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    Conoscere il bene e il male


    Guido Benzi

    (NPG 2004-05-43)


    Prosegue la riflessione sui primi capitoli di Genesi, condotta dal biblista Guido Benzi.
    Dopo aver esplorato nel precedente numero di NPG come la coppia uomo-donna fosse al centro della creazione sia nel primo racconto (Gen 1,1-2,4a), di carattere più “teologico” e appartenente alla fonte Sacerdotale, sia nel secondo racconto (Gen 2,4b e ss) di carattere più popolare e sapienziale e appartenente alla fonte Jahwista, si affronta qui il tema del peccato originale così come si incontra in Gen 3.

    Il capitolo secondo della Genesi si chiude con una “festa di nozze” tra Adamo ed Eva, con la quale Dio porta a compimento tutta la creazione e soprattutto consegna ai due sposi la missione di realizzare, insieme, l’unità tra di essi e con tutto il creato, icona di Dio stesso, immagine di quell’Amore che dona la vita.
    Come ci fa notare un grande studioso contemporaneo, Paul Beauchamp, è stupefacente come il racconto di Genesi ci faccia conoscere, ancor prima della caduta nel peccato, il compimento del progetto di Dio, che è come dire, nella brevità della narrazione, che quel “culmine” non può essere interamente compromesso, e che esso, quanto più è vicino, tanto più è esposto a difficoltà e cadute, proprio come la barca che giungendo felicemente all’approdo, trova gli ostacoli più insidiosi nella risacca delle onde costiere e negli anfratti degli scogli che appena affiorano dall’acqua.
    Un messaggio, infatti, si impone subito all’attento lettore di Gen 3, cioè a chi non segue il racconto “depositato”, per così dire, nella sua memoria, ma che legge con fedeltà il testo: il bene è generato sempre a prezzo di un cammino, di un lungo travaglio, che supera tentazioni e attraversa deserti, mentre la caduta è istantanea, proprio come un animale acquattato per catturare la preda, come il morso fulmineo di un serpente. E mentre dunque il bene può essere raggiunto, conosciuto, posseduto ed esaltato, proprio come Adamo aveva fatto riconoscendo in Eva la “carne della sua carne”, il male non si può percorrere, esso si manifesta insidioso come cedimento improvviso, caduta di libertà, menzogna che cattura e oscura lo sguardo. Ed è interessante come il lettore di Genesi 3, che non valuti attentamente i passaggi e le modulazioni del testo, sia poi indotto, con Eva, a cadere nello stesso dubbio, nell’idea di essere stati creati a metà e non per amore, e così, come Adamo (il più fragile dei due, perché non ha neppure bisogno che il peccato gli venga “argomentato” dal serpente), mordere il frutto.

    L’astuzia che seduce e la Legge che richiede libertà

    Non c’è amore senza libertà. L’unità di Adamo con Eva non può essere solo frutto dello stupore, essa va custodita come va custodito il dono del giardino di Eden. E qui, terribilmente, l’umanità tradisce il disegno di Dio.

    Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi... (Gen 3,1-7).

    Il legame con quanto precede è evidenziato dal ritorno del tema dell’animalità: in Gen 2,19 Adamo era stato posto da Dio davanti agli animali perché prendesse coscienza della sua identità; qui, dopo la creazione di Eva, l’umanità si trova ancora una volta di fronte ad un animale… parlante! Ora questo fatto, evidentemente inverosimile, va interpretato. Il testo di Genesi 3 ci dà alcuni piccoli particolari che devono guidare la nostra riflessione: innanzitutto questa insistenza sull’astuzia, cioè la doppiezza del serpente. Siccome è da escludere che questa astuzia possa essere rivolta verso Dio, e non è per nulla “astuto” quel tentatore che si mostri alla sua vittima come tale (infatti il serpente incomincia con una negazione talmente plateale – tutti gli alberi – da apparire agli occhi di Eva quasi… ingenuo) siamo chiamati a scoprire dove si annidi l’inganno.
    Il serpente nelle culture antiche era il simbolo della animalità, cioè della dimensione istintuale dell’animo umano. Certamente questo simbolo aveva anche connotazioni sessuali, ma più in generale richiamava la parte irrazionale dell’uomo, quella legata al suo essere creatura fragile, bisognosa dell’aiuto di Dio. Sarebbe dunque una semplificazione leggere la storia del Peccato Originale solo come un peccato di tipo sessuale. Qui si tratta di qualcosa di più profondo e si annida proprio là dove il narratore non ha potuto rinunciare a mettere in scena qualcosa di “strano” ed è appunto la parola infida del serpente, che si oppone ad un’altra parola (data in forma di legge – non devi mangiare –) pronunciata da Dio. Il serpente colpisce proprio là dove c’è il massimo di fragilità, perché una legge per essere tale si deve sempre distanziare sia da chi la pronuncia, sia da chi deve eseguirla: essa non può richiamarsi a nessun aspetto di tipo affettivo, fiduciale o relazionale. Solo così una Legge rivela la sua bontà e anche la sua autorevolezza e mettere in gioco la libertà del soggetto che sceglie di obbedirla. Ciò che il Satana sotto la forma del serpente insinua in Adamo ed Eva è il timore e il sospetto nei confronti di Dio: egli avrebbe negato di mangiare dell’albero perché non vuole che l’uomo abbia la vita. Ma la cosa è evidentemente falsa. Leggiamo attentamente il racconto:

    Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. ... Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (Gen 2,8-17).

    Appare chiaro che l’albero vietato è quello della conoscenza del bene e del male: l’uomo, come creatura non poteva e non può risalire oltre le leggi che governano il fatto che per lui è un bene l’esistenza, ed è un bene la sua libertà. Cosa dice invece Eva, confusa dal serpente?
    “... del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. L’albero che sta in mezzo al giardino è l’albero della vita: quello non è stato negato all’uomo finché è in Eden, Dio non è un Dio di morte ma un Dio di vita! Ecco, il peccato che sta nel profondo dell’uomo, nella sua istintualità: la paura della morte (si noti che il serpente non afferma mai questa parola, anzi la nega!), dunque la paura dell’inganno da parte di Dio, la paura che la creazione, la vita, l’amore sia tutto un ignobile scherzo, o, come diceva Cesare Pavese, un “vizio assurdo”! Eva e Adamo seguono questa paura e si ritrovano a conoscere il male, riducendo Dio, colui che li aveva chiamati alla vita, ad un essere invidioso della loro libertà e conoscenza. Stolti! Essi già possedevano come promessa tutto il bene, il sommo bene, possedevano l’unità tra di loro, l’armonia con il creato, la confidenza totale con Dio. Ora invece hanno conosciuto il male, cioè la divisione, la morte, la lontananza da Dio stesso.

    Il peccato: senza Dio non c’è unità

    La coppia non si fida più di Dio, e perde quella dimensione di segno efficace, che la costituiva al vertice della creazione. Tutto diventa fatica e sudore, delusione, morte, lontananza. Adamo ed Eva sono lì insieme sotto l’albero eppure Eva dialoga col serpente e sembra da sola. Adamo poi dialogherà con Dio e sembrerà solo. Tra loro non c’è più unità, ma solo uno sguardo carico di vergogna, perché da soli si scoprono nudi. E la distanza che c’è tra loro due segna anche la distanza che c’è con Dio: essi infatti si nascondono a lui, e anche la distanza con tutto il creato. Scrive Nazzareno Marconi: “lo sguardo del peccato non coglie più l’unità ma le diversità, prima fra tutte quella sessuale. Adamo ed Eva si scoprono diversi e da questo nasce il sospetto, la tentazione di sopraffazione, la percezione di debolezza... L’unità è tragicamente infranta e a Dio non resta che constatarlo, in quella che non è la punizione del peccato ma l’amara evidenza degli effetti di una creazione infranta”.
    Genesi 1 e 2 avevano come parole d’ordine “armonia” e “unità”. Genesi 3 introduce il concetto di “divisione”. Non domina più la coppia feconda, ma l’uomo-maschio che include nel suo dominio anche la donna, mentre essa che partorisce con dolore è lasciata sola nella sua responsabilità di portare il frutto della fecondità. La Bibbia dunque non interpreta la diversità dei ruoli presenti nella società antica come un bene: essi sono prima di tutto frutto della paura e del peccato. L’uomo si appropria così con sudore e fatica del compito della costruzione della storia (diventata storia di divisioni, violenze, uccisioni, lotta contro gli altri uomini e l’ambiente).
    E la caratteristica di questo peccato è quello di essere una radice che si innesta nel cuore di ogni “figlio di Adamo”: infatti a Caino stesso in Gen 4,7 Dio rivela che – se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala –. Anche qui il peccato è rivelato come un animale pronto a ridurre in brandelli la libertà dell’uomo per saziarsene.

    Ma Dio non abbandona l’uomo e la donna

    Ci sono però due particolari nel racconto che sottolineano come l’amore di Dio permane malgrado il disastro operato da Adamo ed Eva e dalla loro paura.
    Adamo dove sei?
    Essi hanno appena peccato e Dio già li cerca. Quel movimento di salvezza che porterà il Creatore a donare se stesso per la vita degli uomini in Cristo Gesù è già cominciato. Dio cerca l’uomo, sempre, anche nella divisione più profonda, lo cerca per ridonargli quella unità che lo pone al vertice di tutte le creature.
    Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì...
    Non li lascia nella loro nudità, egli dà loro una nuova dignità perché possano ricostruire con la sua grazia un cammino di amore.
    Pare di vedere già quel Padre della parabola che corre incontro al figlio che lo aveva lasciato e lo riveste non solo degli abiti, ma della sua dignità e del suo amore di Padre.
    L’unità da dono si fa missione, possibilità di testimonianza per tutto il creato che l’amore di Dio è un amore che crea continuamente anche malgrado la fatica e il peccato della creatura. E così i segni della divisione, cioè lavorare con fatica e partorire nel dolore, diventano segni di una più grande benedizione, che farà di Adamo ed Eva i progenitori di tutta l’umanità.
    Adamo si unì a sua moglie Eva, la quale concepì e partorì Caino e disse: – Ho acquistato un uomo dal Signore –. Poi partorì ancora suo fratello Abele (Gen 4,1-2).

     

    Ri-narrare Genesi tra di noi

    Don Enrico spinse la porta a vetri con una certa delicatezza. Si trovò oltre quella soglia in una sala di aspetto piena di gente seduta sulle poltroncine color verdino pastello o appoggiata ai muri bianchi sui quali erano allineati dei quadri con la cornice in acciaio, meticolosamente distanziati l’uno dall’altro, contraddistinti dal cartellino di ottone che portava il nome del pittore che li aveva donati e l’anno. Provò subito a decifrare i soggetti, ma gli sembravano banali e scialbi: bambini perplessi di fronte al ritrattista; linee gonfie e curve raccolte nell’abbraccio di una maternità astratta (ho sbagliato reparto? Forse questo è Pediatria? Ma non c’erano Pluto e i Simpson colorati sul muro?); un gatto intento a mordicchiare una palla…
    No, il reparto era giusto. A caratteri adesivi neri, in alto, nella grande porta laccata spiccavano le parole ONCOLOGIA, addolcite da una scritta più piccola (ma sempre rigorosamente nera e con una lettera centrale che era scivolata chissà dove) Prevenz..one; il tutto era pure umoristico perché letto senza la -i- sembrava il nome di uno sciroppo o quasi.
    Con un movimento automatico sciolse la bella sciarpa grigio perla che portava al collo sopra il giubbotto e fu giocoforza che dovette incontrare subito gli sguardi di qualcuno. Il colletto bianco della camicia da prete aveva come al solito fatto capolino da sotto il bavero e sempre, sempre, doveva constatare che quei quattro centimetri quadrati di bianco attiravano lo sguardo più che se si fosse messo una parrucca gialla, oppure un piercing al naso. Del resto ancora non ci si era del tutto abituato, a tre mesi dall’ordinazione. E poi OK, un prete di 24 anni (oltretutto ne mostrava un po’ di meno) oggi è merce rara! All’inizio in oratorio, al paese, oppure quando tornava al suo quartiere in città, gli piaceva sotto sotto guardare quell’effetto che produceva il suo colletto sulle persone; ma si sa, lì giocava in casa, in fondo tutti sapevano che era il prete-giovane. Ma poi, quando la sua azione pastorale, o le incombenze quotidiane lo avevano spinto in luoghi non altrimenti battuti, quegli sguardi lo mettevano un po’ in imbarazzo. Lì ad esempio non era più Don Enrico Riannetti, ma solo un prete e per giunta giovane di una giovinezza corrispondente all’età dei figli o nipoti di tante persone che erano assiepate in quei venti metri quadrati di attesa.
    C’era un silenzio composto e quieto. Due signore (forse madre e figlia) parlottavano a voce bassa in un angolo. Un tipo vestito da operaio della telecom scartabellava con dei fogli e un altro leggeva messaggini al telefonino. Qualcuno scivolò via lungo la parete e così Don Enrico si accoccolò tra uno spigolo e una poltroncina sulla quale stava seduta una signora distinta, ben truccata, con la pelliccia sulle ginocchia.
    - Patrignani? – La voce squillante dell’infermiera aveva rotto la quiete. Un fruscio di foulard e cappotto presi in disordine, ritmato dal tacco sul linoleum, accompagnò la sparizione dell’una e dell’altra dietro la porta misteriosa. – Scusi signora – accennò Enrico alla sua vicina – lei sa se è qui che consegnano le analisi? Sa è per me la prima volta che vengo…- La signora alzò lo sguardo verso il giovanissimo prete e con buona educazione, disse – Sì, quando l’infermiera viene fuori faccia vedere il foglio dell’impegnativa, di solito le portano subito, ma…(esitò lei un attimo) è già passato di sotto alla cassa, per il ticket?- Sì, certo – disse subito Enrico con foga. La signora lo rassicurò con un mezzo sorriso e poi tuffò di nuovo lo sguardo sulla rivista che teneva aperto sulle ginocchia. Enrico fece scivolare lo sguardo sugli astanti. Nessun volto conosciuto. Un uomo con un bel cappello, che lasciava intravedere la testa rasata (Farà la kemio? pensò Enrico d’un lampo) passeggiava avanti e indietro. Ancora la porta si spalancò e di dietro l’infermiera uscì quasi correndo quella di prima, la Patrignani, infilandosi al volo il cappotto e annodandosi il foulard. – Isa, tutto OK, devo tornare tra sei mesi – disse rivolta alla signora. Si strinsero la mano veloci e la signora Isa le gridò dietro qualcosa, forse un arrivederci. Enrico si precipitò sull’infermiera traendo di tasca i fogli e disse concitato che doveva ritirare le analisi per sua madre. Quella, tenendo la mano sulla maniglia della porta e con gli occhi rivolti sulle carte chiese con voce impersonale – Ha la delega? Mi dà la carta d’identità? – Sì ecco, farfugliò Enrico, e prese dalla tasca interna il documento. – Sa, si scusò, la foto è di qualche anno fa…- poi si sentì un po’ stupido: voleva giustificare la sua faccia ancora adolescente oppure il colletto da prete?. L’infermiera sparì di nuovo dietro la porta e lui si ritirò nel suo angolo.
    – Avevo temuto fosse per lei…– Disse la signora Isa. Enrico ci mise un po’ a realizzare che si rivolgeva proprio a lui. – Sa, continuò quella, lei ha su per giù l’età di mio figlio, quei mali… non guardano in faccia nessuno, nemmeno i preti -. Enrico si sforzò di sembrare il più gentile possibile per non tradire un certo disagio – Ma perché un prete dovrebbe essere risparmiato?–. –Ha ragione Padre – proseguì quella – ma sa, voi, forse avete… come dire… un filo diretto lassù (indico in alto con il dito montato di un bell’anello)-. OK – pensò tra se e se Enrico – qui caro mio ti tocca dire qualcosa – Ma non gli veniva nulla. Fece invece un sorrisetto di circostanza e disse che sua madre era stata operata tre anni fa, tutto era andato bene, ma ogni tanto faceva dei controlli. Adesso era andata in vacanza col padre e così era venuto lui…- Isa lo ascoltò interessata, poi piegò le belle labbra in un sorriso sincero. Esitò. Ma non si trattenne. – Padre, perché tutti questi mali, perché la sofferenza…- Enrico accusò il colpo. Infondo se l’aspettava. E adesso? Coi ragazzetti a scuola era un’altra cosa, oppure negli incontri in parrocchia… magari avrebbe preferito che la tipa gli avesse chiesto la storia della sua vocazione… ma questa domanda?- Sa – continuò quella senza accorgersi della folla di pensieri che attraversavano la testa di Enrico – io sono credente, magari non proprio praticante assidua, però, insomma, ci credo. Sono quattro anni che vengo qua – disse poi rivolta al suo vicino il quale annuiva (pareva si conoscessero) – e per fortuna le cose sono stabili, ma quanti ne ho visti passare. – Quando tocca tocca – disse una signorona dalla parte opposta della sala, avvolta in un enorme scialle viola -. Non è che mi lamento – disse la Isa, proseguendo quasi in un monologo – ma vorrei sapere perché, capire e conoscere; non dice niente Padre? Quell’epiteto detto con rispetto aumentava il suo imbarazzo (ma quanto ci mette l’infermiera? Non ci sarà mica qualche problema nelle analisi della mamma?). – Vede signora (accidenti ho già iniziato male!) io sono un giovane prete (aiuto!) e se presumessi di conoscere il perché del male credo che farei scappare tutti dalla mia parrocchia! Forse posso dirle che per chi ci crede, cioè, insomma per tutti, c’è anche del bene, anzi da Dio ci viene il bene, che fa meno chiasso, è magari più sottile, ma è anche più forte e ci sostiene, ci fa affrontare ogni cosa (che disastro! pensò Enrico). – Lei ne è sicuro? – Chiese la Isa socchiudendo gli occhi e incrociando le mani sulla rivista. – Beh, certo, anche Gesù ha affrontato la Croce, è stato dalla nostra parte, fino in fondo…–.
    La porta si spalancò ed Enrico guardò all’infermiera come il naufrago guarda alla scialuppa di salvataggio. – Signor Riannetti ecco le analisi –. Poi con un sorriso si voltò verso la Isa – Signora ecco le sue, anche questa volta è tutto OK-.
    Enrico aveva già infilato le scale e scartocciando l’esito della madre aveva visto che l’esito era buono. Pigiò il tasto dell’ascensore. Sentì un leggero tocco sulla spalla, era la signora Isa. – Padre grazie le sue parole mi hanno confortata, non capita tutti i giorni di incontrare qualcuno che ti ascolti in questi discorsi –.

     


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