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    «Se non mi parli sono come uno che scende nella fossa»

    Carmine Di Sante

    (NPG 2002-05-2)



    «Se tu non mi parli sono come uno che scende nella fossa» (Sal 28,1): così il poeta si rivolge a Dio in un momento di prova e di buio interiore. Per lui Dio è il parlante, colui che gli rivolge la parola, nella cui assenza egli sente che la sua esistenza è come quella di chi scende nella fossa, cioè di un morto. Questo, per il salmista, più che dalla disintegrazione del corpo, che torna in polvere, è caratterizzato dall’assenza di una parola che per lui più non risuona e più non lo appella. Per il salmista – e per la bibbia – la ragione per la quale il silenzio è da privilegiare ed è necessario predisporsi all’ascolto è perché, al di là del silenzio e al di là dell’ascolto, risuona una parola che, di Dio, è la definizione stessa. Un Dio che crea con la sua parola, si rivela come parola e, in Gesù, si incarna come parola.

    I profeti, che di Dio sono i portavoce, sono stati coloro che, più di ogni altro, hanno sperimentato e affermato la realtà divina come parola. Soprattutto Geremia il quale, parlando della sua esperienza di chiamato da Dio contro voglia, per ben diciotto volte si autopresenta dicendo: «E fu la parola di Dio a me». Espressione che, nella sua celebre versione in tedesco, Lutero traduce: «La parola di Dio venne a me»; la bibbia liturgica della Conferenza episcopale italiana in: «Mi fu rivolta la parola del Signore»; mentre «La bibbia in lingua corrente» in: «Il Signore mi disse»; e «La sacra bibbia» della Garzanti (1964): «La parola di Jahvé mi fu rivolta in questi termini».
    Il termine ebraico è dabar che ha vari significati: da «discorso» e «affermazione» a «oggetto», «cosa», «richiesta», «evento», «faccenda» o «storia». Scrive P. Lapide: «L’espressione introduttiva del messaggio profetico può essere quindi resa correttamente – o meglio più correttamente – nei seguenti modi: ‘La cosa di Dio mi si palesò’, oppure ‘La richiesta di Dio mi raggiunse’, oppure ‘Mi resi conto della faccenda di Dio’, tutte espressioni che indicano senza dubbio un’ispirazione o un intervento dall’alto, che rendevano i profeti portatori della missione divina come un’idea, una spinta interiore o un irresistibile impulso; mai come una dettatura parola per parola, bensì sempre come una missione, la cui realizzazione era lasciata all’uomo di Dio» (Bibbia tradotta, bibbia tradita, Edizioni Dehoniane, Bologna 2000, p. 21).
    Se Dio è parola che parla in molteplici forme, come sta ad indicare il termine ebraico dabar che, come si è notato, ha una pluralità di significati, la prima di esse, la più universale, è quella della creazione o natura. Tra i chassidim, il movimento spirituale ebraico sorto nel Settecento tra la Polonia e la Russia attuali, circolava una canzone intitolata Tu che suonava: «Dovunque io vada, Tu; dovunque io sosti, Tu; solo Tu, ancora Tu, sempre Tu. Cielo, Tu; terra, Tu. Dovunque mi giro, dovunque miro, Tu, Tu, Tu». Il mondo, nel suo insieme, sia celeste (sole, luna, stelle, astri, ecc.) che terrestre (campagne, montagne, mari e alberi), è il linguaggio di un Dio che ama l’uomo e in cui gli si rivela come Tu sollecito della sua sorte: «È l’amore di Dio che mi scalda nel sole, è l’amore di Dio che manda la pioggia gelida. È l’amore di Dio che mi nutre del pane che mangio, ed è Dio che mi nutre anche con la fame e il digiuno. È l’amore di Dio che manda i giorni d’inverno quando ho freddo e sono ammalato, e l’estate torrida quando sono affaticato e ho gli abiti inzuppati di sudore: ma è Dio che respira su di me con il vento appena percettibile del fiume, con la brezza del bosco. Il suo amore allunga l’ombra del sicomoro sopra la mia testa e manda lungo i campi di grano l’acquaiolo con un secchio riempito alla sorgente, mentre i lavoratori riposano e i muli stanno sotto l’albero. È l’amore di Dio che mi parla negli uccelli e nelle acque dei ruscelli, ma anche oltre il clamore della città Dio mi parla nei suoi giudizi, e questi sono tutti semi mandati a me dalla Sua volontà» (Th. Merton, Semi di contemplazione, Garzanti, Milano 1965, pp. 20-21). Per chi sa ascoltarlo, il mondo è un libro di parole (il primo libro come amavano chiamarlo i medioevalisti) il cui annuncio o kerigma è che Dio ama l’uomo.
    Nel suo bellissimo libro Parole da mangiare, R. A. Alves inizia il suo racconto fissando lo sguardo su un impercettibile e quasi invisibile animale: «Sono intento ad osservare dalla mia seggiola un ragno che ha fatto la ragnatela in un angolo in alto delle pareti del mio studio. Era là ieri e me ne sbarazzai con una scopa. Ragni e ragnatela sono segni di trascuratezza e non volevo che la sua fastidiosa presenza infastidisse i miei visitatori. Ma è ritornato e ha costruito la sua dimora nello stesso punto. Credo che mi abbia perdonato e spera che lo possa capire in futuro… Capisco, e ho deciso di condividere il mio spazio con lui. Quel fascino indubbiamente mi affascina» (Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano BI 1998, p. 11).
    Ma cosa può esserci mai di tanto affascinante in un ragno che quasi tutti schivano con senso di fastidio se non di schifo? Alves è colpito innanzitutto da ciò che vede: «È lì, sicuro e felice, troneggia sul vuoto. Non vi è esitazione nei suoi passi. Le sue gambe si muovono con tranquilla precisione sugli esili fili della ragnatela, come se fossero le dita di un violino che danzano sulle corde. La sua tela: una ‘struttura così fragile’, una trama finissima pressoché trasparente. È tuttavia perfetta, simmetrica, bella, adatta allo scopo» (ivi). Ma soprattutto è colpito da ciò che non vede: «Non vidi la sua prima mossa, la mossa da cui ebbe inizio la ragnatela, il salto nel vuoto… M’immagino quella minuscola, quasi invisibile creatura, appesa al muro da sola. Vede le altre pareti, lontane, e ne misura la distanza: uno spazio vuoto. E vi è un’unica cosa su cui può contare per l’incredibile opera a cui sta per accingersi: un filo, ancora nascosto all’interno del suo corpo. Poi, d’improvviso, un salto nel vuoto e l’universo del ragno ha avuto inizio» (ivi, pp. 11-12).
    Ma per quale ragione lasciarsi affascinare dal ragno per ciò che, in esso, non si vede e per il poco che si riesce appena a intravedere? Perché, per un istante, all’autore del libro questo impercettibile animale apparve come una rivelazione: «Il ragno: una metafora di me stesso; anch’io desidero tessere una tela sul vuoto. Ma il mio mondo non è composto da nulla di materiale. È fatto di una sostanza più eterea di un filo finissimo, così eterea che alcuni l’hanno paragonata al vento: parole. La realtà umana è fatta di parole. ‘In principio era il Verbo’…E come il filo del ragno, anche le parole scaturiscono dai nostri corpi. Le parole sono carne sotto forma diversa. Mi chiedo se Nietzsche non fosse intento ad osservare un ragno quando disse: ‘L’uomo è un abisso su una fune’» (ivi, p. 12).
    Il ragno come rivelazione, quindi, della parola che l’uomo abita e che, nascosta nelle sue profondità, gli fa dono della possibilità di parlare e di costruire le sue parole, il suo racconto, il suo poema. «Vi sono parole che scaturiscono da decine di migliaia di cose, e parole che scaturiscono da altre parole: senza fine… Ma vi è una Parola che scaturisce dal silenzio, la Parola a fondamento dell’universo. Questa Parola non si può comporre. Non è frutto delle nostre mani, né dei nostri pensieri. Dobbiamo attendere in silenzio, finché non si faccia udire: Avvento… Grazia. Ascoltata questa Parola, tutto il corpo risuona e ci si rende conto che è stato il mistero del nostro Essere a parlarci, dal suo oblio. Il poeta francese Mallarmé sognava di scrivere un libro con una sola parola. Pensavo fosse pazzo… Adesso osservando il ragno credo di capirlo: voleva cogliere la prima parola, il principio di tutte le altre. Questa è l’essenza della poesia: il ritorno alla Parola fondante che scaturisce dall’abisso del Silenzio» (ivi, pp.13-14).
    Vivere è lasciarsi sorprendere da questa Parola che proviene dall’abisso del silenzio e che, quale musica, suscita le nostre parole, riflettendosi in esse e vivificandole... Se non si fa eco della parola originaria, la parola umana degenera in vuota chiacchiera. La comunicazione si fa babelica, il dialogo soliloquio e l’uomo – ogni uomo – si consegna alla lacerazione della solitudine e della morte, come vuole il salmista che, per questo, prega: «Se tu non mi parli sono come uno che scende nella fossa» (Sal 28,1).


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