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    Il rapporto Chiesa-mondo


    GS: un metodo pastorale

    Luis A. Gallo

    (NPG 2002-04-87)



    Nel Vaticano II la Chiesa dichiarò apertamente la sua volontà di essere «serva dell’umanità», come ebbe a dire Paolo VI il giorno prima di chiudere solennemente le sessioni conciliari. Essa si propose di «contribuire a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia» (n. 40). Il mondo, quindi, in tutta la sua viva e complessa realtà, con le sue gioie e le sue speranze, con le sue tristezze e le sue angosce, stette al centro delle sue preoccupazioni, tanto da dare a qualcuno l’impressione di essersi lasciata prendere la mano e di aver perso la propria identità religiosa. Di tutt’altro parere era lo stesso Paolo VI che, proprio in quell’occasione, invalidava tale accusa appellandosi alla «religione della carità», la quale, come si evince dai vangeli, è sempre decentrata, poiché pone al centro l’altro, la persona amata.

    Una lunga storia

    Occorre riconoscere che non sempre la comunità ecclesiale visse un rapporto di questo genere con il mondo. Diversi fattori influirono perché esso fosse attuato in un modo notevolmente differente.
    Già negli scritti giovannei il termine «mondo» ha due accezioni diverse, e viene usato or con l’una or con l’altra, il che può aver dato origine ad una certa ambiguità di atteggiamenti tra i cristiani di quei primi momenti della fede. In un brano di riconosciuta importanza, il Vangelo di Giovanni afferma che il mondo è oggetto dell’amore di Dio, il quale ha perfino dato il suo Figlio affinché possa essere salvato (Gv 3,16-17); in altri passi afferma invece che il mondo è un nemico che odia il Figlio e i suoi discepoli (Gv 15,18-19; 17,18; cf 1 Gv 3,13), e che perciò deve essere vinto da lui e da essi (Gv 16,33; cf 1 Gv 5,4-5). Nella Prima lettera di Giovanni si giunge ad affermare che «tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo» (1 Gv 2,16). S. Paolo da parte sua raccomanda ai cristiani di Roma: «Non conformatevi alla mentalità di questo mondo» (Rm 12,2), e la ragione che adduce è che «noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo» (1 Cor 2,12), e che «la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio» (1 Cor 3,19).
    Usciti poi dal loro humus iniziale del giudaismo e inseritisi nel vasto mondo dell’impero romano, i cristiani assunsero più di una volta degli atteggiamenti fortemente critici nei suoi riguardi. L’entusiasmo con cui avevano aderito alla proposta del Vangelo li portava ad essere molto sensibili a quanto si opponeva ad essa, e nel mondo romano vi trovavano non pochi elementi apertamente contrastanti con i suoi ideali: la molteplicità delle divinità, l’assolutizzazione del potere politico, la dissolutezza dei costumi, la prepotenza degli eserciti... Le loro critiche provocarono le reazioni ostili di coloro che a tale mondo riconoscevano legittimità e valore, e diedero origine all’accusa di «odiatori del genere umano» (misantropi) nei loro riguardi. Un’accusa che stette anche alla radice delle persecuzioni, più o meno violente, scatenate nei primi tre secoli di vita della Chiesa.
    Quando posteriormente, con il decreto di Costantino (313), la Chiesa lasciò la sua clandestinità e diventò un’istituzione di ordine pubblico, dando inizio a quello che è stato chiamato il «regime di cristianità», il suo rapporto con il mondo dipese dal modo in cui questo veniva interpretato.
    Se per «mondo» s’intendeva ciò che era al di fuori della chiesa, ossia ciò che non era cristiano, si tendeva a concepire il rapporto con esso in termini antitetici di grazia e peccato. E, quindi, mentre la Chiesa veniva pensata come il regno di Dio, e pertanto come il luogo esclusivo della santità e della verità, l’arca di Noè nella quale ci si poteva salvare, il mondo era invece pensato come il regno del diavolo, con tutto ciò che da esso proviene (peccato, perdizione, tenebre, menzogna). L’atteggiamento che si assunse generalmente nei suoi confronti fu quello della fuga o della rinuncia, per non restare intaccati da esso, o quello della lotta, per sconfiggerlo e sostituirsi ad esso. Era il modo di far avvenire il regno di Dio sulla terra, sconfiggendo il regno delle tenebre.
    Se invece per «mondo» s’intendeva semplicemente l’insieme delle realtà cosiddette temporali, quelle cioè che hanno la loro ragion d’essere nella creazione (la vita familiare e sociale, la politica, la scienza, l’economia, l’arte ...), la linea prevalente fu quella di considerare il rapporto con esso in termini di naturale e soprannaturale. Si pensava, infatti, che mentre la Chiesa era la società organizzata in ordine al fine «ultimo» dell’uomo, e cioè il suo fine eterno, definitivo, e di conseguenza principale, il mondo era invece ordinato al suo fine «prossimo», alla sua promozione puramente temporale, e quindi secondaria. La Chiesa, pertanto, doveva fare in modo che le realtà temporali si trasformassero in mezzi per il raggiungimento del fine spirituale ed eterno dell’uomo, e non si ponessero come ostacoli ad esso. Più di una volta, durante la sua storia, tale rapporto fu di fatto vissuto in termini di dominio teocratico o clericale da parte della Chiesa, come mostrano i casi in cui essa, tramite i suoi capi, gestì in prima persona il potere politico (Gregorio VII, Innocenzo III, Bonifacio VIII ...) o la scienza (caso Galileo), deprivandoli della loro autonomia propria.
    Nel sec. XIV Marsilio da Padova (1275 ca.-1343 ca.), con la sua celebre opera Defensor pacis (1324 ca.), aprì un varco verso un nuovo modo di rapporto tra la Chiesa e il mondo, inteso come insieme di realtà temporali, e particolarmente come società politica. In detta opera, infatti, egli intaccò le pretese del papato di ergersi a sovrano dei governanti, individuando in tale pretesa l’origine delle innumerevoli discordie che turbavano la pace, e quindi compromettevano il benessere dello stato. Opponendosi alla dottrina del diritto divino, egli teorizzò invece una completa separazione tra Stato e Chiesa, concependoli come organismi reciprocamente autonomi nelle rispettive sfere di competenza.
    Nei secoli successivi, dietro alla politica anche le altre realtà temporali andarono rendendosi autonome dalla tutela della Chiesa, non senza strappi dolorosi dalle due parti. Grandi credenti provarono, infatti, il cruccio di essere da una parte uomini della Chiesa, e dall’altra uomini del mondo, senza riuscire alle volte ad armonizzare ambedue le appartenenza. Il caso già citato di Galileo ne è un esempio lampante.
    Nei due secoli che precedettero il Vaticano II, e particolarmente nell’ultimo, come effetto anche del fenomeno culturale della modernità, che si prefisse quale obiettivo primordiale l’emancipazione totale dell’uomo da tutto ciò che lo teneva in condizione di «minorità», la rottura tra Chiesa e mondo fu un fatto consumato. L’atteggiamento di quest’ultimo fu in genere quello di un accentuato rifiuto dell’autorità ecclesiale, e in risposta l’atteggiamento della Chiesa ufficiale fu quello di una condanna totale del mondo e dei suoi «progressi». Ne è un esempio emblematico il «Sillabo», pubblicato in appendice all’enciclica Quanta cura di Pio IX (8 dicembre 1864). Le sue ottanta proposizioni di condanna respingevano tra l’altro gli errori riguardanti la Chiesa e i suoi rapporti con lo Stato (negando ogni subordinazione della prima al secondo) e l’indipendenza dello Stato dalla legge morale: si rifiutava così il principio fondamentale del liberalismo, la separazione della Chiesa dallo Stato.

    Un limite della Lumen gentium

    Il Vaticano II, sensibile agli orientamenti di Giovanni XXIII, segnò una svolta profonda in questa lunga storia. Non fu tuttavia una svolta immediata; ci volle del tempo perché arrivasse a maturazione.
    Infatti, se si esamina con attenzione la Costituzione Lumen Gentium, che si era proposta di delineare l’essere della Chiesa, si deve riconoscere che la presenza del mondo vi resta notevolmente disattesa. La Chiesa, infatti, appare come concentrata soprattutto e principalmente su questioni d’indole intraecclesiale.
    Va certamente riconosciuto che, quando il rapporto tra Chiesa e mondo viene preso in considerazione, cosa che succede principalmente nel capitolo IV dedicato ai laici, ciò avviene in un modo indubbiamente diverso da quello descritto poco sopra. Il mondo, infatti, viene ivi riconosciuto nella sua consistenza e autonomia proprie (LG 36), il che offre la possibilità di superare certe impostazioni, dualistiche da una parte e sacralizzanti dall’altra, del passato. C’è tuttavia un’altra cosa da rilevare: questo mondo consistente e autonomo a cui si riferisce la Costituzione resta come esterno e sovrapposto ad una Chiesa già sostanzialmente definita in se stessa. La Chiesa della Lumen Gentium non dimostra quindi di avere bisogno del mondo per autodefinirsi; è già costitutivamente definita prima di rivolgersi ad esso, soprattutto mediante l’azione dei cristiani-laici, a portare la propria testimonianza.
    In definitiva, la sua missione al mondo non è costitutiva del suo essere; è, caso mai, un’aggiunta etica. Importante certamente, ma sempre accidentale ed estrinseca.

    La nuova impostazione

    Il rapporto tra la Chiesa e il mondo, nella Lumen Gentium notevolmente eluso per via della sua eccessiva concentrazione intraecclesiale, occupò invece un posto centrale e decisivo nella Gaudium et Spes. In essa, infatti, la Chiesa non venne pensata come una realtà esistente al di fuori del mondo (sia sopra, sia accanto, sia contro di esso), ma viceversa nel mondo e per esso: nel mondo, nel senso che i suoi membri, essendo esseri umani (GS 40b), sono coinvolti con tutti gli altri uomini del mondo negli avvenimenti, nelle attese e nelle aspirazioni del proprio tempo (GS 1.11a); per esso, nel senso che la Chiesa non vede più se stessa in prospettiva centripeta nei confronti del mondo, quasi come attirandolo a sé, ma viceversa in prospettiva centrifuga, mettendosi cioè a suo servizio. Si può dire che fu questa la più profonda «svolta copernicana» operata dal Concilio nel suo processo di trasformazione conciliare.
    Conseguenza logica di tale svolta fu l’accentuato orientamento transecclesiale del modello di Chiesa proposto nella Costituzione: i grandi problemi del mondo, quelli in cui è prevalentemente in gioco la vita e la crescita in umanità degli esseri umani, singolarmente e collettivamente presi, e che di conseguenza attraversano anche la comunità ecclesiale per il fatto di essere costituita da uomini e donne di questo mondo, passano in primo piano nell’attenzione e nella preoccupazione della Chiesa e dei suoi membri; i problemi intraecclesiali invece, pur senza venire ignorati o trascurati, restano in un secondo piano e sono ripensati e ridimensionati alla luce di ciò che ora costituisce la loro preoccupazione principale.
    In questo contesto acquista ovviamente molta importanza l’esplicito riconoscimento dell’autonomia delle realtà mondane, già presente nella Lumen Gentium, ma enunciato con particolare enfasi dalla Gaudium et Spes (n. 36b), perché esso determina una modalità decisiva del servizio ecclesiale: il rispetto sincero verso tale autonomia, e il riconoscimento del valore di fini e non di meri mezzi che tali realtà hanno.


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