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    Tra indottrinamento e riformulazioni selvagge



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1979-1-42)


    La pubblicazione del «Catechismo dei giovani» trova la comunità ecclesiale italiana ancora alle prese con un grosso problema pastorale, che in termini un po' semplicistici, potrebbe essere formulato così: proporre contenuti o muoversi solo nell'ambito delle quotidiane esperienze?
    Se il fatto non viene accolto in tutta la sua ricchezza, come proposta che non dà ragione ad una delle due parti, ma provoca tutti ad un ripensamento profondo, c'è il rischio di disperdere e di vanificare un importante momento per la pastorale giovanile italiana.
    Perché questo non avvenga, suggeriamo alcuni punti di confronto. Come al solito, per risolvere un problema, ci spostiamo un po' più a monte. Perché solo da questa prospettiva di «riflessione sulla prassi», si può ritornare alla prassi in modo corretto.

    UN CRITERIO PER ORIENTARSI NEL PLURALISMO

    Noi viviamo in un tempo di facili contrapposizioni. Troppe cose che sembravano pacifiche, sono all'improvviso diventate problematiche, tanto che l'uniformità è stata sostituita da conflittualità e pluralismo.
    Questa costatazione attraversa anche la esperienza ecclesiale e, di riflesso, la prassi della sua autorealizzazione: il modo di fare pastorale. La comunità ecclesiale italiana possiede oggi un criterio per orientarsi nel pluralismo: di fronte ai problemi o quando ci si trova al bivio di alternative possibili, la decisione deve nascere nella ricerca, faticosa e sofferta, di una profonda fedeltà a Dio e all'uomo (RdC 160). Non ci sono altre scorciatoie, più comode. Il rifiuto o la disattenzione ad una delle due fedeltà pregiudica tutto il processo. Come ogni buon criterio, non è qualcosa di immediatamente praticabile, nel senso spicciolo e pragmatico della parola. Per utilizzarlo saggiamente, bisogna dargli un contenuto preciso e storicamente situato: individuare i punti nodali che entrano in dialogo (cosa vuol dire essere fedeli a Dio? come sono i giovani di oggi, a cui essere fedeli?) e tentare delle formule di integrazione (quali difficoltà sorgono quando si vuole salvare contemporaneamente la doppia fedeltà? come fare unità?).
    In questa ricerca di concretezza, sottolineiamo quattro «fatti».

    L'«indisponibile» della fede

    La fedeltà a Dio richiede l'accoglimento incondizionato di quanto Dio è e fa per noi.
    L'accento sui «contenuti» della fede, sulla necessità di comprenderli e interiorizzarli, ricorda esattamente questa istanza radicale. Questa esigenza si può esprimere in diversi modi.
    La teologia classica parlava di «depositum fidei», per indicare una serie di dati e contenuti oggettivi, da salvare e rispettare in ogni caso. Questa formulazione è importante, ma possiede un tono un po' statico e prevalentemente di ordine intellettuale, come se si trattasse di un bagaglio di informazioni da accettare in modo passivo e ripetitivo.
    Oggi si preferisce una parola che sembra un po' più complicata: I'«indisponibile» della fede (nel senso etimologico: ciò che non è a disposizione, su cui non si possono mettere le mani). Si vogliono suggerire le stesse esigenze, superando però i limiti ricordati sopra.
    La fede è, nella sua dimensione oggettiva, l'evento di Dio che interpella ogni uomo. Fondamentalmente non si tratta di informazioni, ma di una persona: Gesù Cristo. In Gesù Cristo incontriamo il mistero di Dio: ciò che Dio è (un'alleanza d'amore tra tre persone nell'unità di una stessa vita) e ciò che Dio fa (un'alleanza d'amore tra Dio e l'uomo, per la realizzazione della sua salvezza). La risposta dell'uomo a questo appello (e cioè la fede, nella sua dimensione soggettiva) deve costruirsi attorno a questi fatti precisi, concreti, normativi in modo perentorio per ogni decisione di fede.
    Quando si sottolinea l'«indisponibile» della fede, si intende ricordare non tanto un bagaglio oggettivo di informazioni, quanto l'oggettività dell'evento di salvezza. Come si nota, cambia la caratterizzazione espressiva: si parla di un evento, di una persona e non di cose da sapere. Ma resta la struttura costitutiva: qualcosa di oggettivo, qualcosa che va accettato come un «dato», sul quale non si possono operare tagli e decurtazioni a piacimento.
    Questo evento è affidato alla Chiesa in modo sacramentale: come germe e segno della salvezza che si realizza nella storia per la potenza di Dio. Qui, e non altrove, sta la sua competenza.

    I processi di acculturazione

    L'ultimo Sinodo dei Vescovi ha posto in modo definitivo il problema della acculturazione della fede. Cosa sia questo fatto, lo dice molto bene il «Messaggio al popolo di Dio»: «La diversità della cultura crea alla catechesi un'ampia pluralità di situazioni. Come è già stato indicato dal Concilio Vaticano II ed è stato nuovamente ricordato da Paolo VI nell'Esortazione Apostolica «Evangelii nuntiandi», il messaggio cristiano deve radicarsi nelle culture umane e deve assumerle e trasformarle. In questo senso è legittimo considerare la catechesi uno degli strumenti di acculturazione, cioè che sviluppa e nello stesso tempo illumina dall'interno le forme di vita alle quali si rivolge. La fede cristiana, attraverso la catechesi, deve incarnarsi nelle culture. La vera incarnazione della fede per mezzo della catechesi suppone non soltanto il processo del dare, ma anche quello del ricevere» (n. 5).
    Analizziamo brevemente le prospettive aperte da questa affermazione sinodale.
    Il punto di partenza è suggerito da una costatazione: la fede si incarna sempre nella «cultura», e cioè nella vita, negli orientamenti di valore, nelle espressioni linguistiche di un popolo. Questo processo avviene in un dialogo, fatto di «dare» e «ricevere». Per questo, la fede è una potente forza di umanizzazione, nel senso che sollecita ad essere uomini, secondo il progetto di «uomo nuovo» rivelato da Dio in Gesù Cristo. Nello stesso tempo, si umanizza, prendendo l'umana carne di una concreta cultura. Ogni espressione della fede risente perciò dell'indisponibile e della cultura in cui si storicizza. La cultura esercita la funzione irrinunciabile di dare corpo, di rendere incontrabile e comprensibile l'indisponibile.
    Si «dice la fede», la si annuncia e la si vive, solo in una cultura.
    Il diffuso pluralismo culturale ha come conseguenza il pluralismo di espressioni della fede. Questo «non è un male necessario, ma è un bene, al quale si deve tendere nella misura in cui favorisce la manifestazione e la crescita dei doni naturali e soprannaturali di Dio», come qualche Padre sinodale ha affermato durante il Sinodo.
    Il processo di acculturazione, costruendo il pluralismo delle espressioni della fede, sottolinea e motiva anche la loro relatività. Nessuna formulazione coincide adeguatamente con la fede, dal momento che è solo una sua manifestazione storica, culturale.
    La relatività non porta però al relativismo e al soggettivismo, se tutto il processo viene vissuto nel rispetto della funzione normativa che compete alla fede. Nell'acculturazione, il criterio decisivo e discriminante è affidato all'indisponibile della fede. Solo quando la formula rispecchia e rispetta questo dato (pur senza pretese di monopolio, quasi si trattasse dell'unica espressione possibile), essa è una «formula di fede».

    I giovani di oggi sono senza «memoria» sociale

    Tutto questo sarebbe semplice e facile nella pratica, se non intervenisse il terzo nodo del problema: la fedeltà a «questi» concreti giovani.
    Dalla teologia scivoliamo perciò nell'antropologia, per studiare la «cultura giovanile» attuale.
    Non è questo il contesto per dirimere la questione sull'esistenza di una cultura (o di una subcultura) giovanile. Ci sembra un problema prevalentemente accademico: anche coloro che la negano in teoria, di fatto riconoscono la presenza nella condizione giovanile di dimensioni antropologiche molto tipiche.
    Quali siano lo abbiamo suggerito in altri contesti .
    Qui ci sembra interessante sottolineare solo un aspetto qualificante, perché possiede grossi riflessi a proposito dell'argomento in questione.
    I giovani di oggi, come «condizione» (e cioè come fatto strutturale, che rappresenta un insieme di tendenze generali, al cui interno trovano spazio eccezioni di singoli e di gruppi), sono nel fuoco di tre fattori critici:
    - La dequalificazione strutturale del lavoro (disoccupazione, precarietà, astrazione e alienazione...) opera nei giovani la coscienza di una sua squalificazione come «valore». Il lavoro non aiuta il giovane a realizzarsi, non lo gratifica; e il giovane rifiuta di assumerlo come ruolo sociale, come centro dell'esistenza, come cardine del progetto di sé.
    - Le istituzioni incaricate della socializzazione (scuola, famiglia, organismi sociali...), risentono della grande trasformazione critica che si è verificata sul finire degli anni sessanta; hanno così smarrito direzione di cammino e capacità produttiva. Purtroppo non sono state sostituite da altre istituzioni, capaci di diventare cerniera tra l'esperienza sociale del passato e le nuove generazioni. La socializzazione ha perduto un anello-chiave: il confronto con il passato. Avviene così in una terra di nessuno.
    - Come conseguenza, ha preso consistenza e legittimazione, soprattutto a livello giovanile, una serie di programmi di comportamento che allargano la sfera del soggettivismo (il senso dell'avventura, il disimpegno verso il futuro, l'atteggiamento solo strumentale verso la società vista come deposito di risorse a cui attingere...), liquidando le norme tradizionali dell'agire morale e sociale.
    Questi tre fattori conducono alla perdita della «memoria sociale»: allo sradicamento forzato dei giovani dal contesto socioculturale in cui esistono e al cui interno sono chiamati ad esprimere la propria creatività. È stata distrutta, troppo facilmente, l'esperienza accumulata, la ricchezza sociale, senza inventare nuovi percorsi per ricostruirla. Ci ritroviamo con una condizione giovanile che ha smarrito il passato. Per questo è anche senza futuro: senza grossi interessi, senza progetto, senza capacità di accumulare le proprie energie in vista di un domani migliore da costruire. Certamente, il ritratto non è applicabile a tutti i giovani; molti, come singoli e come gruppi, stanno faticosamente uscendo da queste strettoie; altri, nell'invenzione di una nuova espressione culturale, sanno offrire contributi assai stimolanti; alcuni, lontani dai fattori di crisi, sono soltanto sfiorati dai fenomeni descritti.
    Resta però il fatto: al di là delle eccezioni, qualcosa sta muovendosi, nell'insieme dei giovani, che va nella direzione accennata. Gli sbocchi possono essere diversi: dall'autonomia, più o meno armata, alla rivincita del privato e della soggettività; dall'angoscia che porta fino al suicidio, ai rigurgiti regressivi; dalla ricerca di un senso alla vita, capace di riunificare l'esistenza, alla resa senza condizioni ad ogni proposta di totalizzazione.
    E tutto questo ha un peso nei processi di acculturazione della fede.
    L'evento di Dio, che è «dato» e «storia», si incontra e si scontra di fatto con questa cultura.

    Ci vogliono «strutture di attendibilità»

    Il riferimento al processo di acculturazione ci aiuta a formulare il quarto nodo del discorso.
    Il processo di acculturazione non avviene in una campana di vetro, ben protetto dai conflitti che attraversano l'istituzione ecclesialÈ. Esso, al contrario, è sempre un processo strutturale: un insieme di elementi e di valori fortemente condizionati dalle istituzioni in cui si esprimono, si intersecano, si realizzano.
    Lo svolgimento corretto del processo di acculturazione richiede perciò che esso si realizzi all'interno di una struttura comunitaria, capace di fornirgli un buon supporto. Questa esigenza l'abbiamo suggerita nel titolo del paragrafo con la formula: «le strutture di attendibilità».
    Coloro che hanno studiato l'argomento indicano anche le condizioni che fanno di una struttura comunitaria questo supporto di attendibilità. Esse sono:
    - la reale dimensione comunitaria: il fatto cioè che questa struttura si pone come luogo di identificazione per i membri che ne fanno parte, luogo in cui essi si «sentono a casa»;
    - l'esistenza di un confronto continuo di ordine culturale, per creare una concreta circolazione di valori, in modo che il processo di acculturazione sia bene interiorizzato da tutti e il «linguaggio» sia davvero comune e comunitario;
    - la presenza, nella comunità, di riti e legittimazioni che offrano una garanzia e tengano «saldi»: un po', per dirla in modo semplicistico, la dialettica premio-castigo che assicura il senso di appartenenza.
    Per non lasciare nel vago il discorso, dobbiamo guardarci d'attorno: esistono queste strutture di attendibilità, per i giovani d'oggi?
    Se osserviamo le cose superficialmente, possiamo rispondere di sì: da una parte ci sono le tradizionali comunità ecclesiali (parrocchie, istituzioni educative...), dall'altra esistono gruppi e movimenti di forte presa.
    Un'analisi più approfondita però ridimensiona la costatazione. Le parrocchie, per esempio, possiedono riti e legittimazioni in abbondanza, nonostante le spallate di questi ultimi anni. Ma esse offrono poco spazio di identificazione ai giovani e frequentemente si esprimono in un linguaggio che ripete con una certa sicurezza i contenuti tradizionali della fede, ma. che purtroppo parla molto poco alla sensibilità giovanile. Le cose vanno ben diversamente nei gruppi e nei movimenti. Lì circola una cultura espressiva, soggettivamente affascinante; l'indice di identificazione è alto. Il problema è un altro: i processi di acculturazione rispettano sufficientemente l'indisponibile della fede?
    Sono, questi gruppi, strutture di attendibilità in rapporto alla fede della Chiesa di sempre, oppure, al contrario, sostengono e avvallano una fede diversa, che ha saccheggiato l'indisponibile?
    Questo sospetto attraversa gesti e parole. Spinge a verificare il significato ecclesiale delle cose che si fanno, non sulle etichette formali, ma sulle modalità con cui avvengono i processi di acculturazione della fede: la preghiera, la lettura della Bibbia, la celebrazione eucaristica... si esprimono in un rapporto tra fede e cultura corretto o scorretto?
    Il problema delle «strutture di attendibilità» è esattamente a questi livelli.

    SUPERARE IL DEDUTTIVISMO E LA «RIFORMULAZIONE SELVAGGIA»

    Non abbiamo fatto molta strada nella soluzione del problema che ci sta a cuore. Abbiamo soltanto delineato il criterio su cui verificare la prassi.
    Procediamo oltre. Il primo passo consiste nella descrizione della prassi e nella sua valutazione. Questo concreto materiale ci aiuterà a formulare poi un nostro progetto.
    Letteratura e prassi pastorale ci presentano frequentemente questi due modelli: il deduttivismo e la «riformulazione selvaggia».
    - Il primo modello risente ancora dell'approccio tradizionale al problema. Le riflessioni ermeneutiche (quelle, per intenderci, relative ai processi di acculturazione) non l'hanno ancora sfiorato. Si dà per scontata l'esistenza di un nucleo ben consolidato di contenuti di fede, da trasmettere ai giovani. Qualcuno allarga al massimo l'ambito di questi contenuti; altri si preoccupano di restringere e di essenzializzare, fino ad inventare dei nuclei «brevi» della fede. Questi dati, pochi e molti che siano, vanno fatti assimilare; altrimenti non si dà crescita nell'esperienza cristiana.
    Il contributo delle scienze dell'educazione è utile per orientare questa fase di socializzazione e per suggerire gli eventuali adattamenti (temporanei). Nell'attesa di diventare «adulto», capace cioè di interiorizzare la gamma completa dei contenuti, il giovane può essere favorito dalla messa in parentesi di alcuni elementi troppo «difficili», poco alla sua portata. Ma il fatto è solo «metodologico». Presto o tardi si deve arrivare al «tutto».
    In un tempo di incertezza dottrinale come il nostro, quando è più facile sostenere la necessità di contenuti oggettivi della fede che decidere quali debbano essere concretamente, la pubblicazione del «Catechismo dei giovani» può essere strumentalizzata dai difensori di questo modello: finalmente sappiamo cosa insegnare e quanto esigere dai giovani...
    - Il secondo modello gioca tutte le sue carte nella fedeltà al giovane concreto. Egli è la misura dei contenuti da trasmettere o, più esattamente, si rifiuta l'esistenza si qualcosa da trasmettere per affermare l'urgenza di «interpretare e illuminare» la esperienza concreta e quotidiana.
    L'educazione alla fede consiste solo in questo processo interpretativo, che colloca l'esperienza in un orizzonte nuovo di significati, capace di riunificare e trasfigurare dalla prospettiva del senso.
    In questo caso, l'indisponibile della fede risente spesso di una «riformulazione selvaggia», perché legata troppo ad un contingente, interpretato con schemi rassegnati e passivi; oppure perché il processo avviene in modo unilaterale, senza preoccuparsi di giudicare la cultura alla luce della fede, per. assicurare alla fede il ruolo oggettivo e la consistenza pregiudiziale che le compete.
    Di fronte al «Catechismo dei giovani» le reazioni possono essere due: il rifiuto in blocco per sostenere ad oltranza la linea esperienzialistica; o l'utilizzazione frammentaria del testo, come un repertorio a cui ricorrere per risolvere i singoli problemi, prescindendo dal suo tessuto organico.

    Per una valutazione dei modelli

    Abbiamo descritto i due modelli calcando un poco le tinte e rendendo estremi quei tratti che spesso sono soltanto tendenziali. La vita concreta è certamente più ricca di questa nostra schematizzazione.
    Gli accenti negativi dicono però il nostro giudizio globale. Questi due modelli, nella logica che li giustifica e nelle realizzazioni che esprimono, non sono adeguati. Contengono grossi limiti oggettivi che vanno superati.
    Suggeriamo alcune motivazioni, con l'unica pretesa di stimolare la riflessione del lettore.
    - Vediamo, prima di tutto, carenze di fondo di ordine educativo e teologico. Nessun modello realizza una definizione corretta di «educazione»: il primo afferma un pericoloso principio di integrazione sociale, chiedendo l'accoglienza incondizionata del dato di fatto; il secondo giustifica lo spontaneismo e una creatività folle, facendo coincidere bisogni immediati con bisogni profondi, domande emergenti con domande esistenziali.
    Questa costatazione ci porta ad esprimere una valutazione negativa, anche a partire dalle esigenze di una corretta acculturazione della fede: i due modelli, in forme diverse, dimenticano troppo sbrigativamente uno dei quattro punti nodali che, nell'insieme, assicurando la fedeltà a Dio e all'uomo
    - Avanziamo inoltre grosse perplessità dal punto di vista della capacità di presa e di incidenza del processo. Ci troviamo a lavorare con giovani che hanno smarrito la «memoria sociale» e che trovano poco sostegno nelle attuali strutture comunitarie.
    Se il modello pastorale dimentica questi presupposti, corre gravi rischi. Nel primo caso, infatti, l'accento è tutto sulla interiorizzazione di una fede già acculturata, di una memoria sociale ed ecclesiale, da accogliere quasi a scatola chiusa.
    L'intervento educativo gioca spiazzato: parla una lingua diversa e lontana da quella dei giovani reali. Tenta di costruire l'impegno di vita in un confronto ripetitivo con il passato, per giovani che invece sono in fase di rottura con il proprio passato e per questo hanno pochi interessi verso il futuro.
    Nel secondo caso, il dialogo sembra corretto, perché viene utilizzato il linguaggio dei giovani.
    Purtroppo però questo avviene a scapito del linguaggio oggettivo della fede. E così si enfatizza la crisi di memoria sociale e si crea una rottura più profonda nei confronti della istituzione ecclesiale. Si perde di conseguenza la capacità di «leggere» i segni della fede: la storia della comunità ecclesiale, la parola di Dio, i riti sacramentali... Non si educa alla fede della Chiesa, ma si costruisce una «nuova» chiesa, parallela a quella esistente; una Chiesa senza passato e quindi povera di futuro.
    Nei due casi, risulta falsificato il rapporto tra fede e cultura. L'esito è identico: si giunge alla crisi di fede (di fatto, nel primo caso; di diritto, nel secondo caso), solo perché si rifiuta la cultura in cui la fede è espressa in modo troppo rigido.
    - I due modelli infine non facilitano l'integrazione tra fede e vita, nell'attuale situazione culturale e giovanile, come confermano troppi fatti.
    L'integrazione fede/vita si costruisce quando esiste una circolarità tra le esperienze di vita che sfidano l'uomo e i dati oggettivi della fede. Si può partire o dalla vita o dalla fede indifferentemente; importante è che la vita appelli alla fede come a sua interpretazione e verifica e che la fede appelli alla prassi come a sua realizzazione. Nel primo modello, le esperienze restano troppo lontane dai contenuti di fede. Un discorso oggettivistico può interessarsi della vita solo nella dimensione trascendentale; ciò che invece travolge i giovani è la presenzialità della loro esistenza, le esperienze nella loro dimensione categoriale. La crisi di strutture comunitarie complica le cose, rendendo oggi difficile ciò che invece poteva tranquillamente funzionare qualche tempo fa.
    Nel secondo modello, la riflessione di fede resta facilmente disarticolata. L'attenzione ai contenuti della fede è vivace solo in merito a quei problemi esistenziali che vengono vissuti nell'immediato. La prassi trova nella fede una sua interpretazione; ma si tratta facilmente di una fede soggettivizzata, disarticolata e ideologizzata, incapace quindi di orientare in modo globale e totalizzante la prassi. Certamente non si può ridurre la fede ad un insieme di nozioni da sviluppare in termini di crescita quantitativa. Essa è piuttosto un evento, da comprendersi mediante approfondimenti sempre più allargati. Ma questo nucleo fondamentale è troppo «ricco», troppo «dato», da poter essere ricostruito solo a partire dalle sue frammentazioni. È troppo «interpellanza implacabile» all'uomo da poter essere ridotto a singole, concilianti, risposte.
    Gli esiti di questo modello confermano le nostre preoccupazioni: la soggettivizzazione delle dimensioni più radicali dell'esperienza cristiana (Gesù Cristo, la Chiesa...) e la loro disarticolazione, l'emergere di una morale individualistica, una crescente «ignoranza» religiosa, l'utilizzazione della fede come legittimazione delle proprie scelte.

    UNA PROPOSTA: LA CONDIZIONE GIOVANILE COME LUOGO ERMENEUTICO

    Abbiamo recensito e criticato i due modelli più facilmente ricorrenti. Ciascuno contiene anche grosse valenze positive, che vanno sapientemente recuperate e articolate. Nella prassi e nella letteratura pastorale esistono, del resto, realizzazioni assai stimolanti.
    Su questo materiale costruiamo la nostra proposta.
    I difensori del primo modello ci ricordano che non si può vanificare o ridurre l'indisponibile della fede, ma, al contrario, bisogna educare i giovani ad accogliere gioiosamente un dono che li supera e che li immette in una memoria storica. È indispensabile però parlare sempre il linguaggio reale dei giovani, muovere dalla loro vita, ricostruire la fede dentro la loro esperienza, altrimenti il dialogo si interrompe: lo sottolineano con insistenza coloro che si riconoscono nel secondo modello.
    La soluzione sarebbe semplice: non «contenuti o esperienze», ma «contenuti e esperienze». E cioè: ci vogliono tutte e due le cose, in un dosaggio la cui formula è ogni momento nelle mani delle comunità ecclesiali. Tra i due opposti estremismi la soluzione risulta, ancora una volta, quella saggiamentte intermedia e conciliante. Eppure, basta analizzare la prassi per scoprire che tutto questo è difficilmente praticabile. In teoria, infatti, nessun modello nega l'importanza dell'altra dimensione.
    In pratica, poi, sotto l'urgenza delle cose da fare e delle scelte da giocare, una esigenza schiaccia l'altra. È indispensabile ritrovare un processo motivato che aiuti ad armonizzare concretamente le due istanze.

    «Fides quae», «fides qua» e condizione giovanile

    Meditando l'evento dell'Incarnazione, abbiamo incontrato un principio teologico fondamentale per unificare la fedeltà a Dio e all'uomo, nell'azione pastorale. Questo criterio può dare suggerimenti stimolanti anche a proposito di quell'importante e delicata operazione che risulta l'acculturazione della fede.
    Nella prospettiva dell'Incarnazione, perciò, suggeriamo alcune piste di lavoro, consapevoli di trovarci in un terreno dove è più facile sottolineare le esigenze che costruire modelli immediatamente praticabili.
    - L'ambito del processo di acculturazione è la «fides quae» e la «fides qua». Il contenuto della fede, infatti, nella sua forma più piena, è determinato da una serie di eventi-informazioni che dicono il «che cosa» dell'esperienza cristiana, e da una batteria di atteggiamenti che descrivono la logica nuova del cristiano, il «come» della sua esistenza. Chiamiamo i primi «fides quae» ( = il «che cosa» della fede) e i secondi «fides qua» ( = il «come»).
    - Nella comunità ecclesiale, «fides quae» e «fides qua» sono già acculturate: esprimono già in una determinata cultura storica l'indisponibile della fede (che è sempre, come dicevamo, evento e logica).
    Non è facile dare per scontato che ci sia sintonia tra la cultura, in cui si è incarnata la fede, è la reale cultura della condizione giovanile. L'accenno fatto a proposito della crisi di «memoria storica» comprova largamente il sospetto.
    L'esigenza di attivare corretti processi di acculturazione comporta perciò in primo luogo la «decodificazione» di quelli già avvenuti: richiede cioè di separare l'indisponibile della fede dalla cultura in cui viene espresso. Solo dopo questa operazione pregiudiziale, si può tentare la nuova acculturazione.
    La Chiesa del Concilio ha già innescato questa operazione. E molte comunità locali italiane la stanno realizzando, tra difficoltà e tensioni. Abbiamo l'impressione, però, che il processo avvenga ancora troppo tra adulti, senza coinvolgere profondamente i giovani. Persiste qua e là l'idea che l'educazione (e l'educazione alla fede) consista nel far entrare, più o meno ripetitivamente, in un mondo già tutto precostituito .
    - Ogni cultura ha la capacità di far emergere dimensioni nuove e insperate della «fides quae» e della «fides qua». Essa sottolinea con maggior ìnsistenza alcuni aspetti che prima potevano essere messi in secondo piano e intreccia consequenzialità che introducono una ventata di novità. Si pensi, solo per fare uno degli esempi più comuni, a come l'«amore evangelico» si sia acculturato nel corso dei secoli; dal modo «umano» di realizzare la schiavitù alla sua abolizione; dall'affermazione di una generale eguaglianza fra tutti gli uomini, all'impegno promozionale e politico per costruirla.
    L'insieme degli elementi culturali che segna l'attuale condizione giovanile non è perciò solo il luogo di una acculturazione passiva, ma esercita una vera funzione di spinta in avanti, di stimolo al «progresso» rispetto alla «fides quae» e alla «fides qua». Costringe la comunità ecclesiale a cogliere, nell'immensa ricchezza dell'evento di salvezza, quelle dimensioni che lo rendono «salvifico» per questi giovani. I giovani non sono perciò solo destinatari dell'evento, ma lo fanno esistere, gli danno quella umana carne per cui «è» qui-ora. Quando ad essi si chiede di ripetere passivamente le espressioni tradizionali della fede, non solo si fa loro un cattivo servizio, ma si impoverisce la fede stessa.
    Chi è troppo abituato all'uniformità nel nome della trascendenza, fa fatica ad accogliere questi suggerimenti. Sono in questione valori di ordine trascendente, e quindi non si può agire da spregiudicati. Il cambio e la pluralità di espressioni non tocca però la trascendenza, ma la povertà e lo svuotamento delle mediazioni culturali, in cui essi esistono di fatto.
    Per riformulare queste osservazioni in termini concreti, basta, per esempio, pensare alla liturgia o alla prassi sacramentale...
    - L'indisponibile esercita sempre una funzione critica e normativa rispetto ai processi di acculturazione. E questo nelle due direzioni indicate: non solo in rapporto ai valori irrinunciabili espressi dalla fede, ma anche in rapporto alla logica nuova che da questi valori promana.
    Non si può pretendere che ogni espressione culturale possa adeguatamente «dire la fede» o che i modelli giovanili siano corretti solo perché corrispondono alla sensibilità dei giovani. Esistono culture ed espressioni esistenziali troppo lontane dalla fede e dalla sua logica: esse non possono fornire il supporto al processo di acculturazione. Prima vanno «umanizzate» (anche mediante il contributo critico che proviene dalla fede) e poi potranno esprimere l'evento di Dio, in modo rinnovato rispetto al passato.
    Questo è un punto importante, per evitare che la reinvenzione si concluda nello svuotamento e nella riduzione antropologica dell'evento di Dio.
    Questa esigenza si concretizza in una doppia attenzione: al momento in cui si realizzano i tratti tipici della cultura giovanile per reinterpretare da essi la fede; e al momento, ancora più delicato, della riformulazione della fede stessa.
    Prima di tutto, è indispensabile interpretare i bisogni dei giovani alla luce della fede. La memoria ecclesiale ha l'importante funzione di aiutarci a giudicare meglio la storia e le esigenze che in essa emergono. Non possiamo leggere la condizione giovanile «solo» con approcci socioculturali e poi interpellare la fede per rispondere a questi bisogni. Dobbiamo utilizzare la fede come chiave di lettura. Essa non può sostituirsi alle scienze descrittive. Ma queste non possono fare a meno della fede, quando vogliono dirci ciò di cui ha bisogno l'uomo, nel profondo della sua esistenza.
    L'acculturazione della fede nella condizione giovanile richiede perciò una lettura «credente» della condizione giovanile stessa.
    In secondo luogo, non dobbiamo dimenticare che la «memoria» della comunità ecclesiale non è soltanto il luogo in cui incontrare l'evento di Dio, dopo che essa è stata spogliata delle sue incrostazioni culturali.
    La comunità ecclesiale è luogo della fede in se stessa (anche se non in modo esclusivo): ha quindi il compito di giudicare tutte le espressioni di fede, anche quelle giovanili, per aiutarle a conservarsi «credenti» ed «ecclesiali», per permettere di «risiedere» dentro l'evento di Dio.
    - Queste note sottolineano, infine, che i processi di acculturazione della fede avvengono sempre «dentro» la comunità ecclesiale. Per questo c'è un'unica pastorale: la pastorale giovanile è il servizio specializzato della comunità ai giovani.

    La fede nella cultura si umanizza e umanizza

    Come si nota, il servizio che i giovani fanno al progetto evangelizzatore della comunità ecclesiale non è quello di vanificare la tradizione o di svuotarlo di contenuti; ma quello di stimolarci a cogliere i significati sempre più veri dei valori della memoria ecclesiale e della fede stessa incarnata in questa memoria, e, nello stesso tempo, di sottoporre a costante processo di verifica le teorizzazioni dottrinali e progettuali dei valori di cui la Chiesa è depositaria .
    Contenuti e esperienza entrano così in un vortice circolare. Le esperienze aiutano a formulare storicamente i contenuti e quindi, in qualche modo, li fanno esistere qui-ora, come salvezza di Dio per questa concreta persona. I contenuti selezionano le esperienze rendendole capaci di mediare la salvezza, e giudicano i progetti di autorealizzazione, nel confronto, affascinante e colpevolizzante, con l'evento definitivo di Dio, Gesù Cristo.
    Dicevamo all'inizio che, nei processi di acculturazione, la fede umanizza e si umanizza. Lo si comprende bene, pensando al ritratto della condizione giovanile, ritagliato poco sopra.
    La fede si umanizza, perché perde le resistenze ideologiche, che le derivano dalle precedenti acculturazioni. Il rischio di far coincidere «cultura» con «fede» è sempre incombente. Assumendo la «carne» giovanile, diventa più profetica, più aperta al dialogo, meno dottrinale e più esperienziale. Diventa nuovamente «evento». La fede, nello stesso tempo, umanizza, perché sollecita giovani senza passato a cogliersi «dentro» una memoria collettiva, che apre e assicura verso il futuro. Costringe a contestare un sistema che aliena l'uomo dalla sua storia e lo precipita nell'angoscia e nell'individualismo. L'incontro con la fede spinge ad inventare direzioni di cammino di ordine tecnico (non deducibili dalla fede stessa), per restituire ai giovani la memoria sociale, senza per questo rinchiuderli in modo passivo dentro un sistema culturale immutabile.

    IL «CATECHISMO DEI GIOVANI» TRA CONTENUTI ED ESPERIENZE

    La comunità ecclesiale italiana avrà presto, come strumento privilegiato di pastorale giovanile, il «Catechismo dei giovani». Come interpretare positivamente questo fatto, alla luce delle riflessioni sviluppate lungo queste pagine? Rispondiamo con una serie di note, che tentano di tradurre verso il concreto le cose dette finora.
    - Il «Catechismo dei giovani» rappresenta un tentativo di esprimere l'indisponibile della fede in un modello culturale corrispondente all'attuale condizione giovanile. Questa è l'intenzione precisa degli estensori. Solo la sperimentazione intelligente potrà verificarne il livello di realizzazione.
    Intanto resta il fatto, importante. Non ci troviamo di fronte ad una proposta di fede allo stato puro. Ma ad una sua riformulazione culturale. Questo significa che è una «mediazione», segnata necessariamente di relatività. È luogo di confronto, di dialogo. di comunione. E non criterio di discriminazione.
    Rappresenta però uno sforzo pensato e autorevole, confortato da un alto indice di ecclesialità reale. Da qui l'esigenza di dargli molto «credito»: non può essere assunto solo come un modello tra i tanti e come un suggerimento formale a riscoprire l'importanza della catechesi sistematica. Contiene, al contrario, la proposta di fede che la Chiesa italiana sente «possibile», attuale, utile per il mondo giovanile. È quindi una espressione privilegiata (anche se relativa) della sua diaconia magisteriale verso i giovani,
    - Se i fatti dimostreranno che il modello culturale utilizzato per «dire la fede» nel Catechismo, non coincide con quello reale dei giovani, con cui si opera, la fedeltà al nostro servizio pastorale ci richiederà di attuare quel processo che abbiamo ricordato: decodificare questo messaggio per scoprire le sue scelte di fondo e riesprimerle in un nuovo annuncio senza smarrire per via l'esigenza di ritornare ad un approccio organico e articolato con la fede. Questo processo però non può risultare un'operazione di isolati, di liberi battitori. Se è fatto pastorale, deve essere gestito «nella» e «dalla» comunità ecclesiale.
    - La sensibilità ermeneutica e l'amore alla Chiesa ci spingono, in ultima analisi, a vivere questo avvenimento «da adulti». A non utilizzare il Catechismo secondo schemi deduttivi e dottrinali, decidendo l'esperienza cristiana e l'appartenenza ecclesiale sul criterio del «consenso» pronunciato a favore del Catechismo o sulla sua assimilazione razionale.
    Nello stesso tempo, però, ci sollecitano a non bruciarlo a scatola chiusa, solo perché i giovani e il gruppo si rifiutano emotivamente di decentrarsi verso qualcosa che supera l'esperienza personale o si presenta come proposta organica in un clima di larga soggettivizzazione. Perché chiusi in questa spirale non si può più proclamare la fede.
    In ogni caso, il Catechismo è un'occasione da non perdere per ristabilire e potenziare quella circolazione tra le esperienze di vita e il fatto sconvolgente dell'evento di Dio, che realizza il suo progetto di salvezza in Gesù Cristo.


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