Interpellati da Gesù /7
Rossano Sala
(NPG 2013-07-61)
Dal capitolo 14 al 17 il vangelo di Giovanni segna un vero e proprio affondo nell’intimità di Gesù e del suo rapporto con il Padre. In tale dinamismo i suoi discepoli di tutti i tempi sono chiamati ad entrare con la loro stessa vita, in forza della chiamata ad essere figli adottivi ad imitazione del figlio Gesù.
Effettivamente il mistero di Gesù è avvicinabile davvero solo a partire dalla sua unità e differenza con il Padre.
La recente e ampia opera letteraria di papa Benedetto XVI dedicata a Gesù parte proprio da questo assunto: il punto di osservazione privilegiato, la chiave di volta decisiva, il centro prospettico strategico di tutto il testo è la relazione tra Gesù e il Padre. Questa è la scelta di fondo, il punto di avvio che guida l’interpretazione della figura e del messaggio di Gesù e che spiega la struttura dei tre volumi del Gesù di Nazareth:
«Senza il radicamento in Dio la persona di Gesù rimane fuggevole, irreale e inspiegabile» (R. Schnackenburg). Questo è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considera Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità. Senza questa comunione non si può capire niente e partendo da essa Egli si fa presente a noi anche oggi.
Il prologo di Giovanni, che attesta Gesù come Logos del Padre fatto carne, è la guida capace di farci comprendere come Gesù si ponga come «unigenito» prima che «primogenito». La sua singolarità storica affonda sostanzialmente in questa legame profondo e unico: «L’insegnamento di Gesù non proviene da un apprendimento umano, qualunque possa essere. Viene dall’immediato contatto con il Padre, dal dialogo «faccia a faccia», dalla visione di Colui che è «nel seno del Padre».
Risentiamo allora i primi versetti del capitolo quattordicesimo, che contengono alcune domande di indubbio interesse che Gesù rivolge ai suoi:
1 Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. 2 Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: «Vado a prepararvi un posto»? 3 Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. 4 E del luogo dove io vado, conoscete la via».
5 Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». 6 Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. 7 Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
8 Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». 9 Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: «Mostraci il Padre»? 10 Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. 11 Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
12 In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre. 13 E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. 14 Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò.
L’intreccio dei verbi è eccezionalmente ricco in tutta la narrazione: si chiede a Gesù di mostrare, e Gesù rinvia ad un vedere la sua corporeità, i suoi gesti, le sue intenzioni, la sua esistenza; Gesù domanda la qualità della conoscenza di Lui, perché solo vedendo Lui si vede realmente il Padre; finalmente il mostrare è legato al credere, a sua volta legato alle opere che si possono vedere. Qui c’è una teoria della fede molto più ampia, articolata e completa rispetto a quella semplicistica di cui disponiamo nel nostro sentire medio, che si riferisce, nella sua forma più rozza secondo questo canone: a quel che si vede non si crede e a quel che non si vede si può credere, contrapponendo di principio il vedere e il credere.
Propriamente sono tre le domande che qui ci vengono personalmente rivolte: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?». E poi ancora: «Come puoi tu dire: ‘Mostraci il Padre’? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?».
Gesù, attraverso le sue domande, lamenta innanzi tutto la superficialità della nostra conoscenza di Gesù: come Filippo forse lo frequentiamo da anni, partecipiamo alla liturgia della Chiesa, meditiamo la sacra scrittura, ma Gesù ci assicura che pur essendo con noi da tanto tempo ancora non lo conosciamo intimamente. Per conoscere Gesù è necessario essere intelligenti, non mettere da parte la ragione: il latino qui ci aiuta perché «intelligenza» deriva da intus legere, leggere dentro, vedere le cose nella loro prospettiva profonda, piena, radicale. Chi sa vedere solo in superficie non è quindi per nulla intelligente. Gesù chiede a noi di essere penetranti, di saper affondare il nostro sguardo su ciò che Egli ci vuole mostrare attraverso la sua parola e la sua opera.
Per questo affonda la lama della sua parola: si meraviglia della domanda, che in realtà forse lo rattrista: ciò che sfugge a Filippo, apostolo buono ma ingenuo, è il legame evidente che intercorre tra Gesù e il Padre. Proprio questo legame unico e introvabile in ogni altra esperienza religiosa fa di Gesù il Figlio di Dio. E ancora affonda, rivelando l’unità perfetta nella differenza perfetta tra il Padre e il Figlio.
Attraverso le sue opere si può vedere e credere tutto questo, dice Gesù. Le opere di Gesù – che «ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!» (Mc 7,37) – sono in grado di mostrare questo legame con il Padre amorevole che è nei cieli. Possiamo quindi affermare che siamo in presenza per Gesù di un’evidenza accessibile a tutti coloro che hanno gli occhi capaci di vedere e gli orecchi capaci di udire. Tale evidenza non è quindi da intendersi come evidenza scientifica, ma essa può verificarsi solo in presenza di una retta disposizione del cuore ed è quindi offerta e affidata alla libertà del discepolo. È un’evidenza che non avviene in forma dispotica, ma sempre nella logica della fede, che è sempre un mettersi nelle mani di colui che ci offre la sua testimonianza. Afferma giustamente un autore che credere viene da cor-do, cioè «dare il proprio cuore»:
Il termine latino per credere deriva etimologicamente cor do = «Ti do il mio cuore». Credere in senso teologico implica quindi un atto di tutta la persona (cuore sta per la parte più intima di me, la mia persona) che si consegna e liberamente si affida a Dio.
Conoscere Gesù, amarlo e credere in Lui fanno quindi un tutt’uno indivisibile: non è possibile conoscerlo senza amarlo, né si può credere in lui senza conoscerlo, e nemmeno si può amarlo senza credere.