e dei suoi progetti, qualcuno si preoccupa quasi unicamente dei «contenuti». Questo modo di vedere le cose, davvero parziale, spesso rende distratti rispetto ai problemi veri. Essi stanno, secondo me, più a monte: nei disturbi provocati al processo stesso dai rapidi cambi culturali.
    Per spiegare e motivare la mia ipotesi, sottolineo prima di tutto alcune esigenze dell'atto catechistico e verifico poi l'impatto su di esse del contesto attuale. Solo a partire da una coscienza matura delle difficoltà in cui si dibatte l'attuale catechesi giovanile, è possibile decidere quale significato può essere attribuito all'associazionismo ecclesiale in ordine alla iniziazione cristiana dei giovani.
    Il primo problema è dunque quello che si rifà alla catechesi come comunicazione. L'evento di Dio si rende comunicabile all'uomo attraverso le parole umane che lo esprimono (cf DV 13). La risposta dell'uomo s'invera nella sua esperienza quotidiana. Appello e risposta possiedono perciò una struttura visibile che veicola un evento più profondo e radicale. Perché comunicazione «ad» un uomo e «di» un uomo, sono nell'ordine simbolico: una struttura di significazione in cui un senso diretto, primario, letterale, designa un altro senso indiretto, secondario, figurato, che può essere appreso solo attraverso il primo.
    Anche la catechesi si realizza in questo intreccio simbolico: la comunità ecclesiale che lancia l'appello dell'evangelizzazione e il credente che offre la risposta della sua decisione di vita, non propongono direttamente la parola di Dio o il misterioso gioco di una libertà piegata verso Dio. Quello che si vede, si può controllare e manipolare, è solo un segno, una povera «cifra» umana di un grande evento di salvezza e d'amore. Attraverso questo segno la comunità ecclesiale rende presente nella parola umana l'ineffabile parola di Dio e il credente esprime la sua decisione radicale nella fede, speranza e carità.
    L'oggetto scambiato è il «contenuto» della comunicazione; il processo che porta due interlocutori a scambiarsi oggetti linguistici si definisce di solito come la «relazione comunicativa».
    Purtroppo, una vecchia abitudine intellettualistica ci porta spesso a considerare i contenuti come più importanti o più decisivi della relazione.
    Gli studi attuali sulla comunicazione procedono spesso in una logica quasi opposta. Una corretta verifica dell'atto catechistico chiede invece di studiare i due momenti in modo interattivo.
    Per questo, la mia ricerca corre su tre livelli:
    - la qualità del messaggio che la catechesi propone;
    - lo strumento linguistico che utilizza per comunicare;
    - il contesto di identificazione che è capace di assicurare.

    La qualità del messaggio

    Nella comunicazione, i due interlocutori si scambiano dei «messaggi». Per l'emittente, messaggio è quanto egli pensa, immagina, ricorda, trasmesso attraverso determinati codici simbolici, che desume dalla cultura in cui è inserito. Per il ricevente, invece, messaggio è solo quello che egli riesce a decifrare del messaggio che gli viene trasmesso, perché solo quello che viene soggettivamente decifrato può essere veramente ricevuto e fatto proprio.
    Il messaggio non è perciò un dato oggettivo, collocato dalla parte di chi avvia la comunicazione. Messaggio è invece quello che viene soggettivamente compreso e assimilato, come esito della comunicazione stessa. Ci può essere perciò una comunicazione senza messaggio, se la distanza tra l'emittente e il ricevente è tanto grande che quest'ultimo non riesce a decifrare nulla di quanto gli è proposto.
    Pensiamo, in concreto, alla comunicazione catechistica con i giovani d'oggi. Da una parte molti dei codici utilizzati per acculturare l'evangelo, essendo costruiti in una cultura diversa dalla attuale, risultano indecifrabili per i giovani. Essi hanno l'impressione di trovarsi come in un paese straniero, dove si parla una lingua sconosciuta. Dall'altra, anche molti di coloro che accolgono le proposte e reagiscono alla informazione, traducendo l'esperienza di fede in una esperienza etica e in un progetto di vita, utilizzano i codici che loro sono ormai abituali. E questo non permette ai responsabili delle comunità ecclesiali di percepire esattamente la loro risposta.
    Di fronte a questo scarto culturale si può avanzare l'ipotesi che l'evangelizzazione sia per molti giovani una comunicazione senza messaggio, perché comunicazione unidirezionale, sia in andata che in ritorno.

    Lo strumento linguistico per la comunicazione

    Chi fa catechesi, prende un sistema di segni che gli è messo a disposizione e, attraverso essi, comunica qualcosa ad un altro soggetto.
    Sono «segni» perché rendono presente una realtà più profonda, nascosta, manipolabile solo attraverso le sue rappresentazioni simboliche. Ci sono dei segni capaci di rivelare bene le realtà nascoste, pur restando solo segni rispetto a queste stesse realtà; e ce ne sono altri che invece le nascondono ancor più, perché sono molto lontani da quello che vorrebbero significare.
    Chi fa catechesi si pone la domanda di fondo: quali segni possono produrre le comunità ecclesiali per evangelizzare i giovani di oggi?
    Questa è la risposta: il segno da produrre per evangelizzare non è un messaggio, ma l'esperienza viva di una persona nella comunità dei credenti che si fa messaggio.
    Questa esperienza, come ricorda anche Evangelii nuntiandi (21 e 22), è fondamentalmente una esperienza profana, una esperienza di produzione di vita nuova. La dimensione religiosa è l'interpretazione di verità, quella che dà le ragioni dei gesti di speranza compiuti, quando si allarga lo spazio della vita e si restringono i confini della morte. Non escludo che anche le esperienze tematicamente religiose possano assolvere questa funzione evocativa. Ma non riesco a pensarle come le uniche e nemmeno come quelle determinanti, soprattutto in rapporto allo stato attuale della condizione giovanile.
    I grandi temi della salvezza e della fede non sono prima di tutto proponibili perché vengono formulati correttamente, ma perché sono sperimentati in una comunità che fa di questi «concetti» le ragioni della sua esistenza e della sua presenza nella storia. Lo so che quando si mette l'accento sulla esperienza come contenuto del processo comunicativo, si scivola facilmente nel terreno della soggettività. Chi dice «esperienza» aggiunge sempre, almeno inconsapevolmente, il connotativo «per me»: esperienza è esperienza-per-me.
    Per questo è importante non dimenticare mai che le esperienze vanno lavorate con le parole per restituirle alla funzione di messaggio, oggettivo e consistente.
    Attraverso la parola, che interpreta, organizza, codifica, vengono decifrate le ragioni più profonde di ogni esperienza, quelle che ci riportano alle condizioni culturali, sedimentate nei documenti della fede della comunità ecclesiale.
    Questa accumulazione dottrinale permette di dire la stessa fede, nella sua costitutiva ortodossia, nei differenti luoghi e nello sviluppo del suo tempo.
    Non è certo un compito facile, in un tempo in cui è più facile consumare le esperienze, anche perché c'è una forte resistenza contro la parola e contro ogni tentativo di riflettere sul vissuto.

    Il contesto di identificazione

    Quando, durante una conferenza, all'improvviso il relatore chiede di dare la definizione di «volume», mette in crisi i suoi ascoltatori. Nella lingua italiana, «volume» suona come una voce che ha molti significati. In gergo si dice: è un termine «polisemico». Dicendo «volume», posso pensare alla misura di un solido nello spazio, ad un libro, alla quantificazione in decibel di un rumore. Chi domanda la definizione di volume, senza orientare nella polisemia, pone un compito che scatena un grave disturbo di comunicazione. Se invece un professore di matematica introduce la sua lezione ricordando di voler spiegare le regole per ottenere i volumi, tutti capiscono di che cosa ha intenzione di parlare. In questo caso, infatti, il contesto ha elaborato la polisemia. Quando le parole hanno molteplici significati, è possibile una comunicazione non equivoca, solo se esiste un contesto che permetta di selezionare tra i possibili significati quello che l'emittente desidera proporre al ricevente. Questa funzione non è di semplice filtro esterno. Permette di elaborare la polisemia soprattutto perché rappresenta un luogo di identificazione. Entra, in qualche modo, nel merito dei processi di comunicazione: aiuta le persone a far propri significati, valori, modelli, orientamenti di vita, diffusi in quella struttura. In questo senso il con testo opera come struttura di attendibilità.
    Quando la comunicazione catechistica avviene in strutture capaci di sostenere l'identificazione del soggetto, gli eventuali disturbi sono meno preoccupanti e più facilmente controllabili Il soggetto raffina la sua capacità di comprensione perché è interessato al suo processo. Le cose vanno veramente così? Ho grossi dubbi. Troppe comunità ecclesiali non riescono a diventare luogo di identificazione. E, di conseguenza, non possono risultare quella indispensabile struttura di attendibilità che riempie di vita i segni linguistici di sempre e produce nuovi segni per esprimere nuove parole di vita.

    I PROBLEMI: GIOVANI SEGNATI DA PROFONDI CAMBI CULTURALI

    Ho descritto alcune esigenze per una catechesi capace di attivare una reale comunicazione.
    Viene spontaneo chiedersi fino a che punto l'attuale situazione culturale e giovanile sia in grado di saturare queste esigenze. Tra le righe delle pagine precedenti spesso hanno fatto capolino alcune mie perplessità. Il discorso va però esplicato, ripensando al contesto nuovo in cui stiamo vivendo.
    Sono molti i tratti culturali caratteristici di quella svolta epocale di cui già la Gaudium et spes aveva costatato l'esistenza (cf GS 54).
    Ne parliamo spesso. Sono ormai cose note. Io ricordo solo, a veloci battute, due dati che influenzano notevolmente i processi appena sottolineati.

    Appartenenze deboli e selettive

    Siamo in un tempo di larga e insistita complessità strutturale e culturale: da un sistema sociale unificato, in cui le diverse istanze erano organizzate da un unico ordinatore, siamo passati ad un sistema sociale raccolto attorno a diversi riferimenti, in cui convivono differenti e molteplici princìpi organizzatori.
    La persona, nella nostra società, appartiene così a diverse aggregazioni sociali e con ruoli attivi e diversificati. Gli uni e le altre si presentano spesso come incompatibili reciprocamente.
    L'esito più diffuso è un'appartenenza a basso investimento. Il rapporto tra la persona e le diverse istituzioni è poco vincolante e scarsamente carico di valori decisivi per la strutturazione della personalità.
    L'istituzione cessa quindi di funzionare come struttura di attendibilità. Viene invece considerata prevalentemente in termini strumentali e funzionali.
    Una conseguenza spontanea è quella «reversibilità delle scelte» di cui tanto si parla, in toni preoccupanti, tra educatori e operatori pastorali. Molti giovani denunciano, nei segni eloquenti della loro prassi quotidiana, la mancanza di definitività di impegni e di scelte assunte in ambienti che essi continuano a ritenere importanti per la loro vita.
    Anche l'appartenenza è diventata «debole», in una società complessa e pluralistica.

    Un modo nuovo di porre la domanda sul senso

    Ci sono fatti nuovi anche a proposito della domanda sul senso, come esito di quella situazione di diffusa complessità di cui si diceva sopra.
    enso significa fine, obiettivo, scopo. Quando si parla di «domanda sul senso» ci si riferisce soprattutto alla ricerca di un rapporto tra l'esistenza umana e qualcosa capace di rappresentare il suo fine totale.
    La definizione del senso si realizza in un doppio movimento. Da una parte, ogni persona ricerca un suo senso soggettivo; dall'altra, essa si misura con una razionalità costitutiva, che determina il senso oggettivo perché rimanda al fondamento del mondo e dell'uomo. Di solito, l'uomo incontra il senso oggettivo e definisce il suo senso soggettivo all'interno della «cultura» in cui vive. Oggi è entrata in crisi la circolazione collettiva del senso oggettivo della realtà. La crisi è violenta e, per molti aspetti, inedita. Tradizionalmente il senso oggettivo sosteneva e definiva il senso soggettivo. La religione e la cultura proponevano il quadro dei valori al cui interno la persona risolveva, in modo relativamente pacifico, le grandi domande sull'esistenza.
    Oggi l'individuo è diventato all'improvviso il produttore autonomo del senso della sua vita, senza alcun punto di riferimento riconosciuto.
    I giovani reagiscono a questa situazione tragica in un modo che potrebbe suonare strano. Da una parte intensificano la «domanda di senso»: diventano ricercatori appassionati di quel senso che non riescono più a possedere spontaneamente. Per essi, delusi da troppe promesse fallite, la domanda sul senso è però soprattutto invenzione di esperienze capaci di far sperimentare quello che spontaneamente vivono e costruiscono.
    Si passa così dal tradizionale confronto con i «valori», intesi come indicatori del senso oggettivo del reale, alla ricerca di «valorizzazioni», come espressioni soggettive di quello che una persona valuta importante per sé.
    Accentuando la dimensione esperienziale su quella cognitiva, essi spostano l'attenzione dalla accettazione di qualcosa di preesistente, dotato di funzione normativa, alla produzione in proprio di qualcosa che resta sbilanciamento dalla parte della soggettività. Il senso non si propone più alle persone come un dato da scoprire e da accogliere, perché residente nella struttura costitutiva della realtà. Esso è invece prodotto, momento per momento, nel frammento di vita che esprimiamo.
    I quadri di riferimento restano di conseguenza molto soggettivizzati e i tracciati di coerenza personale risultano frammentati e incongruenti.

    GRUPPI, MOVIMENTI E CATECHESI

    Le molte pagine dedicate a fare il lamentiamo hanno radici che stanno punto dello stato attuale della catechesi oltre la responsabilità di singoli agenti si giovanile avevano una sola pretesa: pastorali. Investono e attraversano il sottolineare che le difficoltà di cui ci tempo in cui viviamo: non sono congiunturali, ma strutturali.
    Per questo ci preoccupano di più. Ormai servono davvero a poco i richiami generici all'entusiasmo, alla buona volontà, al coraggio.
    Con la cultura della modernità non si scherza; soprattutto non è possibile cercare di ritagliare uno spazio neutro, dove tentare il compromesso.
    Spesso, nell'evangelizzazione abbiamo invece giocato al ribasso, con la segreta speranza di attivare un dialogo a tutto campo, da cui, in seguito, potevano nascere le decisioni forti e impegnative.
    E così le proposte sono risuonate abbastanza stemperate, l'incontro personale con l'evento sconvolgente del Signore ha assunto i toni di una tranquilla esperienza di gruppo e i tempi di un lento processo di maturazione. Anche le esigenze etiche ne hanno risentito: sono state espresse in progetti a basso profilo, con la segreta speranza di rifarsi un po' la coscienza dopo i tempi tristi del moralismo al oltranza.
    Con questa denuncia non sto esprimendo la nostalgia per i modelli del passato; e neppure cerco progetti di pastorale giovanile fondati sulla falsa ipotesi che le idee, chiare e sicure, le «certezze senza troppe incertezze» (come qualcuno oggi dice), siano in grado di far nascere cristiani impegnati.
    Credo nell'educazione: alla gradualità, ai tempi di maturazione, alla necessità di chiamare alla responsabilità, alla fatica di crescere e maturare nel ritmo incerto della vita quotidiana.
    Ma per reagire a quella cultura diffusa, che appiattisce tutto e spinge sempre in avanti il coraggio degli impegni seri, sono convinto che la proposta della fede deve risuonare come un evento affascinante e imprevedibile, che rassicura e sconvolge, nello stesso gesto. E deve essere sperimentato come la richiesta di una scelta, senza compromessi. La fede nel Signore Gesù è un evento di fronte al quale mai possiamo restare indifferenti, come se nulla di sconvolgente fosse capitato nella nostra vita.
    È possibile comunicare l'evangelo perché sia ancora «evangelo di vita», senza vanificare la sua imprevedibilità salvifica e la sua risonanza ecclesiale, restituendogli nello stesso tempo la sua forza di seduzione, anche per i giovani d'oggi?
    Il vissuto di molti gruppi e movimenti rassicura la nostra passione evangelizzatrice. Ci permette di misurarci lucidamente con i problemi proprio perché suggerisce soluzioni e mostra, concretamente e tenacemente, la loro realizzabilità.

    La prospettiva: il gruppo come mediazione privilegiata

    Incomincio con una precisazione.
    Frequentemente, quando si parla di gruppi e movimenti, si pone l'accento su quello che essi propongono nei loro documenti, nelle espressioni dei loro leaders, nella prassi di vita.
    Anche quando sono studiati dal punto di vista della catechesi, l'attenzione corre spontaneamente alla verifica sui «contenuti»: sulla loro ortodossia, sulla loro modernità, sulla loro incidenza politica, sul livello di reattività culturale.
    Questo modo di fare, insufficiente per analizzare i problemi della catechesi, non dà atto correttamente della forza propositiva dei gruppi e dei movimenti.
    Le ricerche sulla attuale situazione giovanile mettono in evidenza un dato assai interessante.
    Il confronto tra giovani aggregati a gruppi e giovani non aggregati fa risaltare come questa appartenenza sia la variabile più influente nella formazione degli atteggiamenti e nella ricostruzione dell'identità. Questa variabile è influenzata a sua volta dal tipo di gruppo a cui si appartiene. Questo, fuori gergo, significa che prima sta l'appartenenza ad un gruppo e poi sta il tipo di gruppo.
    La ragione è di facile interpretazione. Si collega a quel processo conosciuto come «pressione di conformità», che genera la stabilizzazione delle regole di normalità di gruppo e il consolidamento di canali di comunicazione e di identificazione.
    Nei gruppi ecclesiali questi processi sono ricompresi in un orizzonte di esplicita esperienza cristiana. E questo aiuta i giovani a ricostruire il personale sistema di significato proprio a partire da questa stessa esperienza. La fede viene così restituita alla sua funzione di «determinante»: opera nella struttura di personalità come elemento centrale di riorganizzazione e di risignificazione totalizzante.
    Questa consapevolezza mi spinge ad affrontare il tema in un modo che risulta abbastanza inedito rispetto ai modelli diffusi.
    Non uso i progetti dei diversi movimenti per tentare delle tipologie. E neppure studio la qualità della catechesi da essi realizzata a partire dai documenti prodotti o da un'analisi fenomenologica del loro vissuto.
    Preferisco invece raccogliere e sottolineare gli elementi comuni, quelli che risultano dalla qualità dello scambio linguistico, attivato a livello di base, in quella struttura sociale speciale che è il «gruppo».
    Mi preoccupo perciò più della relazione che dei contenuti (per usare la terminologia tecnica già introdotta precedentemente), perché la ricostruzione di un tessuto comunicativo e la forte capacità di consolidare o modificare atteggiamenti sono assicurati dalla rete di interazioni che lega persona a persona nel gruppo. Considero perciò il dato complessivo dell'associazionismo ecclesiale dalla prospettiva unificante della realtà di base: il gruppo, come insieme di individui, legati da una rete intensa di interazioni, e coinvolti per un fine comune e condiviso.
    È innegabile che questi gruppi sono favoriti dalla qualità dei contenuti di cui possono disporre, grazie alla qualità dei movimenti di cui sono espressione. La incidenza sulle singole persone è assicurata però dalle interazioni che scorrono nel tessuto sociale del gruppo: senza interazioni (e cioè senza una reale esperienza di gruppo) i migliori contenuti porterebbero a scarsi effetti; all'interno di un buon gruppo, invece, anche contenuti poveri sono in grado di sostenere l'iniziazione cristiana dei giovani.

    Modelli comunicativi nuovi

    Nei gruppi e nei movimenti la catechesi dispone inoltre di un modello, interessante e attuale, di «linguaggio religioso». Esso riesce a parlare di Dio e della esperienza religiosa, adeguando il referente e producendo sistemi simbolici espressivi.
    In questi gruppi, lo strumento linguistico utilizzato è l'esperienza di produzione di vita e di senso che si fa messaggio. Qui sta la novità della proposta.
    Questi gruppi sono per chi li frequenta una urgente esperienza di rassicurazione, di nuova qualità di vita, di ricostruzione della personale identità, di proposta di senso. Questa stessa esperienza viene interpretata e ricompresa nella sua ragione più intima e sollecitante. Diventa così un messaggio religioso: una parola su Dio.
    Si deve aggiungere la costatazione che la parola risuona di una particolarissima forza comunicativa perché è costituita dalla esperienza viva di testimoni che espandono nel gruppo le esperienze che essi hanno avuto per offrire le ragioni della loro presenza e del loro operare.
    Nella identificazione a questi testimoni e nella proposta globale che essi esprimono, i giovani incontrano la Chiesa come evento di salvezza che si fa annuncio e progetto.
    La forte risonanza comunitaria si pone inoltre come struttura di attendibilità a livello di contenuti dottrinali, di pratiche, di leadership.
    I modelli di vita incarnati nelle norme e nei leaders, il controllo sul dissenso fanno così di questi luoghi l'ambito privilegiato per definire, proporre, sperimentare e consolidare una nuova qualità di vita, umana e cristiana.
    Da una parte i giovani sono rassicurati e sostenuti attorno alla domanda etica che nasce spontanea, grazie al contatto con testimoni e valori. Tutto questo permette di reagire in modo efficace al clima di permissivismo e di soggettivismo che sfalda inesorabilmente ogni decisione etica.
    Dall'altra, l'interrogativo «come far parte della Chiesa?» trova nella intensa esperienza di appartenenza una concreta e convincente risposta.
    Si sperimenta così la Chiesa come un evento vicino, significativo e affascinante: la Chiesa è il gruppo stesso, gli educatori credenti, le celebrazioni della fede partecipate corresponsabilmente. Queste esperienze carismatiche permettono e sostengono il cammino di progressivo riavvicinamento nei confronti della istituzione ecclesiale.
    La Chiesa diventa veramente l'esperienza che si fa messaggio e il messaggio di questa esperienza.

    Fare proposte facendo fare esperienze

    Il vissuto dei gruppi e dei movimenti ecclesiali suggerisce come fare proposte, facendo dialogare forza propositiva e rispetto della libertà e responsabilità.
    Nelle logiche tradizionali, il diritto e la possibilità di collocare una proposta dove si cerca e si produce il senso della vita, era segnato prevalentemente dalla discriminante vero/falso. Quando una proposta era oggettivamente vera, possedeva il diritto di essere offerta con decisione. Al diritto del proponente corrispondeva il dovere di ogni persona saggia di accogliere.
    Al massimo, difficoltà e resistenze erano tollerate sul piano della prassi spicciola, per rispetto della costitutiva debolezza dell'uomo.
    Questo era il modello, diffuso e pacifico, in una cultura della oggettività, quando la ricerca personale sul senso della propria vita era risolta nella fatica di riscrivere, nelle righe della propria storia, il senso che la realtà si porta dentro, quasi strutturalmente.
    Oggi le logiche sono molto diverse.
    La discriminante è tracciata sulla frontiera della significatività.
    Solo quello che è sentito come soggettivamente significativo, perché si colloca dentro gli schemi culturali che una persona ha fatto ormai propri, merita di essere preso in considerazione.
    Ci si interroga sulla «verità» solo dopo aver risposto affermativamente alla domanda della significatività.
    Quando la proposta viene avvertita come poco significativa, è fuori gioco, perché è fuori dal gioco personale. Non basta alzare il tono della voce; non è sufficiente la convinzione di chi propone. Se non riesce a far esplodere l'indifferenza, viene considerata una delle tante voci, cui si riconosce il diritto di parlare perché dice cose che non contano.
    L'esodo verso l'attenzione e la decisione passa attraverso il fare esperienza. In un tempo di soggettivizzazione e di pluralismo, le offerte di senso diventano proposte, capaci di saturare la forte e sofferta ricerca di senso, quando sono esperienze di vita che diventano messaggio.
    Fare proposte significa «far fare esperienze». La forza comunicativa, evocata dalle esperienze, sollecita verso decisioni impegnative e coinvolgenti, anche in un tempo di basso investimento progettuale.

    GRUPPI, MOVIMENTI E CHIESA LOCALE

    Ho messo in rilievo i problemi che investono l'attuale catechesi giovanile e ho raccolto prospettive di soluzione dalla prassi corrente dei gruppi e movimenti ecclesiali.
    Potrei dedicare almeno lo stesso tempo per avanzare perplessità. La cosa è evidente. Nessuna proposta, nemmeno la più raffinata, può pretendersi libera da rischi.
    Per dire le cose in modo concreto, faccio qualche esempio.
    Non mi convince l'automatismo che segna molte esperienze di gruppi e movimenti. A sentire le testimonianze dei loro membri, sembra quasi che l'appartenenza operi una sostituzione meccanica del vecchio cuore di pietra con un cuore di carne.
    Mi lascia incerto il clima entusiasta che si respira. Ho paura che, sull'ali di un entusiasmo da continui neofiti, cresca la voglia di abbandonare la mischia del quotidiano o diventi troppo facile mistificare problemi e soluzioni con parole altisonanti. Preferisco la capacità critica e riflessiva, perché la immagino l'unica possibilità di sopravvivenza matura in una società complessa e pluralista.
    Non riesco mai a decifrare bene dove termina la pressione di conformità e dove incomincia la radicalità dell'esperienza di fede.
    Temo (anche se senza eccessivo disappunto, perché credo nell'Incarnazione) che i due momenti si intersechino e si compenetrino, fino a fare della seconda (la fede) la qualità, risignificante e critica, della prima (la pressione di gruppo). Mi piace però chiamare le cose per nome, evitando le troppo facili schematizzazioni riduttive.
    Ho paura che il linguaggio elaborato all'interno del gruppo serva benissimo per comunicare tra i suoi membri; ma rappresenti un ostacolo, quasi insormontabile, per una comunicazione allargata fuori dai confini di gruppo. In questo caso, la fede viene minacciata proprio nella sua qualità ecclesiale.
    Interrompo la litania degli esempi.
    Questi segni involutivi li conoscono tutti, come sono noti gli altri che non ho ricordato. Qualcuno se ne preoccupa fino al punto da dubitare del diritto alla cittadinanza ecclesiale per questi gruppi e movimenti. Molti avanzano condizioni o pretendono controlli che, in ultima analisi, svuotano la natura di queste esperienze.
    È già capitato così nei primi anni del dopo-concilio, quando le comunità ecclesiali giocavano timorose in difensiva di fronte al fenomeno nuovo, imprevisto e ingovernabile, del movimentismo ecclesiale. Lo testimoniano ora con coraggio alcuni recenti documenti del Magistero ecclesiale sull'argomento.
    Non credo che il problema possa essere risolto come in una partita a doppia entrata, decidendo il benessere generale in base alla prevalenza degli aspetti positivi su quelli negativi.
    La prospettiva è davvero diversa: riscrivere, nella logica costitutiva del gruppo, alcune esigenze irrinunciabili per una corretta catechesi ecclesiale.
    Anche in questo contesto ritorna con parole diverse, una esigenza che ha percorso tutta la mia ricerca. Come ho ricordato ormai molte volte, ogni comunicazione rappresenta una trama di contenuti e relazioni.
    Alle difficoltà e ai rischi denunciati non possiamo reagire aumentando o modificando solo la proposta dei contenuti. Facendo così, parliamo una lingua diversa da quella dominante nel gruppo. E, peggio, rinunciamo al punto di forza, dal momento che il controllo sui disturbi comunicativi è assicurato dalla qualità della relazione.
    Non mi stanco di ricordarlo a gente, come noi, cresciuta in una visione intellettualistica e individualistica.
    Il gruppo va assunto invece in tutta la sua valenza comunicativa e i correttivi vanno apportati sul ritmo delle sue dinamiche. La catechesi propone un progetto di vita cristiana che funziona da punto di riferimento normativo per lo stile di gruppo e per gli interventi che lo possono assicurare.
    Non mi soffermo a spiegare le procedure, perché il mio discorso andrebbe troppo lontano. Suggerisco invece il loro esito su due livelli:
    - una catechesi responsabilizzante, per mettere la persona al centro dentro il gruppo;
    - una catechesi ecclesiale, per dire la propria fede nella Chiesa, anche dentro il linguaggio di gruppo.

    La persona al centro: una catechesi responsabilizzante

    Molti testi di dinamica di gruppo mettono in risalto una tendenza diffusa nei gruppi primari. Essi sono portati a creare identificazione al gruppo stesso, sognato e sperimentato come un essere vitale, capace di soddisfare ogni attesa affettiva. Per consolidare questa illusione, i membri sono disposti a sacrificare tutti i desideri e tutti i progetti.
    Alcuni gruppi cercano di superare questo modello paradisiaco e si buttano all'azione. Purtroppo, in un tempo difficile come è il nostro, è incombente, il rischio di venire risospinti violentemente nel grembo rassicurante dei propri sogni.
    Il gruppo si inventa così un nuovo principio di sopravvivenza: le energie, che dovrebbero essere canalizzate nei compiti, sono invece progressivamente impegnate nello sforzo di autoconservazione. Sembra che la vita scorra tranquilla, nonostante le crisi. Si è prodotto invece solo un processo pericoloso di sublimazione: gli ostacoli non sono stati superati, ma solamente rimossi.
    Generalmente sono tre gli atteggiamenti che permettono al gruppo di sopravvivere nonostante la crisi diffusa: la dipendenza, l'aggressività, l'utopismo.
    L'atteggiamento di dipendenza è legato al tentativo di recuperare sicurezza mediante l'accettazione di dipendere supinamente da qualche leader, interno o esterno al gruppo, oppure dal proprio passato, considerato come particolarmente glorioso e affascinante.
    Attraverso atteggiamenti di aggressività si cerca di rimuovere lo stato di crisi lanciandosi contro cose e persone da cui ci si sente minacciati, oppure assumendo una reazione, dura e continua, verso l'esterno.
    La sicurezza può essere anche recuperata proiettandosi continuamente verso un domani radioso, sempre irraggiungibile, e per questo utopico. Qualche volta questo atteggiamento assume anche i toni di un idillio a sfondo sessuale.
    Basta uno sguardo sul panorama dei gruppi ecclesiali per costatare come questi rischi siano tutt'altro che remoti. Dipendenza, aggressività, utopia risuonano facilmente nell'esistenza cristiana. Sembrano le caratteristiche più raffinate del gruppo ecclesiale impegnato.
    Rileggendo le cose in termini attenti e critici, ci si accorge però che tra il modello evangelico e quello evocato da queste considerazioni c'è una profonda insanabile differenza. Nell'esistenza credente siamo sollecitati a riconsegnarci a Chi, fuori di noi, è la fonte gratuita e interpellante della nostra speranza e del nostro impegno. Nel gruppo, catturato da questi atteggiamenti sublimatori, la ragione è invece il gruppo stesso, ripiegato sulla propria storia.
    Qui si colloca la catechesi, la sua funzione, lo stile in cui si realizza, i contenuti che fa circolare, i modelli verso cui cerca il consenso.
    Nel gruppo, preoccupato da queste minacce involutive, la catechesi risuona come sollecitazione all'incontro con il Signore della libertà e della responsabilità, sollecitante a giocare l'amore alla vita e l'impegno per la sua promozione, piantando la croce al centro dell'esperienza quotidiana.
    Nasce così un modello di gruppo, più aperto e responsabilizzante di quello che ogni giorno costatiamo. Gli atti decisivi sono sempre compiuti nella solitudine della propria responsabilità, perché solo personalmente si può credere, sperare, amare, incontrare Dio, attuare nella propria vita l'evento di tale incontro. Queste azioni sono però vissute nel gruppo come luogo di produzione e di sostegno della vita: la solidarietà del singolo con gli altri risulta così profonda che il suo individuale essere salvo non può venir separato dal suo essere nel gruppo.

    Dire la propria fede nel linguaggio della Chiesa: una catechesi ecclesiale

    La seconda preoccupazione riguarda il rapporto del gruppo (e del movimento) con la grande comunità ecclesiale e con il suo linguaggio.
    Nonostante le dichiarazioni contrarie, un gruppo, impegnato e fortemente coeso, è continuamente tentato di costituirsi come «chiesa parallela», «(...) o rifugiandosi in un consolatorio devozionalismo intimistico talora non immune da un certo fanatismo religioso, o tradendo una forma sottile di individualismo aristocratico, oppure praticando un integralismo comunitario, chiuso ad ogni tipo di rapporto che non sia quello imposto da loro. Ciò potrebbe alimentare la presunzione di realizzare attraverso il gruppo il 'tutto' della Chiesa e della vita cristiana, o almeno di esserne l'espressione migliore» (A. Favale).
    A questa tentazione non si può reagire, come purtroppo capita, cercando un rapporto tra gruppo e istituzione solo di tipo funzionalista: il gruppo non ha nulla di specifico e di autonomo; funziona solo come «riserva di caccia» dell'istituzione. Il gruppo è così centrato unicamente sul compito verso l'esterno. La legge dell'efficienza schiaccia ogni ricerca di gratificazione. Immagino una soluzione alternativa. La descrivo con alcune battute.
    Il gruppo, per assolvere i suoi compiti ecclesiali, deve risultare davvero «mondo vitale» per i suoi membri, luogo di intensi rapporti primari. Solo questo gruppo assicura il luogo fondamentale in cui i giovani vivono l'esperienza di Chiesa in un tempo di crisi e di pluralismo. Nel gruppo e attraverso il gruppo essi ricostruiscono progressivamente la loro identità cristiana. Nel gruppo elaborano un linguaggio per dire la loro fede, capace di saldare in un'unica parola la loro soggettività e l'oggettività dell'esperienza credente. Nel gruppo essi celebrano la loro vita quotidiana che si fa salvata in Gesù Cristo. Nel gruppo apprendono a riconoscere la Chiesa come progetto donato, da accogliere nella conversione e nella lode.
    A tutto questo tende la catechesi, detta e vissuta nel gruppo. Attraverso il gruppo, però, i giovani fanno esperienza di un'appartenenza ecclesiale più vasta e diversificata. Per questo, viene ricercato costantemente il confronto con le altre espressioni ecclesiali e con quelle realizzazioni istituzionali di Chiesa, che rappresentano l'evento normativo di ecclesialità. Imparano così a superare le diverse soggettività nell'oggettività del dato ecclesiale, in una storia collettiva, che fa del gruppo un frammento del grande popolo dei credenti in Gesù Cristo.
    In questo modello, come si nota, l'appartenenza vitale è al gruppo, perché quando i giovani sono sollecitati a scegliere tra una doppia appartenenza al gruppo e all'istituzione ecclesiale, il conflitto si risolve facilmente con l'emarginazione della istanza più debole e meno emotivamente significativa.
    Per questo prevale e viene riconosciuto il linguaggio del gruppo per dire e celebrare la fede, anche se risulta parzialmente diverso dalle espressioni ufficiali della comunità ecclesiale.
    La catechesi riconosce così, contro ogni pretesa di assurdo oggettivismo, che l'atteggiamento con cui il credente esprime la sua esperienza di fede segna sempre i contenuti della sua fede ecclesiale. Per questo esiste un linguaggio della fede, specifico per ogni persona e, soprattutto, per ogni gruppo. E non è corretto verificarlo con la stessa logica fredda con cui possiamo valutare i programmi di un computer.
    Questa stessa esperienza di fede deve però crescere progressivamente verso l'accoglienza dei contenuti oggettivi dell'esistenza cristiana, come sono documentati nella coscienza attuale della comunità ecclesiale. Il linguaggio di fede del gruppo si apre perciò continuamente verso il linguaggio comunitario della fede. Nel gruppo e attraverso il gruppo, ogni giovane si immerge così nella più vasta e complessiva appartenenza alla Chiesa.

    Quasi una conclusione

    Ho suggerito problemi e soluzioni.
    Ho cercato di dare voce alla prassi quotidiana di molte comunità ecclesiali, di movimenti, gruppi, operatori pastorali. Non sono in grado di giustificare le singole affermazioni, citando puntigliosamente fatti e documenti. Ho descritto esperienze del presente e ho sognato un po' di futuro. Questo rassicura la mia proposta. Mi aiuta a formularla con rinnovata speranza, anche se stanno affiorando, qua e là, resistenze e proposte involutive.


    T e r z a
    p a g i n A


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