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    I problemi umani nella pastorale giovanile



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1976-05-15)


    In questi anni, molte volte, sia dalle pagine della rivista che nella prassi spicciola, è rimbalzata una affermazione abbastanza sconcertante: la necessità di coinvolgere i problemi umani nella pastorale giovanile. Come dice RdC: «Chiunque voglia fare all'uomo d'oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell'esporre il messaggio» (RdC 77). La novità non sta nel fatto che la pastorale si interessi della vita quotidiana. L'ha sempre fatto. E come potrebbe fare altrimenti? Sta invece nell'assumere la vita come «fonte» della pastorale, come luogo teologico per accogliere e scoprire Dio che si comunica all'uomo.
    Il cambio di prospettiva è notevole. Tant'è vero che la «svolta antropologica» (come si chiama in teologia questo cambio di mentalità trova ancora resistenze presso alcuni operatori pastorali.
    Certo non possiamo affrontare questo importante argomento in poche pagine frettolose. Del resto ne abbiamo già parlato molte altre volte.
    In questo articolo vogliamo offrire il riferimento teologico il mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio), in cui situare bene e correttamente la «svolta antropologica».
    L'articolo ha quindi un doppio obiettivo. Prima di tutto motiviamo teologicamente una affermazione che potrebbe suonare ambigua, per aiutare a comprenderla nella sua vera dimensione, una dimensione di fede. E, in secondo luogo, invitiamo al confronto e alla riflessione coloro che ne fanno, talvolta, un uso immotivato e sconsiderato, tale da svuotare la dimensione trascendente che deve caratterizzare comunque ogni impegno di educazione alla fede.

    Ogni progetto di pastorale giovanile deve fare i conti con i «valori umani» che descrivono la maturazione personale e sociale dei giovani. Non può ignorarli. Perché qualsiasi tentativo di non interrogarsi sulla loro collocazione nell'educazione alla fede, corrisponde ad un giudizio (implicito, ma reale) sulla loro irrilevanza nell'esperienza cristiana. La neutralità, in questo come negli altri campi educativi, è impossibile. Significa concludere con! una soluzione negativa.
    I giovani sono molto sensibili ai valori che caratterizzano la loro crescita in umanità. Vogliono sapere cosa c'entra l'esperienza cristiana con il desiderio di autenticità, di liberazione, di giustizia, di realizzazione, di promozione globale dell'umanità. Essi hanno capovolto i termini della domanda tradizionale: «Non è stato l'uomo a inventare Dio per dare un senso alla sua vita, ma è stato Dio ad inventare l'uomo. Non è il Cielo per la terra, ma la terra è per il Cielo. Non è il Regno per il profano, ma il profano è per il Regno; e la nostra domanda è precisamente: in che cosa il profano può condurre al Regno? È chiaro che ciò che ha valore assoluto, è Dio, è il Cielo, è il Regno; perciò è prendendo questo assoluto come punto di riferimento che vogliamo riflettere su questo significato delle realtà terrestri e profane». Oggi essi dicono: che senso ha Dio e il «cielo», visto che è la «terra», il profano, quello che conta?
    La risposta è urgente, perché coloro che pongono la domanda non sanno più aspettare: «Si tratta di un vasto impegno di coerenza al Vangelo, dalla cui attuazione dipende la sorte stessa del cristianesimo, particolarmente presso le generazioni dei giovani» (RdC 97).
    Nella pastorale giovanile acquista perciò una particolare importanza quanto scrive RdC: «Nel fare catechesi, la Chiesa propone ai credenti non soltanto i grandi contenuti della fede che scaturiscono in ogni tempo e luogo da una meditazione attenta del mistero di Cristo; ma, con viva sensibilità pastorale, svolge anche i temi che le condizioni storiche e ambientali rendono particolarmente attuali e urgenti. Anzi, il messaggio cristiano non sarebbe credibile, se non cercasse di affrontare e risolvere questi problemi. Né si tratta di una semplice preoccupazione didattica o pedagogica. Si tratta invece di una esigenza di incarnazione essenziale al cristianesimo» (RdC 96). Da questa affermazione, molto categorica, scaturisce per ogni modello di pastorale giovanile un criterio preciso su cui confrontarsi: la capacità di affrontare e risolvere i problemi umani che il quotidiano pone, «alla luce del mistero di Cristo».
    I fatti e i valori profani, raccolti nel loro centro naturale unificante che è l'uomo, come pure i fatti e i valori rivelati, unificati nella persona di Cristo, vanno tra loro integrati, come pasta e lievito.
    L'innato spirito critico dei giovani rifiuta però una integrazione fatta per metodo, per manovra didattica, senza una giustificazione che provenga dalla realtà oggettiva. Questo problema, nell'età giovanile, diventa cruciale: i giovani sono allergici a quello che sembra loro uno sfruttamento dei loro interessi per far accettare la fede. In questo senso ogni sistema pastorale unicamente tattico, trova una forte opposizione.
    È perciò fondamentale giustificare in termini oggettivi, con il peso di fatti reali, il nostro integrare il mistero di Cristo con la vita quotidiana. Il fatto che dà significato e consistenza è l'Incarnazione. In Cristo Dio ha preso umana carne. In Cristo, l'uomo, la sua libertà e autenticità, la costruzione del suo futuro e la progettazione di un mondo più giusto, sono la norma a cui si orienta ogni progetto pastorale.

    IL PRINCIPIO PASTORALE DELL'INCARNAZIONE

    Il Dio che si fa uomo, la Parola che si fa carne significano che il mistero cristiano proposto va sempre presentato come lievito della pasta umana e non come realtà indipendente da essa. Ogni formula che presenti il cristianesimo come alternativa o come sostituzione o come trapianto al posto della comune vita umana, condivisa con la massa dei non credenti, va rivista con serietà per ritrovare una precisa fedeltà all'incarnazione, dove Cristo è lievito della nostra vita; in questo linguaggio evangelico, è salva la trascendenza di Dio, perché il lievito è diverso dalla pasta e lo deve essere affinché la pasta ne abbia beneficio; ed è salva la incarnazione, perché il lievito non viene a farsi largo comprimendo la pasta, ma si unisce ad essa finché sia tutta fermentata e buona per l'uomo: «perché abbiano la vita ed in abbondanza» (Gv 10,10).
    Il Dio che presentiamo sarà allora non solo attento ai casi umani, ma incarnato in essi; non sarà ospite soltanto, come di passaggio, ma sarà «Dio-con-noi» e tutti gli impegni spontanei per la liberazione dell'uomo, per il rinnovamento del mondo, per la crescita individuale ed il progresso civile saranno la pasta nella quale Cristo si pone come lievito che rende tutto più grande, più vero ed eterno. E così sarà la fede rispetto alla cultura, la chiesa locale rispetto alla comunità locale, l'eucaristia rispetto al lavoro umano, lo stare con Dio rispetto allo stare con gli uomini.
    In Cristo, il Padre è visibile agli occhi umani (Gv 14,9); nell'amore all'uomo Dio diventa conoscibile (1 Gv 4,8) . In Cristo, quello che abbiamo fatto al più piccolo dei nostri fratelli, chiama in causa direttamente il Padre (cf Mt 25,40).

    L'EVENTO GESÙ CRISTO

    Quando l'accento è posto sul principio dell'incarnazione, risulta di immediata evidenza che ogni innesto della fede nella vita non è un metodo assunto arbitrariamente dall'operatore di pastorale giovanile, una sua tattica cattivante. Non siamo noi che per convincere i giovani incarniamo la fede nella vita. È Dio stesso che in Gesù Cristo si è fatto carne, ha assunto tutta la condizione umana, diventando veramente «consostanziale» a noi, secondo la formula del Concilio di Calcedonia.
    La giustificazione del fatto che la pastorale entra nei problemi umani, li assume come suo spazio d'intervento, trova il suo statuto in Cristo Gesù. Il «metodo» dell'incarnazione nasce dall'«evento» che è Gesù stesso.
    Dobbiamo approfondire questa affermazione, nei risvolti in cui coinvolge la pastorale.
    L'«evento-Gesù» è prima di tutto Gesù stesso, la sua persona, la sua dottrina, la sua vita trascinata fino a sperimentare la morte umana, proposta di una speranza stabile alla vita, nella sua vittoria contro la morte. «È il Verbo di Dio che si è fatto carne e che abitò tra noi; è il Dio unigenito che ci ha fatto conoscere il Padre» (RdC 62).
    I discepoli e le prima comunità cristiane, in una rilettura credente, hanno colto qualcosa del mistero di Gesù. «Evento-Gesù» è anche questa comprensione della Chiesa primitiva, espressa nella proposta scritta (i testi scritturistici) e nella sua prassi (le strutture della comunità ecclesiale).
    Per cogliere il significato salvifico del mistero di Gesù, dobbiamo perciò orientare la nostra ricerca, nella direzione della testimonianza della comunità apostolica.
    I discepoli di Gesù avevano capito di essere amati e «pensati» da lui. Essi sperimentarono che in Gesù la vita umana trovava un senso: la loro situazione senza speranza e senza sbocco, carica di problemi, diventava in Gesù importante, interessante, affascinante. Era «parte» del Gesù storico con cui dialogavano. Assunta in Gesù, la vita umana era restituita ai discepoli, piena di significato.
    Essi poi compresero che tutto ciò, Gesù lo diceva e lo faceva, «nel nome di quel Dio che chiamava Padre». Nella bontà che gli uomini sperimentavano in Gesù, nel suo perdono, nella sua proposta di libertà e di gioia, di senso alla vita, c'era il Padre.
    In Gesù, Dio era accanto all'uomo.
    In questo orizzonte, la comunità ecclesiale si è costituita, ha agito e proclamato, animata dallo Spirito di Gesù.
    Essa ha così fondato una sua prassi pastorale. Rileggendo il suo oggi storico alla luce del mistero di Gesù, ha trovato una risposta ai problemi che il quotidiano le rilanciava. Ha colto l'unità dell'amore a Dio e dell'amore all'uomo (Mt 25; 1 Gv 4), nella consapevolezza che la «radice» del problema «uomo», la sua fondazione costituiva, è Dio stesso, colui che Gesù chiama suo Padre. Ha capito e annunciato che Gesù stesso ha vissuto questo in modo radicale.
    Questo evento di salvezza interpella oggi le nostre comunità ecclesiali. Orienta ogni progetto di pastorale, sulla linea di una reale incarnazione nell'oggi storico. Per essere, in Gesù, la presenza del Padre accanto all'uomo. Esprime molto bene questa coscienza della nostra comunità ecclesiale, un passo di RdC: «Amare Dio significa trovare e servire l'uomo, l'uomo vero, l'uomo integrale; amare l'uomo e fare il cammino con lui significa trovare Dio, termine trascendente, principio e ragione di ogni amore» (RdC 161).

    UNA «SVOLTA ANTROPOLOGICA» MOTIVATA DALLA FEDE

    Si parla oggi molto di «svolta» antropologica nella teologia e, di riflesso, nella pastorale. Con questo termine si indica non tanto l'attenzione rivolta all'uomo, un fatto questo abbastanza normale anche nella teologia classica. «Il fenomeno designato come "svolta antropologica della teologia" implica un cambiamento assai più profondo. Per esso non si considera l'antropologia come un settore particolarmente attuale della teologia dogmatica, ma come una dimensione di tutta la teologia, anzi, come l'aspetto più importante nella scienza della fede, non soltanto dal punto di vista delle esigenze esistenziali dell'umanità attuale, ma anche da quello della stessa rivelazione ». Per superare i possibili equivoci che tale affermazione potrebbe indurre, abbiamo collocato l'argomento a conclusione delle riflessioni sull'incarnazione. Lo richiama con molta incisività anche RdC: «Chiunque voglia fare all'uomo d'oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell'esporre il messaggio. È questa, del resto, esigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio. Il Dio della Rivelazione, infatti, è il "Dio con noi", il Dio che chiama, che salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata a irrompere nella storia, per rivelare a ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla» (RdC 77).
    Per fedeltà al progetto di salvezza del Dio di Gesù Cristo, sentiamo il bisogno di metterci in atteggiamento di profondo rispetto e sincera fedeltà all'uomo, al giovane concreto: l'evento-Gesù è il nostro decisivo confronto pastorale.
    In altre parole, diamo peso e ascolto, nella pastorale giovanile, all'impostazione antropologica, coinvolgiamo i fatti umani nell'educazione alla fede, cerchiamo un dialogo esistenziale con il giovane concreto, non per un ritrovato metodologico più aggiornato, ma per una esigenza di tipo teologico. La nostra pastorale non sarebbe fedele al Dio dell'Incarnazione se non cercasse, ansiosamente, una reale fedeltà al giovane, nel suo qui-ora storico. Il motivo fondante la «svolta antropologica» è il fatto stesso della Rivelazione: essa, nel suo momento culminante e conclusivo, è l'alienazione di Dio in forma umana.
    «L'umanità di Cristo non è (semplicemente) lo strumento, in fondo esterno, col quale un Dio che rimane invisibile, si rende noto, ma precisamente quello che Dio stesso (rimanendo Dio) diviene, quando si estranea e spossessa se medesimo nella dimensione dell'altro-da-se-stesso, del non-divino».
    D'altra parte, quell'uomo i cui connotati storici vogliamo ritrovare in ogni progetto pastorale è essenzialmente capace di infinito, aperto, naturalmente, a Dio. «L'uomo è, per definizione originaria, questo: il possibile essere altro, in cui sfocia l'autoalienazione di Dio, e il possibile fratello di Cristo».
    Nello schema che presenta sullo stesso piano la fedeltà a Dio e la fedeltà all'uomo, manca un criterio per decidere fin dove giungere nella fedeltà all'uomo. In questa visione unificata, si parla di un'unica fedeltà a Cristo, «Verbo di Dio fatto carne» (RdC 160), perché si trova nell'evento-Gesù la giustificazione e la misura dell'assumere veramente tutto l'umano dentro la vita divina, per «servire l'uomo in ogni sua condizione, in ogni sua necessità, in ogni sua infermità» (RdC 169) .


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