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    Criteri per un corretto annuncio di Cristo ai giovani



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1980-4-2)


    Oggi, educatori della fede e comunità ecclesiali stanno riscoprendo il «coraggio» dell'annuncio a piena voce di Gesù Cristo.
    Ci ha sollecitati la parola e la prassi del Papa. E abbiamo risposto con entusiasmo, costatando la carica profetica della Parola.
    Gli educatori e le comunità più attente si interrogano però sul modo di realizzare questo annuncio: non per perdersi nuovamente nei complicati labirinti delle incertezze tattiche, ma per utilizzare saggiamente l'esperienza maturata in questi difficili anni.
    Quando l'annuncio di Gesù Cristo è corretto?
    La ricerca sui criteri investe solo l'apparato metodologico oppure riguarda anche la rivisitazione dei contenuti?
    Note di pastorale giovanile ha già portato avanti una sua proposta ben precisa, attraverso l'insistenza sui processi interdisciplinari, anche in questo ambito, per fedeltà al principio dell'Incarnazione. Evidenziando cose già dette in altri contesti (raccomandiamo soprattutto il dossier di 1977/1) e riformulando il tutto alla luce dei problemi nuovi che l'attuale prassi ecclesiale ci rilancia, ecco un tentativo di criteriologia pastorale.
    L'articolo non ha la pretesa di risolvere le difficoltà che ogni giorno incontriamo. Considerando invece quello che sta capitando, ci chiede una pausa di riflessione e di verifica.

    COME STABILIRE I CRITERI

    Chi si propone il compito di suggerire criteri per annunciare Gesù Cristo ai giovani d'oggi, se si guarda un poco d'attorno, scopre facilmente che il terreno della sua ricerca è già occupato abbondantemente. Non mancano infatti gli annunciatori di Gesù Cristo, persone e istituzioni. Sono piuttosto in calo, almeno numerico, quelli a cui questo annuncio vorrebbe rivolgersi. Gli verrebbe voglia - a questo presunto ricercatore di criteri - di ritirarsi in buon ordine, per non fare il giudice saccente che analizza la vita nel chiuso delle sue sicurezze teoriche.
    Ha senso quindi questa ricerca di criteri che mi è sollecitata? È utile a qualcosa?
    L'interrogativo ha per me una risposta ampiamente positiva, a determinate condizioni che ne indicano il significato, l'ambito e il limite. Devo spendere una parola per suggerire queste «condizioni».
    Mediante questa riflessione introduttiva, ritaglio già un criterio globale (anche se ancora piuttosto formale) nel cui spirito collocare i criteri operativi (di stampo più sostanziale) che suggerire nella seconda parte.

    Un problema epistemologico

    Il primo problema da affrontare è di natura epistemologica. Mi spiego.
    Stiamo cercando dei criteri per il corretto annuncio di Gesù Cristo. Non è possibile concludere in qualcosa di valido, se non dopo aver stabilito lo statuto e l'ambito di questa ricerca.
    Stiamo cercando come far passare dei contenuti o stiamo cercando quali contenuti privilegiare perché possano passare bene, con i giovani d'oggi sappiamo già tutto su Gesù Cristo e ci interroghiamo sul modo con cui parlarne oggi, oppure cerchiamo di capire chi è Gesù Cristo e chi è il cristiano, sollecitati anche dai problemi che il contesto socioculturale e l'attuale condizione giovanile ci lanciano?
    Quali discipline hanno voce in capitolo per fare l'una o l'altra cosa?
    Ho proposto delle alternative. Possono sembrare forse un po' radicali. Ma credo rappresentino i poli estremi dei problemi concreti che ogni operatore pastorale si pone, almeno a livello implicito. Come uscirne?
    Ci vuole qualcuno che abbia l'autorevolezza di suggerire una direzione di marcia.
    Chi possiede questa funzione?
    Oggi non siamo troppo facili a delegare ad altri compiti così impegnativi, perché ciascuno (a titolo personale o per la sua competenza) sente di avere qualcosa di importante da dire in merito. Ma non basta neppure sedersi tutti alla pari attorno al tavolo delle trattative, per cercare il facile compromesso che non esclude nessuna ipotesi.
    Come si vede, gli interrogativi chiamano in causa il difficile rapporto tra la teologia e le altre scienze (quelle della comunicazione e dell'educazione, per esempio); e richiamano un modello ecclesiologico per definire il ministero magisteriale nella comunità ecclesiale.
    In questo senso ho detto che si tratta di un problema epistemologico. Non è mio compito affrontarlo in termini teorici. Parto invece dalle conclusioni in cui mi riconosco,[1] per risolvere gli interrogativi che ho lanciato.

    Due modelli inadeguati

    Due modelli non mi sembrano corretti, anche se riconosco che non sono assenti dalla prassi di operatori e di comunità.
    Il primo modello rifiuta il confronto con criteri di valutazione. Si tende, al contrario, a riconoscere nell'esperienza soggettiva del singolo operatore o del gruppo di appartenenza, il criterio di valutazione. Quello che si sta realizzando, quello che sembra particolarmente urgente (e cioè l'esperienza soggettiva) è quanto conviene fare.
    Spesso questo modello si accompagna ad un'ampia tolleranza nei confronti delle operazioni diverse: una tolleranza che sembra facilmente la tassa da pagare per avere diritto alla propria esistenza «diversa».
    In questo modello le scienze descrittive e progettative hanno l'ultima e decisiva parola. Anche se in teoria si riconosce l'esistenza di contenuti oggettivi, la prassi concreta ci sembra preoccupata di rispettare più le domande immediate dei giovani che le esigenze profetiche di cui è carico l'evento da annunciare.[2]
    La lettura della realtà e gli interventi per modificarla non avvengono «in uno sguardo di fede», come richiederebbe un corretto processo interdisciplinare in ambito pastorale.
    Il secondo modello, egualmente inadeguato, restringe la ricerca sui criteri alla sola prospettiva metodologica.
    La teologia definisce in modo autonomo il contenuto dell'annuncio; e si tratta evidentemente di un contenuto oggettivo, stabilizzato al di fuori della mischia problematica della storia. La teologia interroga poi le scienze metodologiche, per raccogliere suggerimenti circa il modo di rendere accessibile e comunicabile questo contenuto. Al massimo, si può giungere al compromesso provvisorio dell'adattamento, per la temporanea incapacità dei destinatari di cogliere tutta la ricchezza dell'evento.
    In questa prospettiva, la ricerca sui criteri è tutta sul «come» fare; non ci si interroga affatto sul «perché» e sul «cosa» fare. So che questo modello ha costituito la punta più avanzata dei primi passi del rinnovamento pastorale: di questo cammino faticoso noi raccogliamo gioiosamente i frutti.[3]
    Lo valuto globalmente inadeguato perché non realizza quel corretto dialogo interdisciplinare a cui la coscienza ermeneutica sollecita ogni processo pastorale.

    Una ricerca che investe tutto l'annuncio

    La ricerca sui criteri non può investire solo l'apparato metodologico, né può risolversi in un provvisorio e controllato adattamento.
    Per fedeltà all'evento dell'Incarnazione che determina lo statuto della fede, come mistero che si rivela e come obbedienza personale a questo dono interpellante,[4] la ricerca sui criteri interessa tutto l'annuncio e va risolta mediante approcci interdisciplinari, con largo uso, per esempio, delle scienze della comunicazione.
    Questa è la mia risposta agli interrogativi con cui ho aperto il paragrafo; da questa prospettiva imposto la mia ricerca.
    Propongo alla vostra riflessione alcuni dati che mi sembrano patrimonio comune nell'autocoscienza della comunità ecclesiale. Questo confronto serve a motivare meglio il contenuto della mia affermazione e a predisporre materiale di lavoro che utilizzerò in seguito, per definire i concreti criteri per l'annuncio.
    Primo dato importante: non si da annuncio «puro» di Gesù Cristo, ma ogni parola su Gesù Cristo è sempre parola pronunciata all'interno di una esperienza umana, attorno al grande evento di Dio, misterioso e radicalmente inaccessibile.[5] Proprio la parola e l'esperienza umana rendono questo evento vicino e incontrabile. Come in Gesù di Nazareth.
    Lo ricorda anche la Dei Verbum: «Le parole di Dio espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlar dell'uomo, come già il Verbo dell'Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo» (DV 13).
    L'annuncio che la comunità ecclesiale fa di Gesù Cristo è sempre tra fede e storia: traduce nelle categorie soggettive della fede un evento situato oggettivamente nel cuore della storia.
    La presenza dello Spirito nella sua Chiesa ci assicura che la nostra parola di fede su Gesù Cristo è sempre parola rivelante il mistero dell'evento; è quindi parola certa, capace di suscitare nuove esperienze di fede. Questo, evidentemente, a livelli molto diversi, come ci ricorda la riflessione teologica sull'ispirazione e sui ministeri.
    Il secondo dato che interessa la nostra ricerca ripete un'altra considerazione tradizionale nell'autocoscienza della Chiesa. La indico solo per accenni.
    L'annuncio di Gesù Cristo investe sempre l'esistenza personale di chi parla e di chi ascolta. Esso suscita e chiede una decisione esistenziale.
    Mi sembra importante ricordare che questo coinvolgimento vitale non è l'esito esterno all'annuncio, la verifica che dice se abbiamo capito bene le cose che sono state proposte. Esso è momento dell'annuncio, perché non si tratta di sapere chi è Gesù Cristo, ma di accoglierlo come il salvatore (dunque in una novità di vita) o, al contrario, di decidere un uso suicida della nostra autonomia e libertà.
    Il terzo dato affronta un problema più complesso e, forse per questo, un po' disatteso. Esso è emerso pesantemente nella riflessione pastorale quando abbiamo incominciato a fare i conti più seriamente con le scienze della comunicazione.[6]
    Al contrario di quanto propone un devozionalismo follemente antropomorfico, non possiamo mai dimenticare che l'incontro con Gesù Cristo è atipico rispetto a tutti gli altri incontri umani. Essi si realizzano in un dialogo immediato, in cui il processo di andata-ritorno è verificato abbastanza facilmente. Certo, anche negli incontri umani non tutto si condensa in quello che appare visibilmente, perché c'è un misterioso scambio di segnali che percorre sempre le vie profonde dell'esistenza interpersonale. Ma il rapporto tra quanto si vede e quanto scorre nel profondo e normalmente omogeneo: il segno appella subito al suo significato, o almeno c'è un contesto relazionale capace di suggerire le interpretazioni adeguate.
    L'incontro con Gesù Cristo avviene invece nel codice di mediazioni simboliche in cui lo scarto tra segno, significato e realtà è molto alto: il visibile nasconde molto più di quanto riveli. Nell'incontro con Gesù Cristo, il mistero di salvezza che le mediazioni veicolano è infatti radicalmente indecifrabile. Si richiede la decisione di fede, per interpretare quanto si sta realizzando sotto lo svuotamento del segno.
    Questo è avvenuto per coloro che hanno incontrato fisicamente Gesù di Nazareth. Capita ancora molto di più nell'incontro con le mediazioni che continuano oggi la sua presenza salvifica.
    Il tutto è complicato dalla particolare sensibilità dei giovani d'oggi. Essi infatti da una parte hanno bisogno di consolidare nella loro struttura di personalità i tratti dell'incontro, attraverso opportuni sostegni educativi, perché non si riduca a momentaneo e sterile entusiasmo; dall'altra, dal clima in cui vivono, sono stati educati alla concretezza e all'immediatezza esasperata, fino a considerare come alienante tutto ciò che richiede riflessione, attesa, lettura in profondità. L'ermeneutica ha inoltre coperto di sospetto molte mediazioni simboliche in cui dovrebbe svolgersi l'incontro con Gesù Cristo, perché sono costruite all'interno di modelli antropologici lontani da quelli correnti.
    E così la difficoltà dell'approccio simbolico si aggrava a causa della sua indecifrabilità culturale.[7]

    Il problema del «luogo teologico»

    Ancora sul piano introduttivo devo affrontare un secondo problema. L'ho intitolato del «luogo teologico», perché si riferisce alla necessità di stabilire quale possa essere il luogo in cui rinvenire i criteri che stiamo cercando.
    Apriamo l'Evangelo? Ci guardiamo d'attorno? Consultiamo un trattato di teologia o sfogliamo i documenti del Magistero?
    La risposta a queste domande serve a mettere in chiaro il mio modo di procedere e soprattutto abilita ciascuno, se condivide le premesse, a diventare, nella sua situazione pastorale concreta, ricercatore e testimone di questi criteri.
    Sapendo di dire cose risapute, me la cavo con poche battute.

    Un metodo empirico-critico

    Il luogo teologico fondamentale, in cui raccogliere suggerimenti per l'azione pastorale, è la prassi concreta dei credenti nella comunità ecclesiale.
    So che si tratta di prassi molto diversificate, spesso persino contraddittorie. Ma se l'annuncio-incontro con Gesù Cristo è vita, è esperienza, dobbiamo confrontarci sinceramente con la vita di coloro che si riconoscono nel Signore risorto.
    Ogni incontro con Gesù Cristo deve però lasciarsi giudicare e sollecitare alla conversione: L'incontro è prima di tutto «riconoscimento» per essere stati già incontrati. Questo evento oggettivo misura ogni prassi.
    Questa mia ricerca è quindi animata da un profondo, credente, atteggiamento di ascolto.
    Con linguaggio tecnico, si direbbe che è costruita mediante un metodo empirico-critico.
    Un metodo empirico (che parte cioè dalla scoperta della realtà) ma critico, perché cerco di comprendere e interpretare la prassi, collocandomi sempre dalla prospettiva che compete all'evento normativo della fede.
    Come si vede, il metodo empirico-critico rifiuta il formalismo che chiude gli occhi sulla realtà e lo spontaneismo, che fa della realtà, magari interpretata con schemi rassegnati, il principio di ogni operazione educativa e pastorale.

    E cioè: un annuncio-incontro nella Chiesa

    Con questo metodo si salva una esigenza fondamentale dell'annuncio di Gesù Cristo: la sua radicale collocazione nella Chiesa.
    Affermando, come ho fatto, la centralità ecclesiale, ripeto infatti con altre parole quello che ho detto a proposito del metodo empirico-critico. La comunità ecclesiale è il luogo dove si dice e si incontra Gesù Cristo (da qui la necessità di ascoltare le prassi concrete). La comunità ecclesiale è anche il luogo dove siamo sollecitati ad annunciare e ad incontrare Gesù Cristo nella verità (da qui il confronto con i documenti della fede).
    Voglio dare un contenuto operativo a queste esigenze.
    Tenendo conto in modo interdisciplinare del dato teologico e degli attuali bisogni giovanili, vedo tre compiti urgenti per le comunità ecclesiali.
    Nell'annuncio-incontro con Gesù Cristo, la comunità ecclesiale è prima di tutto luogo di rassicurazione, luogo dove si fa esperienza che ogni nostro faticoso cammino in umanità è già dentro la salvezza che è Gesù Cristo, anche se va superato e autenticato in una conversione permanente.[8]
    Lo dice molto bene questo invito che riprendo dalle parole di un nostro Vescovo: ai giovani sembrano lontani dalla Chiesa quasi come categoria; così da poter anche in un certo senso ribattere che forse è la Chiesa lontana da loro, perché troppo diversa dal loro modo di parlare, pensare, agire. E mi chiedo allora se nella situazione attuale non sia necessario che chi si presenta con l'etichetta di Chiesa rassicuri questi fratelli - e non solo a parole - che il loro comportamento, che la loro ansia è già Chiesa, perché è presenza viva di Cristo e della sua fraternità: e che allora l'amicizia che la Chiesa visibile offre è l'annuncio gioioso che Cristo è in, loro» (mons. L. Bettazzi).
    La comunità ecclesiale si pone poi come luogo di proposta e di giudizio profetico, attraverso i testimoni oggettivi della fede e il ministero magisteriale.
    La comunità ecclesiale realizza così una continua istanza critica, per aiutarci tutti, singoli e gruppi, a verificare se il nostro incontro con Gesù Cristo, nella irrepetibile soggettività che lo caratterizza, è la confessione della nostra decisione per Gesù il Signore.
    Infine, la comunità ecclesiale si pone come luogo in cui si fa «memoria»: come movimento di un popolo, al cui interno si annuncia e si incontra Gesù Cristo e nel cui vortice entra con entusiasmo colui che lo confessa suo Signore.
    La comunità ecclesiale, testimoniando la sua memoria, allaccia il presente al passato, nel ricordo delle cose meravigliose che Dio ha compiuto per il suo popolo; e lo rilancia verso il futuro della promessa. La storia viene così vissuta e celebrata come storia della salvezza in Gesù Cristo.

    UNA PROPOSTA DI CRITERI

    Siamo arrivati a buon punto.
    Non abbiamo ancora cose molto concrete tra le mani, perché l'obiettivo della prima parte della mia proposta era, come dicevo, prevalentemente di ordine formale.
    Abbiamo però definito il metodo di lavoro e abbiamo costatato che i criteri che siamo cercando, li troviamo immergendoci in modo critico nella vita delle comunità ecclesiali.
    Possiamo ora riprendere il cammino.
    Applicando questo criterio globale, suggerisco i punti fermi di ogni annuncio di Gesù Cristo ai giovani d'oggi. Ne risulta un insieme di criteri organizzati in un progetto.
    Per evidenti ragioni metodologiche debbo sviluppare la proposta a ondate successive. È importante ricordarci però che si tratta di un itinerario unico e indivisibile.

    Un annuncio nella logica domanda-risposta?

    «Il rinnovamento della catechesi», con l'autorevolezza ecclesiale che gli compete, si inserisce nella nostra ricerca di criteri con una affermazione molto perentoria: «Con la grazia dello Spirito Santo, cresce la virtù della fede se il messaggio cristiano è appreso e assimilato come buona novella, nel significato salvifico che ha per la vita quotidiana dell'uomo. La parola di Dio deve apparire ad ognuno come un'apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori ed insieme una soddisfazione alle proprie aspirazioni. Diventerà agevolmente motivo e criterio per tutte le valutazioni e le scelte della vita» (RdC 52).
    L'accento, come si vede, è posto sulla percezione soggettiva del significato salvifico dell'annuncio: sul fatto cioè che i destinatari dell'annuncio lo avvertono qui-ora come una parola che ha qualcosa da dire in merito alla loro fame di vita, di significato, di felicità.
    Solo quando la parola pronunciata nell'annuncio di Gesù Cristo è compresa, dal suo destinatario, come parola significativa per, me, la grazia dello Spirito fa crescere la virtù della fede.
    Giustamente RdC motiva questa sua affermazione pastorale con il riferimento all'evento dell'Incarnazione. Perché solo meditando l'imprevedibile «svuotamento» di Fil 2, si riesce a condividere questa prassi così lontana dall'immagine efficientista di Dio che ci piacerebbe proclamare.[9]
    Questa riflessione teologica ci suggerisce dunque il primo criterio pratico: l'annuncio di Gesù Cristo, per sollecitare alla fede, e non ridursi a sterile diffusione di informazioni, deve integrarsi in una precedente domanda di senso e di salvezza.
    La verità è in Gesù Cristo sempre verità salvifica, verità che chiama ogni persona per nome.
    Questa esigenza non è sempre stata compresa e vissuta bene nella comunità ecclesiale italiana, in questi ultimi anni. Ho l'impressione che non poche volte ci si sia collocati in un folle gioco di reazioni reciproche, nei due estremi opposti: di un annuncio significativo che tradiva la sua verità costitutiva, producendo un significato alienante; o di una verità fredda e impersonale, che svuotava la forza provocante della Parola di salvezza.
    Per evitare pericolosi fraintendimenti, debbo approfondire ulteriormente questo primo criterio.

    Sollecitare e educare le domande

    Non credo che sia possibile dare facilmente per scontato che il nostro annuncio di Gesù Cristo venga avvertito dai giovani d'oggi come significativo, come proposta di salvezza.
    Le ragioni sono molte: alcune riguardano il modo di realizzare l'annuncio sul piano del contenuto e della relazione (e ci ritorneremo); altre invece sono legate al fatto che le domande esistenziali dei giovani sono, nella loro risonanza più immediata, su di un'altra lunghezza d'onda.
    Si parla molto di «nuove domande religiose» dei giovani. È un fatto relativamente nuovo e molto interessante. Certamente esse rappresentano il terreno privilegiato del loro incontro con Gesù Cristo. Ma non credo sia possibile concludere troppo presto il processo, convinti che se loro hanno le domande, noi abbiamo da sempre prontissima la risposta. Basta ritrovare il coraggio di annunciarla a piena voce... Prima di tutto ci sono molti giovani che, almeno superficialmente, non si pongono alcuna domanda di senso. Hanno altri problemi... La riflessione pedagogica e la prassi educativa confermano che sotto la scorza di una apparente sicurezza, anche in questi giovani esiste la ricerca di una nuova qualità di vita. Se viene educata, può diventare vera «domanda religiosa». Di fatto, però, per il momento hanno interessi e attese ben diverse.
    Altri giovani vivono già una profonda ricerca di significati, una esperienza che possiamo definire largamente religiosa. Per molti di essi, però, si tratta di una domanda giocata nella sfera autonoma e secolare dell'immanente. Il groviglio quotidiano dell'esistenza pone i problemi; la soluzione quindi va cercata dentro questa logica. Le proposte che spingono ad un salto troppo brusco sono avvertite come pericolose e alienanti.
    Ci sono giovani che vivono protesi al trascendente. Altri hanno esplicita fame e sete di Gesù Cristo. E aspettano qualcuno che spezzi loro questo pane. Oggi sono sicuramente molti, bruciati dal crollo di tante speranze messianiche. L'origine della loro domanda religiosa spinge però facilmente a ricercare in Gesù Cristo una rassicurazione psicologica, che sgancia dalla storia quotidiana.
    Non vorrei aver suggerito solo i tratti negativi di un panorama che è invece molto più confortante. Perché sono relativamente molti i giovani che cercano Gesù Cristo, immersi nella fatica di seminare nell'oggi i germi del Regno che verrà (GS 39).
    Una ragione giustifica però questi rilievi problematici: la comunità ecclesiale vuole annunciare Gesù Cristo a tutti, per essere segno dell'amore del Padre che in Gesù Cristo chiama tutti gli uomini alla salvezza.
    Non siamo perciò soddisfatti di coloro che stanno al sicuro, perché ci inquietano i molti che si trovano allo sbaraglio.
    Cerchiamo un modello di annuncio di Gesù Cristo che sia, almeno potenzialmente, sulla misura dei giovani meno sensibili, dei più poveri, di quelli fisicamente più lontani. Siamo convinti che dialogando con questi giovani, annunciamo una parola di speranza per tutti. Per questo, la prima esigenza di un corretto annuncio, il primo criterio operativo, investe la spontanea domanda giovanile. Possiamo annunciare Gesù Cristo solo se avremo sollecitato e educato la vita dei giovani nella direzione di una profonda appassionata attesa di senso, di apertura al dono, di disposizione riflessa alla «domanda» di Gesù Cristo.

    La forza interpellante e provocante dell'annuncio

    Gesù Cristo non è la punta più profonda delle domande che il giova ne si pone sul senso della propria vita; non è l'esito assicurato a chi percorre fino in fondo il processo di approfondimento della propria esperienza.
    Tra gli interrogativi umani autentici e l'annuncio di Gesù Cristo c'è continuità di significato, perché Gesù Cristo è la risposta di Dio a queste domande. Ma c'è contemporaneamente un salto radicale, perché egli è fondamentalmente dono gratuito, proposta interpellante. Non basta quindi comprendere a fondo la propria esistenza quotidiana, per incontrare Gesù Cristo.
    È necessario sempre un annuncio.
    Solo annunciando questo evento che ci interpella, possiamo parlare di Gesù Cristo.[10]
    La comunità ecclesiale inserisce il suo annuncio nelle domande giovanili, ma non riduce mai la sua missione a dare risposte solo quando è interrogata. Essa è consapevole che, annunciando Gesù Cristo a voce alta, sollecita e educa anche la domanda giovanile nei suoi confronti.

    L'annuncio è «racconto di una storia»

    Quale annuncio?
    Perché il nostro annuncio di Gesù Cristo possa risultare salvifico, credo sia fondamentale e urgente riscoprire, soprattutto con i giovani d'oggi, uno stile che sappia ricostruire la struttura linguistica dell'evangelo e la sua potenza di vita.
    Mi spiego.
    Pensiamo alle pagine degli Atti (At 3.4) in cui si narra dello zoppo del villaggio, guarito da Pietro quando gli raccontò la storia di Gesù. Ogni giorno, allo stesso posto, appena notato da passanti frettolosi che, ora sorpresi o annoiati, ora con un cenno di saluto, gettano una monetina e vanno oltre, un uomo solitario sta seduto nel suo cantuccio: lo zoppo del villaggio. «C'era un uomo paralitico dalla nascita che ogni giorno veniva portato alla porta del tempio chiamata "la bella" e là seduto chiedeva l'elemosina alla gente che entrava nel tempio». Un giorno lo vide Pietro, un seguace del Nazareno. Ne seguì una conversazione. Più tardi il popolo vide lo zoppo del villaggio camminare, sano. «Riconobbero in lui l'uomo che era seduto sempre presso la Porta Bella del tempio a mendicare e si meravigliarono di quanto era accaduto». Pietro dopo aver parlato al popolo, disse alle autorità ebraiche che dopo il fatto si immischiarono nella faccenda: «A voi tutti e a tutto il popolo d'Israele sia noto che nel nome di Gesù Cristo il Nazareno che voi avete crocifisso ma che Dio ha risuscitato dai morti, quest'uomo sta davanti a voi sano. In nessun altro c'è salvezza e nessun altro Nome è stato dato a noi uomini in cui - secondo il piano di salvezza di Dio - possiamo salvarci».
    Ho già ricordato che ogni annuncio di Gesù Cristo è sempre tra fede e storia: è cioè il racconto, intessuto di fede, dell'esperienza suscitata in noi dal grande evento storico incontrato, Gesù di Nazareth, parola di Dio che salva.
    L'annuncio si fa «racconto»: l'evento originale e fondante viene espresso nell'entusiasmo della fede del credente.
    Questo racconto suscita cose meravigliose, come per lo zoppo del villaggio, perché chi parla di Gesù Cristo realizza attorno a sé i segni del suo amore e della sua salvezza. Ancora i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i sordi odono, i poveri ricevono una parola di speranza. Quello che è avvenuto nella comunità apostolica, deve ripetersi oggi nelle nostre comunità ecclesiali.
    Questo significa, secondo me, abbandonare ogni falsa pretesa oggettivistica e piegare anche l'irrinunciabile dimensione dottrinale e morale ad una intensa esperienza globale, che coinvolga la storicità dell'evento di Dio, la fede di chi annuncia e la speranza di chi ascolta. Come lo scriba evangelico, dalla sua fede nel Signore Gesù la comunità ecclesiale saprà trovare la parola «giusta», la parola di salvezza, per ogni concreta situazione: «molti giovani attanagliati dall'angoscia, essa racconterà una storia che produce speranza e gioia di vivere; ai, giovani sicuri nella potenza infernale del consumo, della ideologia immanentista, del denaro, del sesso, della violenza, essa racconterà la storia provocante di Gesù che genera la vita dalla sua morte; ai poveri che cercano il pane del lavoro, della sicurezza sociale, dell'incontro, la comunità ecclesiale racconterà del suo Signore che imbandisce la tavola con impensata abbondanza, in una festa dove il posto privilegiato è riservato a quelli che non contano.
    La comunità ecclesiale evangelizza Gesù Cristo, narrando in modo efficace queste diverse storie. L'Evangelii nuntiandi dice: testimoniando e annunciando. E precisa: ponendo i gesti concreti della speranza e interpretandoli nella parola che ne dà le ragioni.[11]
    Queste riflessioni sono assai importanti. Lo conferma una tendenza molto sottolineata nell'attuale produzione teologico-pastorale.[12] Rappresentano, a mio avviso, un punto nodale dell'azione pastorale, anche perché i giovani sono particolarmente sensibili a queste esigenze.

    E la fondazione scientifico-storica della fede?

    Un ultimo accenno, prima di concludere questa prima proposta di criteri.
    In questo contesto di educazione della domanda giovanile io pongo il capitolo importante della fondazione razionale della persona storica di Gesù di Nazareth, quell'insieme cioè di riflessioni introduttive alla fede che erano tradizionalmente compito dell'apologetica.
    Nell'annuncio di Gesù Cristo ai giovani, dobbiamo saper evitare due prospettive egualmente pericolose: il razionalismo e il fideismo.
    Nella prima ipotesi (quella razionalista) l'incontro con Gesù Cristo è ridotto alla conclusione di un processo dimostrativo logico-scientifico. Nella prassi pastorale ci si tuffa in analisi di fonti, di testi, di autori, per emergere trionfanti con la sicurezza della storicità dei vangeli... E così dovrebbe sbocciare sicuramente l'incontro di fede. Questo è un rischio pericoloso, perché la strada è molto spesso senza uscita, come dimostrano molti fatti.
    Ma non lo è meno l'eccesso opposto: quello del fideismo.
    L'incontro con Gesù Cristo si riduce all'incontro con un gruppo che l'ha incontrato o all'immersione acritica in una esperienza esaltante. La fede non sa offrire le sue buone ragioni di validazione. Tutto resta nel vago, nel nebuloso, fino a slittare nel soggettivismo, personale o di gruppo.
    L'incontro con Gesù Cristo avviene tra persone adulte. È giocato quindi sempre in una decisione di vita che sa auto-giustificarsi.
    Credo sia tempo di recuperare lo spazio di un'analisi critica dell'annuncio e della fede in Gesù Cristo. I giovani di oggi ne hanno urgente bisogno.
    Ad una condizione, però. L'approccio razionale e veritativo alla persona di Gesù Cristo (e quindi ai testi e ai documenti della sua storia) rappresenta solo una esperienza privilegiata in cui inserire un più globale contatto vitale, da persona a persona, nella comunità dei credenti. Questo contatto «produce» la fede, per la grazia dello Spirito. La consapevolezza critica spinge, sostiene, giustifica questo contatto esperienziale: essa rappresenta un momento importante di educazione alla domanda religiosa.[13]

    Un annuncio per l'incontro

    In questo secondo paragrafo suggerisco un altro insieme di criteri operativi. Li derivo da quella esigenza di coinvolgimento vitale, ricordata in apertura, che mi ha portato ad affermare che l'annuncio di Gesù Cristo è autentico e riuscito solo quando produce «incontro». I testi evangelici che si riferiscono alla costituzione dei dodici apostoli e alla missione della Chiesa (cf Mc 3,13-15; 6,6-13) pongono fortemente l'accento sull'unita tra il momento dell'annuncio e quello della prassi che ne scaturisce. L'accoglienza dell'annuncio non è limitata all'accettazione intellettuale del messaggio di Gesù Cristo, ma richiede più radicalmente la condivisione della sua vita e della sua causa: l'assunzione cioè dello stile di esistenza di Gesù, dei suoi atteggiamenti e dei suoi progetti.
    Eccoci nuovamente con la domanda di fondo: come deve essere questo incontro, perché sia veramente l'incontro con Gesù il Cristo, e non una nostra proiezione fantastica?
    Il problema è serio, perché su questa corretta definizione dell'incontro si misura e si organizza l'annuncio. Come sempre, l'obiettivo che si vuole raggiungere influenza e qualifica la ricerca dei contenuti, dei metodi e la loro organizzazione.

    Cosa dice la fede a proposito dell'incontro con Gesù Cristo

    La fede della comunità ecclesiale dà una risposta globale al nostro problema, quando afferma che l'incontro con Gesù Cristo è un evento salvifico che ci fa «nuove creature».
    Su questa affermazione dobbiamo riflettere, per comprenderla bene e trovare così al suo interno i criteri di verifica che stiamo cercando. In primo luogo costatiamo che l'incontro con Gesù Cristo investe in modo così radicale la struttura di personalità, da determinare una novità sostanziale di vita. Essa si traduce in uno stile nuovo di pensare e di agire.
    E qui sta il problema. Che significa tutto questo? Dobbiamo riformulare questa affermazione teologica all'interno di una teoria della personalità, per dire la fede con parole umanamente comprensibili e così suggerire i compiti educativi che ne conseguono.
    Questo significa chiederci come si costruisce la struttura di personalità di un credente, in che rapporto stanno, in essa, i valori umani che definiscono la maturità antropologica e il riferimento esplicito a Gesù Cristo che fonda la novità trascendente dell'esistenza.
    La risposta orienterà così il modo di proporre lo specifico della fede nel dialogo con l'autonoma ricerca di auto-progettazione.
    C'è poi una seconda costatazione, collegata con questa precedente. La novità di vita che produce e a cui sollecita l'incontro con Gesù Cristo ha già una sua consistenza e un suo ambito ben preciso, codificato dalla persona di Gesù Cristo e dal suo messaggio.
    Non si tratta di inventare qualcosa, ma di inventarsi secondo il modello definitivo e normativo che è Gesù Cristo. L'incontro è prima di tutto accoglienza e riconoscimento, come abbiamo già ricordato.
    Accoglienza e riconoscimento, di che cosa?
    Non basta, a mio avviso, rispondere genericamente: di Gesù Cristo. Infatti oggi sono moltissimi e contraddittori i modelli di vita cristiana; e tutti si appellano all'unico evento.
    Esistono criteri oggettivi per verificare se la vita nuova del credente rispetta veramente il riferimento normativo a Gesù Cristo?
    Per suggerire le condizioni che fanno dell'incontro con Gesù Cristo un fatto autentico, devo quindi affrontare queste due questioni.
    Le ricordo in sintesi:
    - La prima riguarda globalmente la nuova struttura di personalità che dovrebbe costituire il credente, colui che ha incontrato Gesù Cristo.
    - La seconda riguarda gli atteggiamenti fondamentali che costituiscono questa struttura di personalità, perché sia fedele all'incontro di salvezza.
    Affronto subito brevemente la prima questione e rimando la seconda al paragrafo successivo.

    La nuova personalità del credente

    «Il rinnovamento della catechesi» si è posto lo stesso nostro problema. E ha risposto con una formula che ha fatto successo nella comunità ecclesiale italiana: l'integrazione tra fede e vita. Ne ho già citato il contenuto: per il cristiano la fede deve diventare «agevolmente motivo e criterio per tutte le valutazioni e le scelte della vita» (RdC 52).
    Integrare fede e vita significa realizzare l'annuncio di Gesù Cristo in modo da formare nei giovani una profonda unità interiore, un'unica struttura di personalità i cui criteri valutativi e operativi (e cioè il modo di comprendere la realtà e di intervenire su di essa: in una parola, il modo di esistere come uomini responsabili) si rifanno a Gesù Cristo e al suo messaggio, non come ad un dato imposto dal di fuori, ma come ad una esigenza e ad una risposta che è connessa con l'esperienza della vita stessa, dei valori umani che la caratterizzano.[14] Certo, non è una cosa semplice. Ma non ci sono alternative.
    D'altra parte, proprio il modo di annunciare Gesù Cristo può facilitare o complicare il raggiungimento di questo obiettivo.
    La proposta cristiana si matura nel giovane credente come una struttura organica di significati, collegata continuamente con tutta la esperienza quotidiana.
    L'annuncio di Gesù Cristo non è quindi la proposta di un progetto d'uomo determinato in tutti i particolari, che fa il vuoto attorno a sé perché tende a sostituirsi a quei progetti che il giovane elabora autonomamente.
    L'annuncio di Gesù Cristo e la fede che esso suscita sono profondamente integrati con l'autonoma progettazione di sé e il relativo processo di umanizzazione, a due livelli:
    - come il significato ultimo e definitivo, che si innesta in ogni autentica, anche se provvisoria, significazione personale;
    - come il criterio normativo, per ordinare, gerarchizzare, autenticare i personali progetti e realizzazioni: nel riferimento a Gesù Cristo l'esperienza quotidiana trova un criterio di autovalutazione.
    La fede dona così al giovane una visione totale della sua esistenza umana, fatta nuova in Gesù Cristo, capace di unificare una vita trascinata tra conflitti e contraddizioni.
    L'esistenza è esperienza dell'intimità filiale con Dio.
    I rapporti interpersonali sono il luogo fraterno della comunione alla vita divina.
    Fiorisce un senso nuovo del rapporto di dipendenza con il mondo: esso è lo spazio di una umanizzazione che anticipa nell'oggi il futuro che attendiamo nella speranza.

    Un incontro che fa vivere da uomini nuovi

    Siamo arrivati così all'ultima questione da affrontare.
    Quali atteggiamenti fondamentali devono caratterizzare la vita nuova di colui che ha incontrato Gesù Cristo? A quali significati esistenziali deve riferirsi un giovane cristiano di oggi, per poter dire con verità che Gesù Cristo è il determinante della sua struttura di personalità?
    La risposta a queste domande suggerisce indirettamente anche il contenuto e il metodo dell'annuncio.
    Per coerenza con i presupposti ermeneutici indicati nella prima parte, devo ricordare che anche questa ricerca dei tratti costitutivi dell'esistenza cristiana, non può essere pensata in termini astorici e oggettivistici, come se si trattasse di un modello disincarnato, che va bene per ogni epoca e ogni clima culturale. La condizione giovanile, anche in questo caso, è la carne storica in cui riformulare l'esistenza cristiana.
    Incontrare Gesù Cristo, coinvolgendo tutta la propria vita, comporta la condivisione profonda dell'ansia di Gesù per il Regno: solo facendo propria questa causa che è il contenuto stesso dell'esistenza di Gesù Cristo, lo si incontra con verità.
    Attorno al tema del Regno è possibile riformulare le dimensioni costitutive dell'esistenza cristiana, con una intonazione generale che può risultare significativa per i giovani di oggi.
    So di aprire un capitolo, molto impegnativo, che richiederebbe una riflessione lunga e approfondita.
    Esiste però del materiale pastorale collaudato. Un gruppo di esperti e di operatori pastorali ha elaborato recentemente un progetto di spiritualità giovanile, con la preoccupazione di rispondere esattamente al problema che ho proposto.
    Rimando perciò a quei documenti per un discorso più articolato.[15]

    PERCHÉ LA VITA DIVENTI DOSSOLOGIA

    Siamo così arrivati alla conclusione di questo lungo cammino.
    Dopo aver affrontato la ricerca sui criteri in modo analitico, posso mettere in evidenza l'orientamento di fondo che l'ha percorsa tutta, come in filigrana.
    Sono convinto, per riflessione e per esperienza, che la credibilità dell'annuncio di Gesù Cristo e dell'esistenza cristiana si gioca oggi, a livello giovanile soprattutto, sulla capacità di saldare, nel terreno concreto della vita quotidiana, gli impegni relativi alla definizione di una nuova qualità di vita con le dimensioni costitutive dell'evento di Dio. Nell'incontro con Gesù Cristo, il giovane deve trovare un significato nuovo al suo esistere di sempre. Scoprire che la sua vita quotidiana gli è restituita «salvata», con una significatività che la invera e la supera.
    Salvato per dono, il giovane diventa capace di vivere questa sua vita in un orizzonte che coinvolge, in ogni battuta, l'amore del Padre. Questa vita diventa così un inno di lode e di ringraziamento al Padre in Gesù Cristo. È dossologia: canto al Padre, proprio nella sua quotidiana profanità, da poter essere celebrata con verità nell'espressione liturgica e sacramentale.
    Le cose di sempre assumono i toni dell'incontro, piccoli quotidiani gesti dove si fa esperienza di un modo nuovo di essere uomo, perché amati dal Padre, salvati in Gesù Cristo, restituiti nello Spirito ad una reale comunione con tutti i fratelli.


    NOTE

    [1] Tonelli R., Pastorale giovanile oggi. Ricerca teologica e orientamenti metodologici (Roma 1979) 237-249.
    [2] Esempi di questo modello (soprattutto a livello di impostazione teorica): Piveteau D., Comment ouvrir les jeunes à la foi (Paris 1978); Moitel P., D'hier à aujourd'hui en France: qu'est-ce qui change en catéchèse, in «Lumen vitae» 33 (1978) 421-440.
    [3] Coudreau F., Si può insegnare la fede? Riflessioni e orientamenti per una pedagogia della fede (Leumann 1978) 19-62.
    [4] Tonelli R., Pastorale 126-135 e 147-154 (contiene bibliografia di approfondimento).
    [5] Dianich S., Per una coscienza critica della missione, in «Associazione Teologiea Italiana», Coscienza e missione di chiesa (Assisi 1977) 427-440.
    [6] Tra le moltissime opere sull'argomento, ne cito solo due, privilegiandole per la loro immediata risonanza pastorale: Schillebeeckx E., Intelligenza della fede: interpretazione e critica (Roma 1975); Ricoeur P., Il conflitto delle interpretazioni (Milano 1977).
    [7] Tonelli R., Pastorale 284-290.
    [8] Rahner K., Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo (Alba 1977) 284-285. Id., Teologia dell'esperienza dello Spirito (Roma 1978) 307-345.
    [9] Duquoc Ch., Un Dio diverso, Saggio sulla simbolica trinitaria (Brescia 1978) 45-60.
    [10] Serentha L., Problemi teologici della catechesi dei giovani, in «Facoltà Teologica dell'ltalia Settentrionale», Condizione giovanile e annuncio della fede (Brescia 1979) 99-121, in particolare 114-117.
    [11] Evangelii nuntiandi 21-22.
    [12] Della Torre L., Per una catechesi narrativa, in Come dire la fede, Quale linguaggio nella catechesi? (Roma 1979) 51-59 (contiene bibliografia).
    [13] Schillebeeckx E., Gesù, La storia di un vivente (Brescia 1976) 69.
    Dice l'autore: «La considerazione storico-critica di Gesù non può gettare le basi della fede. Ma il suo compito non è neppure soltanto negativo, cioè di impedire che ci venga a mancare il terreno sotto i piedi (come sarebbe se si dimostrasse che Gesù non è mai esistito o è stato totalmente diverso da quello che dice la fede). Che la realtà è più vasta di quanto ne possiamo scoprire attraverso l'osservazione obiettiva e l'analisi scientifica, è, in un'epoca positivista, il presupposto dell'apertura di fede; ma d'altra parte (presupposta la nostra mentalità storica moderna) la ricerca storica e essenziale per l'accesso della fede al vangelo autentico. Il risultato dell'indagine storica è una raccolta di materiale obiettivamente osservato, nel quale il credente vede qualcosa, prova una disclosure».
    [14] Tonelli R., Pastorale 214-223.
    [15] Si veda Note di pastorale giovanile 12 (1978) n. 7, 15-64 e 13 (1979) n. 7,15-72; in particolare le pag. 46-51.Si veda anche Piana G., Evangelizzazione e promozione umana nella comunità ecclesiale, in Note di pastorale giovanile 14 (1980) n. 1, 11-15.


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