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    La salvezza secondo la «Gaudium et Spes»



    Luis A. Gallo

    (NPG 2002-09-30)


    Il servizio che la Chiesa vuole prestare al mondo, secondo la decisione presa nel momento più alto del Vaticano II e ribadita solennemente da Paolo VI, è un servizio evangelico di salvezza. Dichiara, infatti, nel n.3 del suo Proemio:
    “Il Concilio [...] non potrebbe dare una dimostrazione più eloquente di solidarietà, di rispetto e d’amore verso l’intera famiglia umana, dentro la quale è inserito, che [...] mettendo a disposizione degli uomini le energie di salvezza che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, riceve dal suo Fondatore”.
    Essa, quindi, vuole apportare al mondo quella salvezza che Gesù Cristo le ha affidato come missione fondamentale. Ma ciò pone un problema di non poca importanza, quello di precisare il senso della salvezza. Perché, come tutte le altre componenti della fede, anch’essa è soggetta alla legge della storicizzazione, e perciò va costantemente ricompresa a partire dalla situazione socio-culturale in cui si trova a vivere la fede stessa.

    Il superamento di una concezione profondamente radicata della salvezza

    La teologia, la liturgia, la pastorale, la predicazione e la catechesi si sono mosse per secoli all’insegna di una concezione della salvezza che si espresse, anche a livello popolare, nella frase “salvarsi l’anima”. E “salvarsi l’anima” voleva dire, in definitiva, “andare in cielo”.
    Esplicitando ulteriormente si può aggiungere che “andare in cielo” voleva dire che dopo la morte – concepita come separazione dell’anima dal corpo – l’anima di chi moriva in grazia di Dio, una volta superato il giudizio e dovutamente purificata dal fuoco del Purgatorio se ce n’era bisogno, entrava definitivamente nella “visione beatifica”. In quella condizione poteva godere per sempre di Dio, raggiungendo così il suo fine ultimo. Alla fine dei tempi, dopo il giudizio universale, anche il corpo, risuscitato e ormai trasformato secondo le esigenze della nuova vita, si sarebbe congiunto per sempre con l’anima. L’opposto alla salvezza era la perdizione, pensata come “andare all’inferno”, con la privazione definitiva della visione di Dio, e tutto ciò che tale perdita comportava.
    Un tale modo di concepire la salvezza era il risultato dell’inculturazione della fede nell’orizzonte ellenistico, tipico del mondo in cui la fede gettò radici quasi all’inizio del suo cammino storico. Da tale inculturazione derivavano anche alcune delle principali caratteristiche che accompagnavano il concetto di salvezza.
    Era, anzitutto, una salvezza accentuatamente spirituale. L’enfasi, infatti, veniva posta chiaramente sull’anima. Benché il cristianesimo non abbia mai accettato teoricamente il radicale dualismo tra spirito e materia proprio dell’ellenismo prevalente, nel suo vissuto concreto ne restò tuttavia profondamente segnato. L’espressione popolare sopra riportata, se bene intesa, aveva la sua ragione d’essere: voleva indicare che la salvezza portata al mondo da Gesù Cristo era quella trascendente e definitiva, quella cioè che ha a che vedere con il destino supremo dell’uomo; ma, di fatto molto spesso essa diede adito a interpretazioni spiritualizzanti e addirittura dualistiche, secondo le quali il vero destinatario della salvezza era l’anima dell’uomo, mentre al corpo e a quanto con esso si connetteva essa arrivava solo indirettamente.
    L’ottica poi dalla quale si vedeva la salvezza era anche marcatamente individualistica. Una frase spesso ripetuta era quella che si proponeva anche come scopo dell’azione pastorale: “Salva l’anima tua”. Il vero soggetto della salvezza era ogni singolo individuo, e la salvezza totale e finale era la somma di tutte le salvezze individuali. Naturalmente il cristianesimo non poteva ignorare che il comandamento evangelico fondamentale, insieme a quello dell’amore di Dio, era quello dell’amore del prossimo. Il rapporto con gli altri stette quindi sempre presente anche nella preoccupazione salvifica. Ma, spesso, solo come un occasione per il raggiungimento della salvezza propria.
    Inoltre, la salvezza era pensata come accentuatamente ultraterrena. Nella proposta cristiana, infatti, veniva dato un forte rilievo all’al di là, al dopo-la-morte, al “lassù”, quale luogo della vera salvezza. Nessuno si poteva considerare veramente salvato finché era ancora “nel corpo”, in “questo mondo”, “quaggiù”, “sulla terra”. La stessa espressione “vita eterna” veniva interpretata in tale prospettiva.
    Questa salvezza era ancora marcatamente avulsa dalla storia. La cultura ellenistica era in genere riluttante nei confronti della storia. Una riluttanza dovuta al suo vederla radicalmente collegata con la materia. La vera salvezza aveva luogo, pertanto, fuori del tempo, nell’eternità. Anzi, si potrebbe dire che per i greci salvarsi significava liberarsi dalla storia, dal tempo, dalla mutabilità che comporta la materia. Il cristianesimo non si trovò inizialmente a suo agio all’interno di una tale cultura, poiché il Dio in cui credeva era un Dio che si era manifestato in avvenimenti storici, dei quali l’esodo dall’Egitto e la risurrezione di Cristo erano i principali. Eppure, calandosi nella cultura ellenistica, finì a poco a poco per assimilarne in gran parte le istanze. Non stupisce perciò che abbia finito per pensare la salvezza quasi senza riferimento a quanto avviene nel mondo. Essendo prevalentemente spirituale, individuale e ultraterrena, la si poteva ottenere anche a prescindere da ciò che succedeva nella storia.
    D’altra parte, un certo modo molto diffuso di pensare il rapporto dell’uomo con la natura faceva sentire anche il suo influsso in quest’ambito. Portava l’uomo a sentirsi piuttosto manovrato da forze esterne e superiori che attore di quanto accadeva nella natura o nella società, e a vedere quanto accadeva di positivo come un loro dono e quanto di negativo come un loro castigo. In ambito cristiano ciò ingenerò una tendenza ad accentuare nella salvezza la dimensione del dono. Pur senza negare il bisogno di collaborazione umana, si era soliti, infatti, enfatizzare l’idea che essa era opera di Dio, e che nessun uomo poteva salvare se stesso.
    Infine, ci fu anche l’effetto di un certo atteggiamento religioso largamente diffuso. Ci riferiamo a quella religiosità che era profondamente segnata dalla dicotomia tra il sacro e il profano. Il sacro includeva persone, cose, azioni, spazi e tempi riservati esclusivamente per il rapporto con il divino nell’ambito del culto. Era anche la sfera dove si poteva ottenere la salvezza. Il profano, invece, mancava di tale potenzialità. Il cristianesimo storico subì indubbiamente l’impatto di tale religiosità. Era molto accentuata, infatti, soprattutto a livello popolare, la propensione a pensare che fosse nell’ambito del culto, e specialmente nel culto sacramentale, che si poteva raggiungere e assicurare la propria salvezza.
    Questo modo di pensare la salvezza entrò in crisi quando la sensibilità culturale a cui rispondeva diventò per svariati fattori obsoleta. Allora venne tentata una sua ricomprensione nella nuova sensibilità esistenziale e personalistica che si era andata diffondendo nel mondo e nella stessa Chiesa.

    Una ricomprensione della salvezza in epoca recente

    Abbandonato il dualismo anima-corpo e le sue molteplici implicanze, la salvezza venne allora pensata come la piena e definitiva realizzazione esistenziale della persona in tutte le sue dimensioni e componenti. Realizzazione a sua volta sostanzialmente ottenuta mediante la comunione interpersonale con Dio e con gli altri. Per contrapposizione, la perdizione venne vista come il fallimento esistenziale totale e definitivo della persona, nella completa impossibilità di raggiungere la sua autenticità. Fallimento esistenziale dato a sua volta in definitiva dal non essere in comunione interpersonale con Dio e con gli altri.
    Venne ancora precisato che di tale realizzazione e di tale fallimento esistenziale se ne poteva avere un’attuazione parziale e provvisoria già nel presente, nella misura in cui la persona era in comunione o in non-comunione interpersonale con Dio e con gli altri. Salvarsi, in questo senso, significava passare dalla non-comunione interpersonale con Dio e con gli altri (peccato) alla comunione con essi (grazia), uscire dalla chiusura e dal ripiegamento egoistico su se stessi e aprirsi all’amore dell’Altro e degli altri. Una salvezza vera e reale, anche se ancora imperfetta e provvisoria. Nel cielo, essa avrebbe trovato realizzazione piena e definitiva.
    Non è difficile cogliere la pregnanza e la fecondità di una tale maniera di pensare la salvezza cristiana. La Costituzione “Lumen gentium” la fece sua, e ciò le permise di autodefinirsi come “sacramento, ossia segno e strumento, dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano” (n.1). Le offrì anche la possibilità di superare l’accentuata spiritualizzazione, il marcato individualismo e la spiccata ultraterrenità con cui era stata pensata in passato.

    Il concetto di salvezza cristiana nella Costituzione pastorale

    La Costituzione “Gaudium et Spes” andò ancora oltre. Senza invalidare i passi fatti precedentemente dal Concilio, ritenne necessario farne ancora un altro. Lo si trova espresso in maniera embrionale al n.3 dove, dopo aver dichiarato la volontà della Chiesa di mettere al servizio del mondo le energie di salvezza avute dal suo Fondatore, afferma:
    “Si tratta di salvare la persona umana, si tratta di edificare l’umana società. È l’uomo dunque, ma l’uomo integrale, nell’unità di corpo e anima, di cuore e coscienza, di intelletto e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione”.
    Viene nitidamente messa in rilievo, in questo enunciato, la dimensione sociale della persona umana. Si stabilisce, infatti, uno stretto nesso tra il “salvare la persona umana” e l’“edificare l’umana società”. Come a dire che la salvezza dell’uomo integrale, di cui parla subito dopo, implica necessariamente la costruzione di una adeguata convivenza sociale che la renda possibile. E, di fatto, ciò verrà esplicitato lungo tutto il testo della Costituzione stessa.
    Sono di grande importanza le implicanze che questa impostazione comporta. Per essa, la salvezza cristiana ha a che fare anzitutto con l’integralità dell’essere umano, e quindi con tutte le sue dimensioni e componenti. E dato che questo essere umano è un essere per natura storico, la salvezza non può non tenerne conto. Non è già questione di salvarsi dalla storia, come pensavano gli ellenisti e in parte, dietro a loro, i cristiani che accolsero la loro visione delle cose. È invece questione di salvarsi nella storia, e perfino di salvare la storia. Salvarsi nella storia perché è in essa che l’uomo vive e si sviluppa fino alla sua piena maturazione. E salvare la storia perché, essendo essa il cammino che l’umanità va facendo nel tempo, in forza delle sue libere decisioni, può di fatto andare verso ciò che favorisce la sua maturazione o verso ciò che la ostacola o perfino la danneggia. La si salverà solo nella misura in cui la si incamminerà verso ciò che è bene per l’umanità stessa. O, come dice la stessa Costituzione al n.11, se realizzerà “il disegno di Dio” su di essa.
    Per questo stesso motivo, la salvezza ha a che fare anche con l’impegno attivo e responsabile dell’uomo, singolo e collettivo. Essa è certamente dono di Dio, fonte ultima di ogni bene, come ha affermato da sempre la fede, ma è anche una conquista dell’umanità stessa. Si potrebbe dire che essa è “il dono di una conquista”. La dimensione di cooperazione con Dio nell’opera della salvezza, da sempre presente nella confessione di fede cristiana ma alquanto attenuata in passato, acquista ora una rilevanza del tutto particolare.
    Infine, la salvezza così concepita supera l’impostazione sacrale e prevalentemente cultuale-sacramentale che ha avuto in altri tempi, e ha a che fare con l’intera esistenza umana, in tutte le sue manifestazioni, anche in quelle che vengono considerate più “profane”. Esse si convertono in spazio salvifico, perché in tutte senza eccezioni è in gioco il processo di maturazione integrale dei singoli e della collettività.


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