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    Gruppi giovanili al servizio del quartiere: esperienze



    (NPG 1973-10-36)

    Lungo la direttrice del discorso da tempo iniziato su «fede e impegno politico», vogliamo affrontare, con interventi successivi, il tema del «quartiere» come luogo privilegiato di un impegno di liberazione che si saldi con la professata identità cristiana.
    I motivi che stanno alla base della scelta sono molti ed evidenti.
    Possono essere cristallizzati attorno a due poli: il fatto e i problemi che ne sgorgano.
    Molti gruppi ecclesiali hanno scoperto il quartiere come piattaforma di verifica di progetti di servizio: si fa sempre più strada la coscienza del quartiere come «corpo profano» della comunità ecclesiale e quindi «provocazione» alla sua identità. Inoltre lungo l'asse del quartiere passa oggi un modo nuovo di fare politica, dove parole come «partecipazione», «cogestione», «rappresentatività» assumono uno spessore particolare di verità.
    Coloro che con un briciolo di senso critico si sono imbarcati in questa avventura, hanno facilmente avvertito la spina di mille seri problemi. Sul terreno pratico, la sintesi tra fede e impegno politico è continuamente minacciata da integrismi o da riduzionismi; il confronto tra ideologie diverse, legato alla necessità di convivere operativamente, accende le polemiche assopite sotto l'incalzare delle facili teorizzazioni. E, sull'altro fronte, riappare insistente l'interrogativo sul significato delle istituzioni: agire all'interno delle istituzioni esistenti o impiantare proprie istituzioni sotto il vessillo della libertà di movimento e del più pronto servizio? E tra i due estremi, la gamma svariata delle concrete situazioni quotidiane...
    Altri problemi nascono dal fatto opposto: per troppi gruppi ecclesiali l'attività di quartiere è ancora, inconsapevolmente o per decisione motivata, a livello di «tabù». Ogni scelta va rispettata. Ma il rispetto non può giungere fino ad eliminare il dubbio: è possibile «essere chiesa» e per di più «locale», ignorando la storia quotidiana di cui essa deve impastarsi, per farsi «storia di salvezza»?
    Per dare una mano ai tanti gruppi impegnati a fondo in attività di quartiere e per «provocare» coloro che ne sono invece ai margini, la redazione intende affrontare il discorso.
    Ci preme indicare subito il taglio di partenza, per fornire una chiave di lettura adeguata.
    Desideriamo interessarci prevalentemente dell'aspetto giovanile del problema e della sua dimensione specificamente pastorale, lasciando alle riviste specializzate altri discorsi.
    Ma per affrontare le due dimensioni, dobbiamo situare l'argomento. E quindi far posto – per quell'opzione di fondo verso la «strategia» dell'incarnazione – anche ad altre voci, più ampie e perciò meno immediatamente in tema. La facciamo però «in vista di...», evitando ogni specializzazione e soprattutto ogni giudizio.
    Dare una mano a chi è nella mischia, significa, per noi, «rivelargli» il significato degli interrogativi che si pone e di quelli che dovrebbe porsi, per la serietà del suo servizio.
    Non possiamo – e non vogliamo – invece prospettare soluzioni già belle e confezionate. Esse sono decisamente legate alla propria concreta «realtà». Ma nessuna soluzione è veramente significativa se non è maturata in una piena consapevolezza delle problematiche «di fatto» presenti.
    Rivelare le problematiche: ecco quello che ci sta a cuore, prima di tutto.
    Ed offrire, come sempre, «materiale da costruzione» attraverso il confronto con fatti vissuti ed analisi elaborate: come impianto di soluzione e come contrappeso di valori.
    Un ultimo interrogativo.
    Attraverso quale strada raggiungere l'obiettivo?
    La domanda è rimbalzata in redazione, nel momento in cui è stato posto all'ordine del giorno il «progetto-quartiere».
    La nostra scelta: la via dell'esperienza.
    Abbiamo preso contatto con diversi gruppi giovanili impegnati in tutta Italia in attività di quartiere a titoli e modalità le più disparate.
    I nastri di registrazione e il materiale di documentazione è stato elaborato, fino a cristallizzare alcune «esperienze» particolarmente emblematiche. Su queste esperienze si è iniziata la riflessione teorica: nello stesso gruppo di redazione e con il contributo di alcuni esperti.
    Tutto questo «materiale» è ora pronto per essere proposto ai lettori.
    Lo faremo «a puntate», intercalando esperienze e studi.
    C'è una cosa che vogliamo sottolineare, con particolare attenzione. Presentare esperienze o proporre riflessioni non significa immediatamente assumere e ratificare con la firma redazionale.
    Molte soluzioni ci sembrano interessanti e stimolanti. Altre battute ci lasciano perplessi.
    Il lettore maturo saprà fare una sua «revisione critica».
    In uno dei prossimi numeri, la redazione farà il punto sull'argomento, offrendo una chiave di lettura delle singole esperienze e soprattutto una proposta conclusiva, in sintonia con le scelte abituali in cui essa si riconosce. A quelle pagine rimandiamo, per un giudizio critico.
    Ogni valutazione legata alla parzialità di battute o di singoli fatti, ci pare decisamente stonata e prematura.
    Anche perché – ed è una delle scelte per noi normale – ogni progetto si colora di mille parziali contributi: le singole pagine e le varie esperienze sono, in una visione ottimale, tessere di un più vasto affresco.

    (Redazione di F. Garelli e R. Tonelli)

    IL QUARTIERE COME MODO NUOVO DI FARE POLITICA 

    A Bologna ì consigli di quartiere sono «istituzionalizzati»: sono composti cioè da persone appartenenti ai partiti politici e la distribuzione delle forze all'interno dell'organo di quartiere rispecchia la composizione politica della città, così come è emersa dalle elezioni.
    In ogni quartiere inoltre c'è un rappresentante del sindaco.
    In questo contesto chi vuole entrare nel vivo di un impegno di quartiere deve fare i conti con i partiti.
    Il quartiere della «Bolognina», alla periferia della città, comprende più di 50.000 abitanti. Oltre al rappresentante del sindaco formano il consiglio 20 consiglieri distribuiti secondo questi rapporti di forza: 10 PCI; 5 DC; 2 PSI; 2 PSDI; 1 PLI; 1 MSI.
    In connessione a questo organo centrale di quartiere c'è tutta una serie di commissioni (scuola, assistenza, igiene, urbanistica, verde pubblico, commercio, ecc.) che costituiscono uno strumento di aiuto, indispensabile per l'azione del consiglio di quartiere. Rappresentano infatti la possibilità di analisi e presa di coscienza dei problemi più urgenti del quartiere e di conseguenza una proposta di soluzione. Inoltre queste commissioni sono aperte a tutta la cittadinanza che vi partecipa sotto il coordinamento della presidenza della commissione formata da consiglieri del quartiere.
    Agli attuali cinque consiglieri della DC (tutti giovani: età media 25 anni) abbiamo chiesto una presentazione della loro azione di impegno politico nel quartiere.
    C'è alle loro spalle uno sforzo di qualificazione che dura ormai da otto anni, da quando cioè hanno deciso di trovare uno sbocco politico alle loro convinzioni ed idee.
    Li affianca tutto un movimento che hanno saputo creare per non agire come gruppo sparuto in una realtà così complessa e per dare peso» ad un momento di liberazione politica.

    DALL'ANALISI DELLA SOCIETÀ
    A UNA STRATEGIA DI INTERVENTO ALTERNATIVO 

    Il discorso che ci collega come persone, che poi si traduce in un impegno del gruppo nell'ambito delle strutture di quartiere, nasce da un'analisi comune sul tipo di società nella quale viviamo. Questa analisi chiaramente ci porta ad un giudizio di carattere negativo perché ravvisiamo in questo modello sociale ed in questo assetto politico tante contraddizioni che si determinano su un piano concreto nel processo di ulteriore emarginazione nei confronti di categorie, persone, gruppi, che, rispetto agli attuali equilibri, risultano sempre i più deboli. Da questa comune analisi di fondo sorge una ideologia magari un po' pretenziosa» che ci porta ad un discorso strategico generale nel quale il nostro impegno è finalizzato (per quanto possa essere possibile) al mutamento di questo equilibrio sociale. Abbiamo dinanzi, come meta, la formazione di un sistema sociale alternativo in cui diventino di fatto momenti fondamentali il pluralismo (inteso come momento necessario di crescita della comunità e di una presenza articolata tra vari livelli) e il discorso dell'autogestione (cioè della possibilità che l'individuo possa diventare effettivamente momento essenziale nelle scelte che riguardano da vicino la propria vita, il proprio modo di essere in rapporto con gli altri). Il nostro fine è quindi quello di voler mettere in primo piano gli interessi collettivi rispetto agli interessi settoriali, personali.
    Nel cercare di elaborare l'analisi della realtà sociale e la strategia alternativa e soprattutto nello sforzo di tradurre operativamente queste nostre convinzioni in un'azione di quartiere, abbiamo la coscienza di formare un gruppo di persone che ha in comune alcuni valori ben definiti e che si ritrova su un obiettivo di fondo che ovviamente, considerata la dimensione in cui operiamo, viene avvertito come utopistico.

    L'ANALISI DELL'«AMBIENTE» IN CUI VIVIAMO 

    Oltre all'analisi della società non poteva mancare da parte del nostro gruppo la considerazione delle caratteristiche della città e del quartiere in cui viviamo. Da dove proviene la crisi del nostro quartiere, della nostra città?
    La nascita di un tipo di città industriale è collegata alla nascita della grande industria in Italia, alla fine dell'ottocento. Muore la città medievale, che era una città umanistica, una città che aveva un suo centro, una sua piazza, una sua chiesa...
    Con l'arrivo della grande industria nel paese la città monocentrica si rompe, e nasce la città di periferia che evidenzia subito la sua caratteristica di essere una città senza dialogo. Infatti noi abbiamo un quartiere che è privo di una piazza, è privo di una chiesa, è privo di servizi sociali: è solamente cresciuto attorno a qualche grande industria.
    Da questa costatazione sorge l'ambizione del nostro gruppo che si occupa del quartiere: riconvertire questo quartiere di tipo industriale, costruire una nuova città (il quartiere fu chiamato originariamente Bolognina quasi per significare un'alternativa ad un tipo di città vecchia); costruire una città a misura d'uomo: e tutto ciò rispettando però le componenti di questa città, altrimenti la snatureremmo. Quindi la piazza, il teatro di quartiere, i servizi sociali, ecc.
    Si tratta pertanto di creare le attrezzature per il dialogo, di trovare lo spazio per l'uomo all'interno del quartiere, all'interno della città.
    Altra caratteristica di questa città è il monismo politico. A Bologna ci sono le prime cooperative socialiste; qui il partito socialista aveva le sue roccaforti all'inizio del secolo; qui, adesso, il partito comunista ha il 60% dei voti. Sui cinquantamila abitanti del nostro quartiere, sei su dieci sono politicamente comunisti.
    Il comitato di quartiere si inserisce in questo monismo politico, anzi, lo ha rotto.
    Quindi noi crediamo di essere utili per riportare oggi il dialogo anche al livello della struttura politica. Prima si sentiva solo la voce del partito comunista. Ora nel nostro quartiere si sentono anche le voci delle altre componenti: pensiamo che questo fatto contribuisca a far crescere il livello di base.

    LA POSIZIONE DEL NOSTRO GRUPPO ALL'INTERNO DEL PARTITO E IN RAPPORTO ALLE ALTRE FORZE POLITICHE 

    La nostra forza non è certo maggioritaria all'interno del partito. Questo comunque sarebbe certamente un male minore dal momento che tutto quanto contribuisce alla dialettica ed alla crescita si rivela come un fatto positivo. Ci sono invece delle difficoltà di rapporto col partito non tanto per questa differenza di valutazione politica o per le caratteristiche specifiche della nostra situazione.
    Al di là di tutto questo c'è un problema comune a tutti i partiti in cui è presente un gruppo che tenta di impostare l'azione di quartiere in modo diverso dai canoni normali che regolano la politica. E questo perché i partiti, intesi in senso tradizionale, mantengono ancora quelle strutture che, a nostro avviso, non sono pronte od idonee allo stato attuale ad aprirsi ad una realtà di quartiere. Anche l'ultima appendice organizzativa del partito, la sezione, ha degli aspetti di sclerotizzazione tale per cui, così com'è strutturata, non si inserisce ancora in maniera organica in un discorso di decentramento.
    Infatti la sezione intesa in senso tradizionale è quel luogo dove un certo numero di persone fedelissime, iscritte, supertesserate, sono abituate a discutere tra di loro, a votare per i congressi interni, a guardare alla logica interna del partito in maniera prevalente rispetto a quella che è invece una problematica degli interessi collettivi della zona nella quale il partito si trova ad operare.
    Per inserirsi nella realtà del decentramento anche le strutture di partito devono fare quello che per il politico è lo sforzo più grosso: uno sforzo di invenzione, di fantasia, di adeguamento. Perché se l'aspetto organizzativo, l'aspetto del «modo» in cui si concretizza una certa presenza, può essere ritenuto di secondaria importanza in una dimensione ampia, in una realtà concreta come è quella del quartiere, tutto ciò che è concreto, che è reale, che si tocca con mano, assume un'importanza fondamentale.
    Da queste convinzioni nascono iniziative e pressioni nei confronti della struttura di partito. È lo sforzo che il nostro gruppo sta sostenendo perché il partito si apra al quartiere non soltanto a livello di impegno generico ma sulla linea di forme organizzative nuove.
    Per non limitarci alla pura enunciazione di principi in cui crediamo, riferiamo la nostra esperienza sul tipo di designazione che ha permesso a noi di far parte del consiglio di quartiere: si tratta di un primo tentativo di quel partito nuovo da noi auspicato, di come cioè la base, anche da un punto di vista puramente organizzativo, possa avere una presenza determinante nelle scelte politiche.
    Invece di lasciare esclusivamente all'apparato di partito il monopolio della designazione degli uomini che sarebbero andati in consiglio di quartiere, si è trovata una via intermedia che ci ha consentito una più larga consultazione all'interno dell'opinione pubblica. Un sistema abbastanza semplice, anche se organizzativa-mente faticoso. Si è cercato di investire di questo problema tutto il nostro mondo culturale, mandando a casa di più di mille famiglie del nostro quartiere una scheda che debitamente compilata e restituita portava ad una prima indicazione di una ventina di persone tra le quali scegliere i rappresentanti da inviare al consiglio di quartiere. Si è trattato quindi di un metodo di elezioni primarie... La lista delle 20 persone formulata in base a queste prime indicazioni venne poi sottoposta all'intera cittadinanza del quartiere, istituendo 4 seggi volanti distribuiti nelle zone. Qualsiasi cittadino che avesse compiuto i 18 anni aveva diritto a votare ed esprimere le proprie preferenze sulla base di quelle venti persone designate. Con questo metodo sono stati eletti i cinque attuali componenti della DC al consiglio di quartiere.
    Questa novità di impostazione è da trasportare pure nei rapporti con le altre forze politiche.
    Anche a questo livello le persone si muovono prigioniere di etichette e di predeterminazione. È la vittoria delle questioni di principio su tutte le esigenze, anche le più concrete. Con l'aggravante che il gioco di questa politica è condotto sulla pelle della popolazione.
    Si tratta di rivoluzionare i rapporti che da costruzione di barricate devono diventare momenti dialettici di confronto e di verifica per la soluzione di esigenze e problemi concreti.
    L'esperienza di questi anni ci dimostra che è possibile lavorare in questa direzione all'interno del quartiere.
    Ciò che qualifica non è il distintivo che ognuno porta all'occhiello quanto la preparazione di cui i vari gruppi operanti nel quartiere possono disporre. La bontà quindi di un'iniziativa non è valutata dal colore politico.
    Ha un metro di giudizio molto più rigoroso: dipende dal fatto che l'iniziativa venga presa da un gruppo, portata avanti in maniera corretta e costante e che abbia dei contenuti validi.
    Una cosa è certa comunque: nell'azione di quartiere non c'è posto per l'improvvisazione o per i fuochi di paglia.

    LA RIFLESSIONE DEL GRUPPO SUL RAPPORTO TRA
    LA STRUTTURA DI QUARTIERE E L'AMMINISTRAZIONE COMUNALE

    II discorso di fondo resta il rapporto tra i problemi reali della base, il tipo di intervento che la popolazione stessa può fare direttamente, e la struttura di quartiere così com'è attualmente.
    Da una parte noi siamo contrari all'eccessiva istituzionalizzazione di queste forme e quindi cerchiamo di snellire tutto quello che è apparato burocratico e dall'altra siamo consapevoli che il discorso del decentramento è legato a due presupposti fondamentali su cui ci soffermiamo.
    Qual è il primo di questi presupposti? Che si riesca anzitutto a creare una sensibilità a livello collettivo, che anche se non si traduce in una partecipazione oceanica tutte le volte, si manifesti comunque in una disponibilità al discorso; inoltre che vi siano dei momenti significativi in cui questa sensibilità e coscientizzazione si rivelino in maniera più chiara ed avvertibile.
    Si tratta quindi di trovare, inventare, delle nuove forme di partecipazione senza avere la volontà di istituzionalizzarle in maniera chiusa.
    II secondo presupposto, e si tratta forse del campo più delicato, riguarda il problema del rapporto tra realtà di quartiere e realtà di giunta, di amministrazione centrale. Su questo rapporto è costantemente presente una grossa spada di Damocle: l'atteggiamento da parte dell'amministrazione comunale di voler strumentalizzare il quartiere per delle decisioni che sono già state prese. Questo evidentemente determina una lenta paralisi e la fine di un esperimento. È un punto su cui l'opposizione deve essere mobilitata per impedire che succeda. E tanto meno si può credere che una struttura di quartiere possa servire da struttura cuscinetto, o come momento di razionalizzazione delle spinte di base che nascono dai singoli problemi. Questo sarebbe un discorso inaccettabile. Mentre invece il quartiere deve essere la sede dove la proposta, tante volte disorganizzata o politicamente non razionale, trova una sua dimensione, una sua collocazione politica, e quindi si qualifica diventando strumento di pressione democratica perché certe realtà cambino.

    IL PROBLEMA DELLA IDENTITÀ CRISTIANA

    II problema dell'identità cristiana è stato ben risolto, ci pare, dal nostro gruppo. Le motivazioni cristiane, dove ci sono, hanno carattere esclusivamente personale per cui chi decide di fare azione di quartiere partendo dalla propria fede lo fa perché giudica che per la sua identità cristiana sia qualificante un impegno a livello politico.
    Ma ognuno è attento a non generalizzare le proprie conclusioni in questo campo.
    Si cerca quindi di non presentarci con l'etichetta di gruppo cattolico proprio per non giungere ad una posizione integralista della nostra azione di quartiere. Così facendo deludiamo qualche buon cattolico, estraneo al nostro gruppo, che ci vorrebbe armati di stendardo e vessillo a sostenere la nostra posizione di cattolici. Ma questa è una scelta precisa di quanti, tra di noi, hanno affrontato il problema della propria identità cristiana.
    È logico poi che questa scelta sul modo con cui chi crede deve porsi all'interno della società, si ripercuota nei rapporti del nostro gruppo col mondo cattolico.

    No all'integrismo cattolico

    Evidentemente il nostro gruppo è chiamato ad un confronto anche con il cosiddetto «mondo cattolico» ufficiale, dal momento che ogni fatto sociale si impatta con le strutture preesistenti.
    Il discorso a questo punto si fa complesso perché ci sono delle distanze da colmare, c'è una sensibilità nuova da favorire, in qualche modo da creare, verso la dimensione dell'impegno pubblico, dell'impegno per la collettività. La mentalità di molti cattolici, anche di noi prima di fare una certa esperienza insieme, era molto condizionata dall'attività fatta in parrocchia, in quello che diventava il proprio piccolo mondo. Qui il cinema doveva essere per forza il cinema parrocchiale, la manifestazione culturale o la tavola rotonda era fatta bene se era fatta in parrocchia...
    Oggi questa dimensione deve cambiare. Le persone devono ritrovare quello stesso tipo di impegno, proiettato però in una dimensione di comunità, con tutto quello che ciò comporta: l'accettazione reale di un rapporto di dialogo, di rispetto reciproco, di rispetto di quello che è diverso...
    Pensiamo che su questo punto la risposta più positiva venga dai più giovani, da coloro che passati personalmente attraverso tutta una serie di esperienze, iniziate con la contestazione universitaria, hanno maturato una sensibilità politica riflessa in ogni realtà in cui vivono e in ogni valore in cui credono. Così quelli che credono si rendono conto che la parrocchia intesa come struttura non può esaurire una realtà che è di fatto (anche teologicamente) ben più complessa.

    Il collegamento con i gruppi giovanili presenti nel quartiere

    È la strada che abbiamo percorso noi e che è attualmente battuta da molti gruppi giovanili della zone con cui siamo collegati.
    La scoperta del quartiere come luogo privilegiato in cui vivere la propria fede ci ha recato la grande responsabilità di non chiudere in cassaforte questa nostra convinzione. E per parteciparla agli altri abbiamo scelto anzitutto di entrare in contatto con i giovani delle varie parrocchie, associazioni e circoli che sono presenti nell'ambito del quartiere.
    Non è stata una scelta a caso. La conoscenza dell'ambiente cattolico da cui il nostro gruppo proviene ci ha rammentato l'alto potenziale giovanile presente in molte strutture ecclesiali, la cui elevata disponibilità ad accogliere valide iniziative non sempre trova proposte concrete di campi di intervento, soprattutto a livello sociale.
    Inoltre questo contatto ci pareva il modo migliore per iniziare la sensibilizzazione della base e per far aumentare il peso politico delle nostre iniziative a livello di quartiere.
    Ma non è estraneo a questa apertura un motivo di sopravvivenza del gruppo. Si temeva che un impegno così oneroso come quello del quartiere potesse risucchiarci tutti nella fase di attuazione delle iniziative col pericolo di perdere la dimensione delle esigenze reali della popolazione e di morire per mancanza di ossigeno e di ricambio. Era quindi necessario creare un movimento di persone che facesse fluttuare idee, esigenze e proposte curando quindi i contatti tra la base e il centro.
    Oggi questo movimento è una realtà. È l'entroterra prezioso e ramificato che permette al nostro gruppo di agire per un servizio qualificato.

    La nostra consulta di quartiere

    Attorno quindi al nostro gruppo consigliere che ha la funzione di coagulo, si è formata una consulta di quartiere costituita dalla fascia culturale-cattolica. Si tratta di 120 persone il cui interesse ai problemi del quartiere si traduce in un contributo effettivo per la ricerca di soluzione. Di questi 40 sono impegnati stabilmente nelle varie commissioni operanti nel consiglio.
    Siamo continuamente alla ricerca di chiara identità.
    Esiste quindi un tempo in cui la consulta di quartiere fa una revisione della propria azione e delle linee portanti che la caratterizzano.
    È il tempo del ripensamento e della progettazione tanto importante quanto più i problemi sul tappeto sono scottanti e l'urgenza di una comune azione qualificata diventa indispensabile.

    IL CAMPO DI VERIFICA DEL NOSTRO GRUPPO:
    LA COMMISSIONE «ASSISTENZA»

    Il settore chiave in cui operiamo come gruppo è quello della assistenza. A livello di convinzione personale noi pensiamo che nel campo dell'assistenza si giochi la credibilità del cristiano contemporaneo, almeno nella misura in cui riesce ad impegnarsi politicamente.
    Ci pare di cogliere in questo settore due tendenze generali: la lotta all'emarginazione e la tendenza alla partecipazione ai servizi sociali.
    La soluzione organizzata della società capitalistica nei riguardi del problema degli handicappati psichici, fisici, sensoriali, dei disadattati e, in generale, delle persone in difficoltà con l'ambiente, è ingiusta e disumanizzante nella misura in cui essa li esclude, li emargina, li segrega e li istituzionalizza. Di qui la tendenza interdipendente di coinvolgere l'intera comunità intorno ai problemi socio-assistenziali. Come confermano anche esperienze straniere, la comunità, se idoneamente informata, non solo accetta di integrare gli handicappati, ma anche ne ricava una maturazione morale e sociale.
    Con queste convinzioni alla base, siamo partiti con tutta una serie di iniziative che paghiamo sulla nostra pelle per tradurre operativamente nel nostro quartiere quello in cui crediamo.

    Il giudice minorile di quartiere

    La prima grande iniziativa che ebbe anche risonanza sulla stampa nazionale – per la quale fummo ad un tempo ammirati e attaccati – fu quella del giudice minorile di quartiere.
    Abbiamo focalizzato la nostra attenzione sul campo di disadattamento, sul campo dei minori abbandonati, di quelli che sono in collegio e sulla crisi della giustizia minorile nel paese. Ci pareva che questo fosse uno dei tanti apparati burocratici forte con i deboli e debole con i forti, con una chiara funzione di copertura di interessi e senza alcun collegamento con le esigenze della classe lavoratrice.
    Ci facemmo anche promotori di un documento che fu approvato all'unanimità dal consiglio di quartiere in cui mettevamo in evidenza alcuni dati piuttosto inquietanti che riguardavano il campo delle scuole superiori, dei minori ricoverati in case di rieducazione e della popolazione detenuta.
    Questi tre momenti evidenziavano una netta divisione a livello di classi sociali. Da una parte più dell'85% dei giovani che frequentavano le scuole superiori appartenevano allo strato sociale medio od alto; dall'altra la stragrande maggioranza dei ricoverati in case di rieducazione o delle famiglie che avevano un membro in carcere appartenevano allo strato sociale basso.
    In che cosa consiste la nostra proposta?
    Il tribunale dei minori è come una magistratura che è composta da tecnici, da giudici di carriera e da giudici laici, giudici onorari. Noi chiedevamo di entrare in questo meccanismo e di poter avere un giudice ufficiale del tribunale eletto dal consiglio di quartiere, come giudice onorario del tribunale minorile.
    La nostra prospettiva era l'autogestione. Noi volevamo intanto un giudice elettivo per i minori, come esiste in Inghilterra, e inoltre volevamo situare il giudice elettivo dentro un organismo che decide tutto quanto riguarda i minori. Questo giudice poi avrebbe dovuto collegarsi a tutta una serie di iniziative tese ad una politica di deistituzionalizzazione: è necessario cioè che la comunità assuma in proprio i casi di assistenza senza delegare istituti a tale compito, evitando così l'emarginazione di fatto delle persone.

    Il servizio ai disadattati

    Una seconda iniziativa riguarda un gruppo di cinque assistenti sociali che si sono offerte al ministero della giustizia per creare un gruppo educativo di giovani disadattati. Nella regione c'era un unico istituto a cui il tribunale dei minorenni affidava le ragazze disadattate. Improvvisamente le suore che lo gestivano hanno fatto una scelta diversa per cui è sorto il problema di come aiutare queste ragazze.
    Attualmente non c'è alcuna struttura che pensi loro. Ecco quindi l'importanza che riveste l'iniziativa di queste cinque assistenti sociali che si sono offerte per organizzare un gruppo educativo nel quartiere.

    Il servizio agli handicappati

    Poi c'è il settore degli handicappati che in questo momento è il più incandescente.
    In questo settore abbiamo varato un'iniziativa d'avanguardia. Nel quartiere erano presenti due scuole speciali: una per subnormali molto gravi; l'altra una scuola elementare speciale.
    Si è deciso di inserire i bambini della scuola speciale nelle scuole elementari del quartiere.
    Che obiettivi avevamo con questa iniziativa?
    Siamo partiti dalla costatazione che si ritrova a questo livello la situazione di divisione di classe: sarà un caso, ma questi bambini sono quasi tutti figli di poveri.
    Inoltre molti genitori costatavano che i propri figli che avevano vissuto la loro esperienza di asilo e scuola elementare con bambini subnormali avevano ed hanno una estrema facilità di rapporto con loro. Noi crediamo, e lo abbiamo sostenuto in molte tavole rotonde e dibattiti, estremamente positivo per la nostra comunità entrare in un rapporto normale nei confronti del «diverso», senza considerarlo un «mostro»... Se non altro ci sembrava che, tutto sommato, fosse anche una linea profondamente cristiana l'abituare alla comprensione, ad accettare uno anche se capisce «un po' meno» o, come si dice di questi bambini, se ha «la mente chiusa».
    La seconda fase dell'esperimento prevedeva l'inserimento dei bambini che erano giudicati a livello psicologico capaci di vivere questa esperienza, nella scuola elementare ordinaria. Qui sono nate le difficoltà, perché alcuni direttori, con un preciso disegno di ordine economico, stanno buttando fuori questi bambini. La comunità cioè li rigetta.
    Noi naturalmente andiamo a trattare a livello di singole famiglie, di singoli insegnanti. E dove l'insegnante ha accettato la situazione, dove ha trovato l'aiuto nelle équipes di medici, psicologici, assistenti sociali, allora si è sentita sostenuta e le cose ora vanno bene. Dove invece l'insegnante è stata travolta dal sentimento di angoscia relativamente a problemi profondi o a problemi formali, oppure dove il direttore è stato travolto da intrallazzi economici ben precisi, il risultato è una crisi di rigetto che si traduce in esposti in quartiere con sinistre minacce di denunce, e in tante richieste di spiegazioni che abbiano il crisma della scientificità...
    Questa è l'esperienza più drammatica che stiamo vivendo, molto compatti e decisi. E anche se verremo travolti, perché abbiamo proprio contro le strutture di qualsiasi colore e tendenza, cercheremo di vendere cara la nostra pelle nel clima di assunzione delle responsabilità che ci derivano dal fatto di avere una testa per pensare e uno spazio per agire.

    Gli asili-nido

    All'inizio mancavano. Oggi ce ne sono due, e sono fonte di molti guai.
    Stiamo cercando di portare fino in fondo la gestione sociale del nido, cioè una partecipazione di tutta la comunità ai problemi del nido, alla vita organizzativa, alle scelte pedagogiche. Siamo arrivati così ad una iniziativa estremamente felice.
    C'erano 20 posti di nido da coprire e le domande erano 150, senza calcolare quanti già avevano rinunciato a presentare la richiesta conoscendo la limitatezza dei posti e la necessità di molti.
    Gran parte di queste domande avevano come retroterra storie tristi e fosche: la madre in manicomio, il padre alcoolizzato, dissesti vari... Come trovare un criterio per le ammissioni che soddisfacesse tutta la comunità?
    Abbiamo agito così: attraverso il nostro centro di servizi sociali si è compilata una scheda per ogni domanda effettuata, cercando di descrivere oggettivamente la situazione e tralasciando i dati che avrebbero potuto indirizzare alla identificazione del caso. Si sono poi numerate queste schede rese anonime.
    Si sono quindi organizzate 6 assemblee popolari a cui partecipavano tutti i cittadini che l'avessero desiderato e quanti avevano presentato la richiesta di posto al nido. Nel corso di questi raduni l'assemblea stessa decideva i casi che dovevano andare all'asilo-nido.
    È stato un procedimento laborioso e faticoso. Però crediamo davvero di aver trovato una strada giusta per una maggior coscientizzazione della popolazione nelle scelte che la riguardano: ci sono stati dei casi di persone presenti in sala e che avevano effettuato la richiesta, che alla lettura di situazioni riconosciute come peggiori delle personali, si alzavano in piedi e ritiravano la propria domanda, rinunciando al posto per casi più urgenti.
    E non si sono verificati casi di strumentalizzazione emotiva del metodo di scelta adottato o di pressioni non corrette.
    Ci sono state per la verità delle difficoltà, dei «bastoni tra le ruote». Da che parte ci sono venute? Da alcune forze politiche, come i comunisti, i socialisti, i quali avevano un loro preciso gioco di potere. Ci hanno rimproverato che questo «assemblearismo non è controllabile, che non si può più con questo sistema pensare davvero a casi «necessari»..., che si stava esagerando!
    Evidentemente si sono sentiti scavalcati «a sinistra e non con le parole, ma con i fatti.

    PERCHÉ IL NOSTRO GRUPPO
    HA SCELTO L'AZIONE DI QUARTIERE

    Perché dall'analisi individuale o comune sul tipo di società in cui viviamo discende la conseguenza di una scelta di impegno nella dimensione del quartiere e non in altri settori specifici come ad esempio il Terzo Mondo?

    Necessità di una risposta politica

    Perché siamo convinti che, questa realtà che valutiamo negativa, per cambiare necessita di una risposta a carattere globale, quindi di una risposta politica che trova nel quartiere, in relazione alle nostre forze e possibilità, il momento ottimale di realizzazione. Noi cioè, nel nostro quartiere, abbiamo la possibilità di fare un'azione politica in senso proprio, in quanto siamo partecipi contemporaneamente di tutta una serie di problemi che si intersecano e che danno la possibilità di intervento molteplice e quindi più positivo.
    Questo non vuol dire trascurare o non tenere i contatti con altri giovani che, condividendo magari la nostra stessa analisi, operano in altri settori più definiti. Anzi di fatto cerchiamo un collegamento tale che possa poi prodursi di nuovo in una dimensione politica e quindi arricchire la nostra stessa attività nel quartiere.

    Possibilità di una nuova politica

    C'è ancora un'altra motivazione importante nella nostra azione di quartiere. In genere tutti i livelli istituzionali sono così configurati che il discorso politico prima ancora di essere enunciato, di essere formulato, è già predeterminato, è già fatto: se vado in parlamento so già che cosa diranno i democristiani, che cosa affermeranno i comunisti...
    Nell'azione di quartiere invece c'è una specie di rimescolamento delle carte che passa anche attraverso le amicizie personali, i rapporti con le persone, per cui molte volte la posizione del democristiano diventa veramente intercambiabile con quella del comunista. Il che, se in una prospettiva lunga può essere pericoloso perché può portare ad un appiattimento delle posizioni politiche, si rivela invece estremamente valido sulle singole questioni.
    In questa azione ci sembra quindi che sia ancora possibile fare «politica» in una maniera liberante, fuori dagli schemi tradizionali, a servizio effettivo delle persone, e in un ruolo di contestazione delle strutture che hanno come unico fine la propria salvaguardia.
    Evidentemente possono sorgere molti dubbi sulla nostra scelta di fare un'azione politica nuova utilizzando i canoni tradizionali del partito e delle istituzioni e strutture in atto in questa società.
    C'è veramente il pericolo in questa maniera di finire imbrigliati dalle maglie del sistema. Oppure può nascere il dubbio di aver imboccato la strada del riformismo e del compromesso che a lungo termine lascia le situazioni al punto di partenza.
    Non ci si illude forse di credere «nuovo» e «liberante» il tentativo di fare un'azione politica all'interno del quartiere?
    Sono interrogativi che ci tengono in costante allarme. Quelli che ci provengono dall'esterno non fanno che da eco alle urgenze di chiarificazione che sorgono all'interno del gruppo.

    UN GRUPPO GIOVANILE
    CHE SI FA PROPOSTA DI SERVIZIO AL QUARTIERE 

    Alla periferia di Pisa, staccato dalla città, c'è un quartiere nato da pochi anni: il Cep. Lo sguardo riposato di un turista lo collocherebbe senz'altro tra le bellezze del paesaggio. Di fatto si presenta come un insieme di edifici, verde, viabilità, spazio, organicamente studiati e distribuiti, quasi un quartiere modello rispetto alla miseria a fior di pelle di tanti quartieri di altre città italiane.
    Ma al di là delle prime impressioni questa cartolina illustrata inquadra una realtà umana molto più problematica e complessa che, proprio perché insospettata, ci appare assai grave nel disegno che l'ha progettata e nelle conseguenze che comporta.
    Alcuni anni fa Pisa era puntinata da gruppi di persone con un notevole bagaglio di problemi da risolvere, tra cui il principale era quello della casa. Si trattava di persone per lo più disoccupate, emarginate socialmente, una fascia di sottoproletariato che costituiva un imbarazzante punto interrogativo vivente per la città.
    E la città ha pensato bene di rispondere a questo interrogativo. Si è rimboccata le maniche, ed ha vagliato alcune alternative. Ha creduto sacro il diritto di queste persone di possedere una abitazione, il vivere da persone civili nel secolo ventesimo. Occorreva una zona salubre, e qui un complesso in cui queste persone potessero trovarsi a loro completo agio. Una zona di periferia, in modo che almeno loro potessero far tesoro delle esperienze negative della vita cittadina, col suo caos, rumore, ecc. Oggigiorno, poi, quello della distanza non è più un problema: le strade e i servizi pubblici effettuano il collegamento. Così sono sorti questi palazzoni dell'INA-casa in cui è affluito lo strato sociale più basso della popolazione della città.
    Ecco le caratteristiche di questo quartiere:
    • La densità di popolazione è assai elevata. Compongono il quartiere circa 800 famiglie con una media di cinque componenti per nucleo familiare. In totale quindi la popolazione supera le 4.000 unità.
    •È una popolazione contrassegnata dalla disoccupazione oppure da occupazioni saltuarie che non assicurano né reddito fisso, né alcuna tranquillità per l'avvenire.
    • Il quartiere risente di una situazione di ghetto, di isolamento dalla città e del fatto che la sua popolazione appartenga solamente allo strato sociale più basso.
    • In generale il quartiere respira il clima di insicurezza che caratterizza le famiglie e le persone. Questa atmosfera ha per conseguenza la disintegrazione delle famiglie che presentano situazioni di notevole disagio e vari conflitti, a danno immediato dell'educazione dei bambini.

    UNA RISPOSTA AD ALCUNE ESIGENZE DEL QUARTIERE 

    La realtà sociale, scoperta e analizzata, ha posto alcuni interrogativi ad un gruppo di giovani. Perché non fare qualcosa per cercare di modificarla? Perché non passare da un'analisi sociale ad un'azione sul sociale?
    Ci siamo confrontati, abbiamo riflettuto e ci è parso di non potere lavarci le mani di fronte a questa situazione. Abbiamo quindi deciso di intervenire come gruppo, lasciando da parte le eventuali diverse ideologie politiche a cui ciascuno di noi poteva attingere il proprio impegno.
    Di fronte alle carenze del quartiere ci è parso che il nostro campo di azione dovesse rivolgersi in un servizio alla popolazione nell'ambito della cultura. Noi infatti crediamo che la cultura sia essenziale per la promozione della persona: per questo ci siamo posti lo scopo di sensibilizzare quanti potevamo avvicinare con la costante attenzione di non strumentalizzare le persone per determinati fini di un gruppo o di una tendenza.
    Ecco quanto cerchiamo di fare in questo campo:

    ♦ Scuola serale: corso di recupero per ottenere la licenza media per quanti oltre i 15 anni di età non l'hanno ancora conseguita. La maggioranza di quelli che frequentano la scuola serale sono persone di 30/40 anni che hanno necessità di conseguire il diploma della scuola media per esigenze di lavoro e anche per un certo desiderio di avere un'istruzione di base.

    Attività di cineforum: organizziamo alcuni cicli di cineforum su temi che riteniamo importanti come momento di sensibilizzazione delle persone, a livello morale, sociale e politico.

    Attività ricreativa: organizziamo feste, serate di divertimento, serate danzanti, gite a cui invitiamo tutta la popolazione.
    Sono occasioni di svago che offriamo agli abitanti del quartiere proprio perché si ritrovino tutti quanti su un campo che è comune a tutti e nel quale ognuno partecipa in maniera spontanea e naturale. È un modo per favorire il contatto tra le persone, la conoscenza, l'instaurarsi di rapporti che possono poi continuare in altri campi.

    II servizio biblioteca: abbiamo allestito una biblioteca con lo scopo di diffondere la lettura nel quartiere. Ogni anno vengono presi a prestito circa 120 volumi. Non è poco se si considera il basso livello culturale delle persone del quartiere.

    Servizio sociale: a causa delle carenze di organizzazioni specifiche nel quartiere, abbiamo pensato di mettere in azione un centro che funzioni da servizio sociale della zona, interessandosi di trovare un posto per i disoccupati, sbrigando pratiche alle famiglie impossibilitate, fornendo spiegazioni e consigli a quanti ne hanno necessità.

    Organizzazione sportiva: per i giovani c'è tutta una rete organizzativa di una serie di sport (calcio, pallavolo, pattinaggio) che ha lo scopo di dar la possibilità ai giovani del quartiere di praticare lo sport.

    LE DIFFICOLTÀ DELLA NOSTRA AZIONE

    Abbiamo incontrato molte difficoltà in questo nostro cammino.
    A mano a mano che il gruppo le affrontava, si arricchiva di esperienza e ne rimaneva modificato, andando verso quella omogeneità necessaria per poter operare e che poggia su alcuni valori ritenuti come essenziali e condivisi, pur senza pretendere l'uniformità delle idee e delle posizioni.

    I «missionari»?

    La prima difficoltà che noi avvertiamo è dovuta al fatto che solo un membro del nostro gruppo appartiene a questo quartiere: tutti gli altri fanno parte di zone viciniori.
    Manca così un diretto coinvolgimento nei problemi, e un contatto immediato che deriva dal vivere insieme alla popolazione.

    Una proposta dall'alto?

    La seconda difficoltà è rappresentata da una critica che ci vien fatta dalla popolazione. Ci viene rimproverato di fare un discorso dall'alto della «cattedra», di essere un gruppo di élite che ha la possibilità di condurre avanti alcune riflessioni e che vuol riversare certe idee sugli altri.
    Ciò che respingono è praticamente «l'insegnamento»: queste persone non desiderano che ci sia un gruppo di persone che insegni.
    Il contenuto non viene considerato. L sufficiente il giudizio negativo sul fatto che un gruppo di élite cerchi di trasmettere alcuni valori per considerare negativamente tutta l'esperienza e quindi rifiutarla.

    Il raccordo con una istituzione

    Ovviamente tutta questa attività e queste iniziative non possiamo gestirle da soli. Ci appoggiamo ad una struttura che permette e ci dà lo spazio perché noi possiamo condurre avanti questo servizio.
    È la parrocchia e l'oratorio che sono sorti insieme a questo quartiere e che dispongono attualmente di un'attrezzatura notevole se si considera le opere che li affiancano: sale-riunioni, cinema-teatro, campi da gioco.
    II fatto che noi ci appoggiamo a questa struttura è la terza difficoltà che ostacola l'accoglimento delle nostre iniziative da parte della popolazione.
    Ci tacciano di essere strumentalizzati dai preti, di essere condizionati in questa proposta che noi facciamo.

    L'anticlericalismo

    Questo discorso sulle difficoltà merita un accenno esplicito a quelle che incontriamo verso coloro a cui direttamente vorremmo indirizzare questo nostro servizio: i giovani del quartiere.
    Tutte le prevenzioni che la popolazione ha verso la struttura a cui il nostro gruppo si appoggia sono sentite dai giovani in modo esasperato.
    Anzitutto c'è da parte loro un radicale anticlericalismo che costituisce la barriera più grossa, l'ostacolo insormontabile che preclude qualsiasi possibilità di dialogo.
    I giovani del quartiere (quelli «lontani») pensano che tutte le strutture come queste, siano alienanti e che non ci si possa appoggiare ad esse senza rimanere condizionati.
    Inoltre ci attribuiscono senza mezze misure la volontà di riversare su di loro la nostra cultura da tavolino e da gruppo di élite.
    Ma c'è di più: ciò che per noi è la ragione del nostro stare insieme (il ritrovarsi su determinati valori e scopi, nonostante la diversità delle ideologie politiche) è per i giovani del quartiere un'impossibilità di dialogo. Per loro c'è solamente l'aut-aut, l'unilateralità di idee, la «facciata» in comune...
    Sono tutti motivi che impediscono in maniera preconcetta un qualsiasi tentativo di incontro, di rapporto.
    Nonostante questa situazione sfavorevole noi cerchiamo continuamente di gettare i ponti per un contatto. II problema più arduo è il trovare il modo per avvicinarli, il battere la strada dei loro interessi per trovare un punto di incontro. Di qui pertanto la continua attenzione del nostro gruppo alle loro esigenze per trovare quell'aggancio che permetta loro di situarli su di un piano paritario e permetta a noi di espletare quel fine per cui ci siamo costituiti come gruppo e che vuole il perseguimento dell'integrazione di due «blocchi» di giovani.

    IL NOSTRO GRUPPO E IL COMITATO DI QUARTIERE 

    Quanto operiamo all'interno di questo quartiere nasce da una linea che il nostro gruppo intende seguire, libero da ogni condizionamento di partito, da ogni struttura politica.
    Noi non vogliamo fare una politica partitica, prestarci ad essere strumentalizzati da una linea politica in modo da far insabbiare ancora una volta i nostri ideali e le urgenze della popolazione.
    Per questo non accettiamo di entrare a far parte del comitato di quartiere esistente. È un comitato troppo settario, fantasma, inconcludente. Abbiamo dovuto scegliere tra l'entrare in questa struttura e la nostra azione a livello sociale. Qui in zona la sensibilità al quartiere era particolarmente sentita, all'inizio, da alcune persone interessate soprattutto al problema della casa.
    Quando poi il comune costituì i comitati di quartiere, queste persone si diedero da fare per formarne uno nella zona, e con questo scopo cercarono di aumentare la sensibilizzazione e indissero alcune assemblee di cittadini per giungere alla elezione di rappresentanti del quartiere.
    Di fatto però la popolazione è sempre stata estranea alle iniziative e all'opera di questo comitato di quartiere. Molti non ne conoscono neppure l'esistenza. In concreto il comitato di quartiere a livello di popolazione è inesistente.
    Fa capolino solo quando deve rappresentare questo quartiere a livello cittadino: la sua effettiva funzione è quindi quella di rappresentanza ufficiale. Con noi non ha mai collaborato. Non c'è cordialità di rapporti.
    Contribuisce a questa freddezza anche il fatto che il nostro gruppo si appoggia ad una struttura (la parrocchia) che il comitato di quartiere rifiuta in modo prevenuto. Il comitato ha avuto la sensazione che tutto quanto questa struttura organizzava e promuoveva avesse il potere di costituire una alternativa alla loro azione, di soppiantare quanto essi facevano, di farlo scomparire.
    Oltre a questa tendenza c'è anche il solito fatto dell'anticlericalismo.
    Da una parte quindi c'è una precisa scelta del nostro gruppo di agire al di fuori del comitato di quartiere dopo aver costatato di che pasta è fatto e quale caos di fatto rappresenta; dall'altra c'è anche una tensione tra due strutture (il comitato e la parrocchia): queste divergenze hanno scavato un fossato tra noi e il comitato di quartiere che si manifesta nella «guerra fredda» e nell'indifferenza.

    Sull'argomento «Giovani e quartiere», Note di Pastorale Giovanile ha in programma, per i prossimi numeri, i seguenti interventi:
    • la rassegna di altre esperienze;
    • uno studio di ordine teologico ed uno più strettamente sociologico sull'impegno «cristiano» nel quartiere;
    • una sintesi conclusiva con scelte e valutazioni, a cura della redazione.

    li dibattito è aperto: sono graditi pareri e segnalazioni di esperienze.


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