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    Anche la dinamica di gruppo negli esercizi spirituali?



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1970-01-94)

    In un recente convegno di studio sulla definizione di esercizi spirituali, si fece un gran discutere sulla necessità o meno del silenzio assoluto e sull'opportunità di introdurre momenti di «vita comunitaria», spazi di attività di gruppo.
    Rimbalzavano frequentemente, a difesa di una posizione contro l'altra, espressioni come «le esigenze del silenzio» o «le esigenze del conversare assieme».
    Qualcuno, però, fece osservare che esisteva un pericoloso errore prospettico. L'unica «realtà» veramente e totalmente seria, quella che sola può avanzare delle «esigenze», è la persona. Ad essa, vanno correlazionate tutte le altre cose, come funzioni ad un assoluto.
    Evidentemente, chi parlava di silenzio o di conversare, credeva fortemente alla persona. Difendeva il silenzio, per difendere la persona: il silenzio come un suo bene.
    Ma, forse, acriticamente, senza partire cioè dai suoi dinamismi più profondi; la persona risultava filtrata attraverso una «definizione» intoccabile, in cui aveva già il suo posto preciso il silenzio o il conversare. Ritornava così, nel clima teso della sala, l'affermazione della Gaudium et Spes, così densa di realismo apostolico e così rispettosa di ogni vero personalismo: «L'ordine sociale e il suo progresso debbono sempre lasciar prevalere il bene delle persone, giacché nell'ordinare le cose ci si deve adeguare all'ordine delle persone e non il contrario, secondo quanto suggerisce il Signore stesso quando dice che il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato» (26).
    Forse il nocciolo della dibattuta questione (che annovera paladini agguerriti nell'una e nell'altra sponda, pronti a sfoggiare, a iosa, documenti e citazioni più o meno autorevoli)[1] sta qui: nell'assolutizzare la persona, ponendo al suo servizio tutto il resto o nel voler, a tutti i costi, assolutizzare una serie di «cose», un modo di fare, un fascio di preoccupazioni e di punti fermi. Il problema sul tappeto rimane allora il seguente: con quale metodologia vanno impostati gli esercizi spirituali, perché possa realmente verificarsi in essi una «esperienza forte» di Dio?

    UNA RISPOSTA CHE FACCIA LA SINTESI

    La risposta al grosso interrogativo potrebbe essere data a priori in base a suggestioni più o meno motivate o ad un generico quanto inconcludente «si è sempre fatto così».
    Un tipo di risposta, nata da questi presupposti, non può certo situarsi in un contesto educativo. Ancora una volta, si gioca la persona al servizio del personaggio. Tentiamo allora un'altra strada.
    Nel discorso «esperienza forte di Dio», i termini in questione sono due, ambedue soggetti comprimari: Dio (da cui procede l'iniziativa, la creazione del clima per la risposta, e la realizzazione di una risposta) e l'uomo (che, per dono divino, ha un potere condizionante: può annullare, per rifiuto, per incapacità, per non integrazione, l'intervento di Dio, sul piano storico della sua persona).
    Se i termini sono due e se ciascuno ha un proprio peso nel gioco delle parti, ogni indicazione di metodologia ne deve tener conto, a scapito della sua efficienza.
    Sarà necessario studiare a fondo le «esigenze» dell'una e dell'altra parte, per porle in dialogo. Dal momento che l'amore onnipotente e creativo di Dio rispetta in pieno la personalità dell'interlocutore, nell'economia abituale della salvezza: Dio parla il linguaggio dell'uomo, di ogni uomo, per aprire una «conversazione» con lui.

    * In causa, è chiamata, allora, non soltanto la teologia. Essa porrà sul tappeto «il dato» del come Dio si fa «esperienza» per l'uomo; ed è tutto il lungo discorso fatto negli studi teologici di questa monografia. Ma non basta a costruire una definizione pastorale di esercizi spirituali. Manca il secondo punto di riferimento: la conoscenza dell'uomo, dell'uomo storico con cui si è a contatto (per esempio, nelle differenziazioni che le fasce di età pongono: infanzia, fanciullezza, giovinezza, età adulta).
    La conoscenza dell'uomo non nasce unicamente dalla teologia: forse il contributo maggiore le proviene dalla psicologia, dalla sociologia, dalle applicazioni specifiche della pedagogia.

    * Soltanto nella sintesi operativa di questi due «dati», è possibile tratteggiare una metodologia per gli esercizi spirituali.

    Si può obiettare che lo sforzo di traduzione pratica a livello di singole situazioni concrete, va evidentemente attuato e nessuno lo nega: che una definizione «teologica» di esercizi ha bisogno di essere incarnata nel momento operativo, ridimensionandola, volta per volta, adattandola, «storicizzandola». Non mi pare un metodo sufficiente.
    Non si tratta di ricercare solo un adattamento (sempre urgente) alla situazione concreta, ma di definire oggettivamente gli esercizi spirituali, partendo dalla situazione concreta. Non è semplice questione di procedura. Una cosa è tracciare un ideale, da realizzare con possibilismo, a contatto del quotidiano. Ed un'altra è indicare un ideale che tenga conto dell'oggettività del reale (persona che fa gli esercizi). Anche questo a ideale» (molto più realistico e quindi, tutto sommato, molto più vero) andrà poi reso «possibile», concreto, inserendolo nelle singole situazioni spicciole in cui si opera.
    Tutto ciò non è indulgere ad uno psico-sociologismo deteriore e arrendevole, che cerca di raccogliere gli ultimi brandelli dell'uomo che gli sfugge tra le mani, rinunciando alla Verità. È l'unico modo, ci pare, di essere «ortodossi», oggi. «Se le virtù teologali producessero atti senza bisogno di conscia partecipazione dell'io, allora ogni pastorale sarebbe non richiesta, ma siccome le virtù, per quanto infuse, non giungono all'atto se non per maturazione, intrecciandosi in pieno con la maturazione umana seguendo del tutto la meccanica di crescita delle virtù acquisite», allora diventa onesto, diventa veramente cercare il bene della persona, diventa essere rispettosi del piano di salvezza di Dio, recuperare tutte le nuove conoscenze sulla dinamica della persona e farle entrare in ogni programmazione pastorale.
    Interroghiamo quindi la psicologia e la pedagogia, per chiederci come è strutturato l'uomo, che «linguaggio» parla. Da queste riflessioni (nei limiti in cui sono ritenute valide) sintetizzate con gli studi teologici precedenti (che presupponiamo, accettandoli in blocco), può nascere una indicazione di metodologia, per gli esercizi spirituali.
    Senza dimenticare che l'«uomo», di cui si parla qui, è quello che fa il quotidiano della nostra Rivista: l'adolescente e il giovane.

    INTERROGHIAMO ALLORA LA PERSONA

    Fattori di sviluppo religioso

    Un'esperienza fa veramente storia per un uomo, quando investe la totalità della sua personalità. Esiste un doppio movimento, concentrico: il fascio dei dinamismi di una persona è contemporaneamente «la porta d'ingresso» al suo mondo interiore (soltanto se una proposta è correlazionata ad essi, è possibile intessere un dialogo costruttivo) e la «spia di sicurezza» dell'avvenuta integrazione (soltanto se la proposta ha modalità che le permettano di coinvolgerli nel loro complesso, è possibile giungere ad una vera integrazione, con relativa riorganizzazione della personalità. Altrimenti ci si ferma ad una pericolosa giustapposizione esteriore, che non incide nel campo motivazionale: è facile il rigetto o la disintegrazione tra mentalità e vita). In altri termini: ogni proposta deve essere intelligibile all'uomo, ed interessarlo nella sua totalità, per poter diventare davvero una sua esperienza (questo secondo punto è troppo spesso dimenticato).
    Per far assumere a queste riflessioni, la concretezza e la praticità di cui tutti noi siamo desiderosi, dovremmo riprendere qui, ancora una volta, il discorso già fatto frequentemente sulla Rivista, a proposito delle tre dimensioni della pastorale.
    Le energie che movimentano il cuore dell'uomo sono raggruppabili in tre dinamismi (coscienza, attività e socialità) profondamente interdipendenti. Ciascuno costruisce l'uomo, fa storia per lui, solamente quando è integrato agli altri.
    Scrivevo in altre pagine di Note di Pastorale Giovanile (1969/VI-VII. pag. 88): «La vita esige, per qualificare un uomo, non solo l'assimilazione di un ricco bagaglio di conoscenze, per una visione chiara della realtà, ma la continua traduzione immediata in azioni, proprio per la verità dell'apprendimento e per la sua profondità. Il tutto, però - apprendimento e azione - in un processo di relazioni con altri, sul piano interiore del condividere gioioso e fraterno: perché solo l'apprendere e l'agire con altri, fanno un apprendere e un agire da uomo».
    Tutto questo, per riaffermare che difficilmente si potrà giungere ad una vera «esperienza», se non si «bombarda» l'interessato, con contemporaneità e con giochi di reciprocità, in ciascuno di questi tre settori. Solo nella globalità, si può parlare di vera pastorale per l'uomo concreto.
    De Pieri, in questo stesso numero della Rivista, valendosi dei contributi più recenti della psicologia, indica i processi psicologici che favoriscono la maturazione della religiosità nei seguenti:

    * interiorizzazione,
    * integrazione (altri preferiscono il termine «assolutizzazione»),
    * socializzazione.

    (Per una spiegazione di questi termini, invito a rileggere l'articolo citato). Anche se l'angolo visuale è diverso, ritorna, tutto sommato, un discorso molto vicino al precedente. Soprattutto interessa il movimento di collegamento che pervade queste riflessioni: si tenta di superare una mentalità che pensa il momento di interiorizzare come l'unico punto d'intervento educativo. Se vogliamo ottenere una vera interiorizzazione dobbiamo inserirla in un contesto molto più vasto, dove ci sia spazio, per esempio, anche per la socializzazione.
    Si tratta, insomma, di processi psicologici interdipendenti e quindi egualmente presenti nella dinamica del soggetto. Se manca la cura di un impegno di socializzazione (educazione alla socialità), si rischia di trascurare qualcosa di fondamentale nella evoluzione religiosa, nel «divenire adulto nella fede» di un giovane.
    Come se si prescinde da uno sforzo di interiorizzazione, si «socializza a vuoto», svisando il bisogno più vero e profondo della persona.
    Ci basta, ora, aver indicato un principio. L'applicazione al contesto preciso degli esercizi, sarà ripresa in seguito.

    L'attenzione al momento educativo

    Si può facilmente obiettare che tutto questo è vero, condiviso, ma fuori tema. Gli esercizi spirituali sono una cosa «speciale»; inseriti in un processo di educazione che dovrà necessariamente tener conto delle indicazioni ricordate sopra, essi potranno far leva su di un aspetto soltanto. Per gli altri, c'è tutto lo spazio della vita
    Mi pare però che il rispetto della persona (il tema con cui sono state aperte queste riflessioni) consigli di battere un'altra strada. La persona in causa, c un adolescente, un giovane: uno in stato di educazione. Che è «già», ma «non ancora».
    Forse l'adulto può prescindere, in casi particolari, da qualcuno dei processi formativi. Se l'adulto è ben socializzato (l'ipotesi dovrebbe descrivere una realtà: è «adulto» solo chi è ben socializzato), non ha certo bisogno di rinnovati «esperimenti» di socializzazione, per poter interiorizzare esperienze.
    Il processo assente nel programma di una «pratica» può benissimo essere supplito dalla sua personale capacità. Diventa quindi chiaramente formativa una pausa di silenzio e di raccoglimento interiore, in cui l'adulto si isola dal turbinio della vita quotidiana.
    In quest'oasi forzata, ricupera la dimensione sociale della sua fede, per una immissione piena e totale nel ritmo assorbente di ogni sua giornata. Poiché ha in se stesso la dimensione comunitaria della sua fede, può imprimerla all'esperienza che vive, anche se ne è di fatto priva. Anzi, la privazione momentanea lo guida ad una profondità più significativa.
    Ma non è un'affermazione trascrivibile di peso per il mondo giovanile. Il giovane non è in grado di vivere all'interno di se stesso quanto non tocca, con le mani, all'esterno.
    Ha bisogno di macinare una riflessione, inserito in un gruppo, per scoprire che il suo modo di vedere la realtà è filigranato dagli altri e deve tradursi in contatto con gli altri.
    Ne ha bisogno per imparare a fare. E perché solo all'interno di questo movimento, gli è possibile apprendere veramente. Diventa «esperienza» per lui, ben integrata in una scala di valori, solo ciò che gli viene proposto e verificato immediatamente «nella faccia degli altri» (che gli diventano modelli di comportamento) e che riesce contemporaneamente a tradurre in azioni: una cosa che sente, che «vede», che fa.

    Il tempo forte nel momento educativo

    Rimane il secondo risvolto dell'obiezione: perché tutto, in un tempo speciale, «forte», mentre potrebbe essere diffuso nel resto della vita? Un tempo «forte» (un clima tutto particolare, in cui sono vissute in intensità, quasi puntualizzate, le varie esperienze, disseminate nel corso del ritmo banale della giornata) è essenziale: è problema di sopravvivenza. Siamo così compaginati che ci è praticamente impossibile essere sempre presenti a noi stessi, averci in mano momento per momento. Abbiamo bisogno di momenti particolari in cui concentrarci. Per poter, poi, «vivere di rendita» nel resto della giornata, dell'anno, della vita. Ma nel periodo dell'educazione, il tempo forte, per poter essere veramente sentito congeniale al resto della vita, credo che debba assomigliare di più al «banale», al quotidiano, che allo straordinario, almeno nel contenuto. La forma potrà essere intessuta di gesti «epici», romantici (una messa tutta speciale, per esempio, per recuperare il significato della messa, banchetto pasquale nella casa del Padre): il giovane accetta e ricerca il gesto nuovo, denso del sapore dell'avventura (pensiamo all'entusiasmo per il terzo mondo), ma lo vuole a ritmo con il quotidiano.
    È un po' il cosiddetto «processo al rallentatore», in cui si vive un'esperienza «incarnata», ma lentamente, assaporandola e decantandola, per coglierla in tutte le sue movenze.
    Il tempo «forte» diventa così veramente «straordinario», ma vicino ai problemi quotidiani; «romantico», ma in continua relazione alle cose di tutti i giorni.
    Il giovane abitualmente rifiuta ciò che non avverte come «praticamente» dentro la sua vita (basta pensare al denominatore comune di tutta la contestazione giovanile). Perché il pragmatismo di cui è impastato non gli permette il salto tra «il tempo in cui fa il pieno» e lo scatto nella vita. La difficoltà è oggettiva: è legata alla sua situazione, allo stato in cui si trova.
    Accettare che il tempo forte abbia più la faccia del quotidiano che quella dello straordinario, non è da indulgere ad atteggiamenti rinunciatari, ma servire in pieno la persona.
    Il giovane, suggestionato dal luccichio di mille bagliori, o preso nel vortice di una conversazione che tocca le corde più sensibili, può anche entusiasmarsi di tutta una serie di cose che non gli sono abituali. Ma l'unità di misura dell'efficienza educativa è il «dopo», quando tutto ritorna a freddo. E quindi l'integrabilità o meno delle proposte che gli sono state offerte.
    Ho accentuato un volto della medaglia. Evidentemente non sconfesso il secondo. Tutt'altro. C'è bisogno di cose nuove, di «uscire», di fare deserto negli esercizi, ma sempre con uno spiraglio aperto alla totalità del processo educativo, quello che fa da perno di tutto il sistema.

    UNA METODOLOGIA PER GLI ESERCIZI DEI GIOVANI

    Tutte le osservazioni precedenti rimangono necessariamente nel generico: hanno la funzione, nei limiti della loro oggettività, di tracciare delle urgenze, da salvare a tutti i costi, per salvare la persona. E nulla più.
    Il concreto nasce dalla traduzione che ne farà chi ha le mani in pasta, situazione per situazione.
    Tento soltanto qualche applicazione conclusiva. Gli esercizi spirituali, per gli adolescenti e i giovani, possono essere soltanto un momento di riflessione personale, basata sull'ascolto della Parola di Dio, sulla preghiera, sul silenzio e sulla meditazione? Direi di no, in tutti i casi (e non solo, come si ripete qua e là, per i meno impegnati, negli esercizi di serie B). Questo che è punto d'arrivo ottimale per un adulto maturo, non sembra formativo per un giovane. Egli non riesce a fare «esperienza forte di Dio», immesso solo in questo contesto.
    Ha bisogno di esperimentare a livello di gruppo (preghiera di gruppo, riflessione nel gruppo, clima di amicizia, presenza di modelli di comportamento, per non fare che qualche esempio) quanto della Parola di Dio ascolta, medita, vive, a livello di coscienza.
    Gli esercizi spirituali per i giovani, mi pare abbiano bisogno di uno spazio per ciascuno dei tre dinamismi della persona: coscienza, attività, comunione. Uno spazio, cioè, per la proclamazione della Parola, per una immediata traduzione in attività liturgiche, come confluenza di tutto l'agire della sua giornata e per un clima comunitario in cui sia possibile respirare e ripensare Parola e preghiera.
    Tenendo conto però di queste due prospettive:

    * I tre processi, pur egualmente ricercati e programmati, esigono delle sottolineature diverse, dei momenti diversi, delle forme diverse: presenza non è prevalenza. Il dosaggio e l'accentuazione dipendono da un sacco di fattori: la preparazione spirituale degli esercitandi, il loro livello di età, il fine che si vuole raggiungere, ecc.

    * I tre processi non sono alternativi o suppletivi l'uno dell'altro. Ma vanno vissuti in profonda integrazione reciproca. Forse, una certa sfiducia sulla capacità educativa dell'attività di gruppo, nel corso degli esercizi spirituali, è nata da una pessima utilizzazione del gruppo. Diventava solo un riempitivo, o una palestra di discussione sotto la spinta della voglia di discutere che i giovani hanno innata. Questa è da rifiutarsi categoricamente. Coloro che hanno responsabilità nella programmazione di corsi di esercizi dovrebbero ricordare che, prima di entrare in una situazione di gruppo, il giovane ha bisogno di una riflessione personale; lo stesso contatto di gruppo esige poi una fermentazione interiore in uno spazio di profondo silenzio. Per non spersonalizzare un momento così importante. Non quindi: o gruppo o silenzio. Ma silenzio e gruppo. L'uno per l'altro, per l'autenticità di ciascuno.

    Nella dinamica del gruppo, andranno ricercati quindi i movimenti che possono facilitare maggiormente l'interiorizzazione.
    La revisione di vita, per esempio, assume un ruolo assai rilevante, perché affianca una lettura comunitaria della Parola di Dio, «inserita nel tessuto vivo delle situazioni» (il modo più ecclesiale per leggere la Scrittura) alla ricchezza psicosociologica dei modelli di comportamento e della spinta in profondità che il gruppo imprime ai singoli.
    Lo stesso vale per la liturgia. Celebrazioni «giovani», vive, innestate nel quotidiano hanno potente carica formativa. Ma appellano alla comunità. Per non diventare vuoto ritualismo. E appellano alla solidità dei contenuti, per non rimanere a livello di suggestione. Non fanno «esperienza di Dio» solo per il fatto che sono state vissute con entusiasmo. Ma solo perché sono state poi, profondamente, interiorizzate.
    So di essere rimasto ancora molto nel vago. Mi auguro solo di aver rispolverato un grosso problema. Perché ciascuno, in ascolto delle esigenze dell'Assoluto e del piccolo assoluto di quaggiù, la persona dei nostri giovani, ricuperi una metodologia che sia veramente funzionale. Forse non tutto è condiviso. Ma questo fa parte del dialogo. La verità si costruisce, lentamente e faticosamente, rinunciando e affermando il proprio carisma.
    Perciò, queste mie riflessioni sono solo interlocutorie. Hanno lo scopo, unico, di aprire una conversazione e di verificare esperienze.


    [1]Tra i più autorevoli interventi, quello frequentemente citato è il passo della Lettera di Paolo VI al Congresso internazionale degli esercizi spirituali dei Gesuiti (Loiola, 16-17 agosto 1966), che recita testualmente così: «Sarebbe un errore diluire il ritiro degli esercizi con innovazioni che, per quanto buone in se stesse, ridurrebbero l'effetto del ritiro chiuso. Queste iniziative, come attività di gruppo, discussioni religiose e ricerche di sociologia religiosa, hanno il loro posto nella Chiesa, ma il loro posto non è il ritiro chiuso, nel quale l'anima sola con Dio, riceve generosamente l'incontro con Lui ed è da Lui meravigliosamente illuminata e fortificata».
    Queste note sono un tentativo di condurre le affermazioni del Papa verso un significato pieno ed integrale, al di là di ogni interpretazione parziale e prevenuta. Mi pare che il denominatore sia la preoccupazione di evitare, negli esercizi, ogni sociologismo, ogni messa sul tappeto di problemi d'ordine sociale, anche se d'intonazione religiosa.
    Anche noi rifiutiamo ciò, categoricamente Il punto focale è la persona: non i problemi sociali o la voglia di far gruppo, solo per socializzare. Il gruppo serve la persona. Ed è utilizzabile solo nei termini in cui la serve davvero. La revisione di vita, che in questo articolo è indicata come uno dei movimenti più costruttivi del gruppo, è tutt'altro che «discussione religiosa o ricerca di sociologia religiosa»: è incarnazione della Parola di Dio nel quotidiano di ogni persona. D'altra parte, questo stralcio di lettera del Papa ha come preoccupazione di fondo la «salvezza» della persona. Proprio ciò che desideriamo raggiungere, accettando un certo e qualificato dinamismo di gruppo. Le parole del Papa sono contro un uso della dinamica di gruppo distraente e spersonalizzante.
    Esiste inoltre, nella Chiesa, un pluralismo di spiritualità ed esiste una vasta gamma di termini di riferimento: pensiamo, ad esempio, quanto sia diverso il mondo giovanile da quello adulto. Il Papa si riferisce soprattutto ad una forma di spiritualità, che mira ad una vera conversione e che è riferibile in pieno soprattutto per gli adulti.


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