Attesi dal suo amore
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    «Starci», avendo Cristo nel cuore



    Il disagio interpella la pastorale /3

    L’esperienza del Borgo Ragazzi Don Bosco

    Alessandro Iannini

    (NPG 2010-09-66)

    «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola,
    hanno accolto degli angeli senza saperlo»

    (Eb 13,2)

    Riflettendo sull’esperienza di lavoro con ragazzi a rischio, con le famiglie in difficoltà e chiedendomi se e come tale lavoro interpella la pastorale giovanile e a sua volta se la pastorale giovanile in qualche modo incrocia tale lavoro… non posso non partire da questo riferimento alla lettera agli Ebrei dove viene ricordato quanto successo ad Abramo e a sua moglie Sara quando si sono trovati di fronte a tre estranei che chiedevano di essere accolti e che si sono rivelati essere proprio Dio in persona che stava facendo loro visita.
    A noi capita ogni volta che arriva al Centro un nuovo ragazzo.
    Accoglierlo, il «rito» dell’accoglienza, la celebrazione dell’incontro nel quotidiano può divenire un segno attraverso il quale Dio ci parla e attraverso il quale iniziare un cammino che può portare a Dio. Quel ragazzo non è qui per caso oggi, porta con sé il mistero della vita e del mondo intero, è un universo, ci interpella con la sua stessa vita. Il suo problema rimane in secondo piano rispetto alla consapevolezza della ricchezza che abbiamo di fronte: una vita che chiede di essere accolta, una vita che ci viene affidata.
    Tutto questo suscita nell’operatore attento non paura, ma un senso di responsabilità che stimola il bisogno di prepararsi bene all’incontro, di crescere nella capacità di ascolto, di comprensione, di orientamento, di opportunità, intervento.
    Una accoglienza che diviene il periodo della scoperta reciproca (della durata di qualche settimana con incontri calendarizzati) per poi arrivare alla decisione – firma del patto educativo – di camminare insieme. Una prospettiva che stimola la ricerca di soluzioni originali e personalizzate per ciascuno piuttosto che piatti unici da servire in modo automatico a tutti.
    Questa consapevolezza non è automatica, richiede un lavoro personale e comunitario costante. Ogni mattina prima di cominciare la giornata ci raduniamo ascoltando la Parola, cercando di incarnarla nel nostro quotidiano e pregando per noi e per i ragazzi; quindi ci diamo i compiti per la giornata attenti a ricordare piccoli e grandi momenti di famiglia da celebrare insieme: compleanni, onomastici, lauree, ragazzi e operatori da ricontattare...

    La base educativa

    Alla base del lavoro dell’area educativa denominata «rimettere le ali» del Borgo Ragazzi Don Bosco di Roma che comprende una casa famiglia per minori, un centro di accoglienza diurno polifunzionale, un movimento di famiglie affidatarie, un centro di ascolto per ragazzi e famiglie, e altre proposte educative dedicate, ci sono alcune caratteristiche di base che prendono spunto da una precisa identità cristiana e salesiana.
    – Cura comunità educativa e formazione costante e permanente degli operatori: creazione e cura di un ambiente in cui ciascuno si possa sentire a casa e protagonista: i ragazzi, gli operatori, le famiglie.
    Attraverso un lavoro di formazione degli operatori e un lavoro di équipe attento alle persone si valorizzano le potenzialità di ciascuno. Si attivano la­boratori formativi con esperienze di confronto con altre realtà, formazione permanente, e con progetti educativi condivisi e pensati in équipe, e la corresponsabilità di ciascuno. Nel concreto: proponiamo incontri sistematici nei quali ci sia spazio per la formazione, la condivisione delle esperienze, lo scambio di informazioni, la convivialità, la preghiera. Tutti gli operatori partecipano agli incontri dell’assemblea della comunità educativa nella quale la formazione diviene laboratorio, apprendendo dall’esperienza dell’altro e scoprendo la reciprocità del dono e la condivisione delle difficoltà del cammino.
    – Varietà dell’offerta di servizi e proposte educative e flessibilità di ciascuna attività per essere sempre capaci di recepire i problemi e «inventare» risposte («un cuore che vede») in una realtà in continua evoluzione e non offrire a tutti e anno dopo anno lo stesso progetto per avere solo un tipo di offerta.
    – Accoglienza e progetti educativi personalizzati: non interventi di massa e su grandi numeri, ma attenzione educativa ai percorsi dei singoli ragazzi rispettando i ritmi di crescita di ciascuno (progetti educativi personalizzati per ciascun ragazzo): pedagogia del sarto (prendere le misure per ciascun ragazzo ed evitare la pedagogia della «taglia unica» o delle misure standard S-M-L) e pedagogia del contadino (semina e cura del seme nella consapevolezza che il raccolto sarà condizionato da tanti fattori ma non stancarsi mai di ri-seminare il terreno anche quando una grandinata ha distrutto il raccolto). Curiamo progetti educativi integrati e attenti alle diverse dimensioni della personalità dei minori.
    – La scelta di «dare di più a chi ha avuto di meno»: nell’accoglienza dei ragazzi e nella progettualità educativa mettiamo al centro i bisogni dei ragazzi più poveri e in difficoltà, quelli per cui non esistono alternative, quelli che ci interpellano maggiormente e che ci obbligano ad un esercizio costante di umiltà e di amore disinteressato. Diamo la precedenza ai ragazzi che non sono inviati ufficialmente da nessuno che si fa carico di loro se non la Provvidenza stessa.. per i quali nessuno ringrazia e controlla.
    – Collaborazione costante con i servizi invianti e con le famiglie: crediamo essenziale lavorare insieme per un progetto educativo integrale di crescita dei ragazzi. Lavoriamo con servizi sociali dell’USSM, servizi municipali, servizi materno-infantile, scuole medie e superiori, centri territoriali permanenti, centri di for­ma­zione profes­sionale, co­ope­rative e associazioni, par­roc­chie, case famiglia, campi nomadi, datori di lavoro e soprattutto cerchiamo, per quanto possibile, di coinvolgere le famiglie. Favoriamo un’ottica di riconciliazione («ecologia degli affetti»): sottolineiamo il positivo che c’è in ciascun attore sociale, affinché ciascuno faccia la propria parte senza deleghe e senza appropriazione dei ragazzi (questo è il mio/nostro caso).
    – Il coinvolgimento del volontariato: come scelta di gratuità e come formazione di persone che attraverso l’esperienza del servizio a chi in è in difficoltà maturano come esseri umani una sensibilità particolare che porteranno nelle proprie famiglie e ambienti di lavoro. Curiamo la professionalità ma anche la crescita umana e spirituale delle persone.
    – Cura della formazione personale: mediante la relazione di ciascun educatore con se stesso e la cura della professionalità: educhiamo con quello che diciamo (poco) con quello che facciamo (di più), ma soprattutto con quello che siamo. C’è sempre un costante riferimento al mondo interiore dell’educatore, attitudini, interessi, valori, motivazioni, aspettative, esperienze pregresse, formazione, vita affettiva e spirituale.
    Intendiamo essere persone in ricerca, in cammino: chi non è alla ricerca di senso, chi non è in cammino, tende a chiudersi in se stesso, nel proprio piccolo mondo; difficilmente si sente interpellato in prima persona, e se agisce per l’altro spesso lo fa solo per soddisfare un bisogno, tende a instaurare relazioni manipolative, strumentali..
    – Essere generatori di speranza: crediamo nella possibilità propria di ogni essere umano di evolversi. Si può fallire un progetto di recupero ma non siamo mai inutili se agiamo con amore. L’atto stesso di accogliere diventa una strategia della speranza perché chi crede nell’altro e gli dà fiducia scorge, anzi anticipa a se stesso, qualità nascoste dell’altro che chiedono di essere realizzate… Ogni atto di amore non può che essere un dono, ma ogni dono sollecita una risposta. Senza dubbio questa profonda motivazione di base dà speranza ai destinatari del nostro lavoro ed è uno degli elementi curativi fondamentali.
    – Fiducia nella Provvidenza: non mettiamo limiti a Dio e il Dio delle sorprese ci sorprenderà...

    L’azione in concreto

    In sintesi l’invio avviene da parte dei servizi della giustizia minorile, dei servizi territoriali, delle scuole o, più semplicemente attraverso il tam-tam tra i ragazzi stessi. Nel caso del centro diurno viene fissato un primo incontro di accoglienza con il ragazzo e la famiglia o gli adulti di riferimento condotto con cura dai responsabili del Centro. Viene avviata l’iscrizione al centro e inizia la delicata fase di accoglienza e orientamento che culmina con la firma del patto formativo: un momento formale nel quale vengono definiti impegni reciproci del ragazzo e del centro con orari, obiettivi e tappe del percorso formativo prescelto.
    A questo punto il ragazzo viene affidato ad una delle équipe del Centro. Gli viene spiegato che non deve portare niente: quaderni, penne, libri, tutto gli viene fornito dal Centro e sarà lasciato al termine di ogni giornata formativa nel cassetto personale del ragazzo. Gli viene chiesto di portare qualcosa che spesso lasciava a casa precedentemente: «la propria testa» sottolineando l’importanza della presenza non tanto fisica quanto della persona... Viene chiesto di avvisare in caso di assenza o ritardo e di mantenere un rapporto corretto con le cose e con le persone.
    Durante il percorso – ogni giorno il ragazzo studierà per due ore secondo un orario personale – ci saranno due o tre verifiche per valutare il percorso svolto e alla fine gli esami presso la scuola statale. Ogni giorno i ragazzi possono fermarsi al centro a giocare, troveranno operatori-educatori che staranno con loro e una merenda da consumare insieme.
    Il tipo di intervento che noi approntiamo per ciascun ragazzo è sempre un intervento educativo sulla persona e non tanto sul comportamento. Un intervento che parte dall’accoglienza del ragazzo che ha bisogno di sentirsi riconosciuto così come è, di sentire che non è giudicato per quello che ha fatto ma per quanto realizza di positivo e per quello che potrebbe fare o diventare se riesce a cogliere l’opportunità che gli viene offerta. Il cambiamento non è mai immediato. Il vero e proprio processo di cambiamento inizia quando il ragazzo in modo libero e perciò responsabile chiede o accetta di iniziare o proseguire un percorso educativo. A volte è necessario aspettare anni. Alcuni semi lasciati cadere con fiducia e pazienza dagli educatori germogliano nel tempo, quando il ragazzo acquisisce crescendo gli strumenti per comprendere la proposta che gli era stata fatta. Gli obiettivi dell’intervento quindi cambiano a seconda della fase che ciascun ragazzo sta attraversando. Accogliamo anche ragazzi durante le misure cautelari, un periodo in cui è importante soprattutto farlo sentire accolto e valorizzato per poi accompagnarlo verso una presa di coscienza del reato commesso e del senso che può assumere. Diverso è chiaramente l’intervento durante una messa alla prova o quando non ci sono provvedimenti penali ma il ragazzo chiede e sceglie da solo di venire. Una situazione che presuppone una più chiara consapevolezza di voler cambiare e una partecipazione attiva anche alla messa a punto del progetto. Qui si dà per scontata la volontà di cambiare anche se si tratta sempre di un percorso mai lineare e di una volontà comunque fragile e contrastata da altre allettanti proposte che continuano a venire dalla strada.

    Questi nostri ragazzi…

    Qualche tempo fa ero al telefono con V. che ha ormai 28 anni e con il quale siamo rimasti in contatto. Ricordo ancora la fatica per portarlo agli esami di licenza media quando aveva 19 anni, la sua paura e la sua gioia dopo gli esami. Una rivincita nella sua ex scuola, quella dalla quale era stato sospeso tante volte fino all’espulsione. Ora è agli arresti domiciliari insieme ad altri componenti della sua famiglia. Mentre mi aggiornava sulla sua situazione trasmettendomi tutta la sua rabbia e la sua impotenza di fronte ad una realtà troppo problematica per riuscire a pensare di uscirne fuori a breve, ha aggiunto: «guarda che me lo ricordo quello che mi dicevate al Centro, la salute e la libertà prima de tutto… c’avevate proprio ragione, io so stato sempre male e mò sto pure chiuso a casa…».
    I nostri ragazzi amano la libertà, esprimono il loro essere libero attraverso le trasgressioni, le corse pazze in motorino. Purtroppo nessuno gli ha insegnato a saper gestire, coltivare, conservare la propria libertà attraverso un equilibrato senso di responsabilità.
    Non rifiutano la responsabilità a priori. Quando ne capiscono il senso ci tengono ad essere di parola, a dire di voler mantenere un impegno preso che hanno scelto: «quest’anno mi voglio impegnare a venire a studiare, so che sarà difficile ma ce la farò». Sono fragili nella volontà: «mò vengo.. sto arrivando… mi sono svegliato tardi, mi fate entrare lo stesso?... domani giuro che arrivo puntuale…».
    Spesso non hanno acquisito il concetto di responsabilità, sono cresciuti con adulti inaffidabili, irresponsabili, fragili, sempre pronti a dare la colpa ad altri delle proprie disgrazie.
    Tuttavia quasi sempre non sono incapaci di intendere e di volere come a volte vogliono far credere agli adulti. Sanno quello che fanno e cosa vogliono ottenere: il nostro lavoro è quello di aiutarli a capire, o meglio a sperimentare che il loro bisogno legittimo può trovare altre strade per essere soddisfatto oltre a quella ben delineata della devianza. Vogliamo aiutarli a scoprire che il loro percorso di vita non è determinato come a volte credono. Che possono ancora a scegliere anche se hanno la sensazione che i reati commessi li hanno segnati per sempre. Nel loro ambiente di vita sono riconosciuti e apprezzati per il coraggio avuto nel compiere quella rapina o quel furto o perché sono protetti da personaggi influenti. Prima nessuno si era accorto di loro e del loro bisogno di essere qualcuno…
    Spezzare questo circolo vizioso non è certo facile, ma crediamo che diviene possibile nella misura in cui i ragazzi sperimentano un interesse personalizzato e gratuito proprio per loro.
    Spesso non arriviamo a parlare direttamente di Dio, ma loro sanno chi siamo e non di rado cominciano loro per primi ad aprire i loro cuori… «io lo so che è Dio che mi ha portato qua... me stavo a rovinà…»; «se Dio vole se può sempre cambia…», «io prima bestemmiavo sempre ma non perché so ateo… ma non mi interessava Dio… mò non dico che entro in chiesa, ma ci credo perché qui mi avete trattato in modo diverso…»; «ho capito quello che me stai a dì, che sto dentro un tunnel e che prima o poi se cammino ne esco fuori… ma quanto è difficile… spero solo che Dio me dà la forza di non fermamme…».
    I ragazzi di strada spesso sono più aperti e diretti nel rapporto con gli uomini come con Dio.
    Non li troviamo quasi mai chiusi a proposito della fede, casomai hanno fatto un’esperienza di esclusione dalla parrocchia così come dalla scuola… È difficile portarli in chiesa, ma all’incontro con Dio capita che ci portino loro piuttosto che il contrario…
    Sento – parafrasando d. Andrea Santoro mentre parla della sua esperienza missionaria in Turchia – che non stiamo con i ragazzi tanto per convertirli quanto per convertirci cambiando i nostri cuori e i nostri pensieri «affidandoci ad una presenza semplice, umile e chiara: a uno ‘starci’ anzitutto, avendo Cristo nel cuore.
    Poi se lui vuole attirerà a sé qualcuno: chi vuole, come vuole e quando vuole».


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