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    Compassione



    “Siate misericordiosi come il Padre vostro” (Lc 6,36)

    Carmine Di Sante

    (NPG 2004-02-3)


    Dio è misericordioso per insegnare a ciascuno di noi ad essere misericordioso: è quanto abbiamo meditato nell’ultimo segnavia e troviamo ribadito nel nuovo dove troviamo incise le parole di Gesù pronunciate alla presenza delle folle che lo seguono entusiaste. Se essere miseri-cordioso è portare nel proprio cuore la miseria dell’altro, portare la miseria dell’altro è com-patirlo: patire con lui che patisce o soffre. Il Dio biblico è il Dio della com-passione che chiama l’uomo a farsi compassione a sua volta. Essere “misericordiosi come il padre celeste” è lasciarsi abitare dalla compassione che, come scrive Simone Weil, è realtà divina, perché solo Dio è capace di accorgersi del dolore altrui.
    Essere abitati dalla compassione significa lasciarsi ammaestrare dalla sofferenza altrui. Nella sua lunghissima lettera indirizzata a “due sorelle” dell’Aia dal campo di Westerbork (il campo di concentramento e di transito dove volontariamente si era lasciata internare per solidarietà con gli ebrei che non avevano la possibilità di fuggire dalla persecuzione nazista) Etty Hillesum, la giovane ebrea morta ad Auschwitz nel 1943, parlando del dolore immenso degli internati e del rischio della loro apatia scrive: “Coloro cui è toccato lo snervante privilegio di rimanere a Westerbork ‘fino a nuovo ordine’ corrono un grave rischio morale: quello di diventare apatici e insensibili. Il dolore umano che abbiamo visto laggiù nel corso di quest’ultimo mezzo anno, e che vi si può vedere ogni giorno, è più di quanto un individuo sia in grado di assorbire in un periodo così limitato. Del resto lo sentiamo dire tutti i giorni e in tutti i toni: ‘Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più possibile’. E questo mi sembra molto pericoloso… Io credo che per ogni evento l’uomo possieda un organo che gli consente di superarlo. Se noi conserveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione – allora non siamo una generazione vitale. Certo non è così semplice... ma se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati ad ogni costo – e non un nuovo senso delle cose attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora non basterà. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portar chiarezza oltre i recinti di filo spinato, e congiungersi con quelle che là fuori ci si deve ora conquistare con altrettanta pena e in circostanze che diventano quasi altrettanto difficili” (Lettere, 1942-1943, Adelphi 1986, p. 45).
    Ciò che E. Hillesum dice dell’esperienza-limite di Auschwitz, come luogo dai cui “pozzi” abissali attingere un “nuovo pensiero” e “un nuovo senso”, vale per ogni sofferenza da trasformare in finestra dalla quale ripensare il senso del proprio essere al mondo. Scrive il filosofo S. Natoli: “Molte volte il dolore, separando, produce un delirio di egocentrismo, quasi che si fosse gli unici a soffrire. Questa cosa non è strana, anzi è legittima, perché è un atteggiamento di difesa, è ‘il muoia Sansone con tutti i Filistei’. Siccome nel dolore c’è la privazione, ci si interroga sul senso del dolore e sul senso del mondo: che senso ha che io soffra? Ma se io soffro, che senso ha il mondo se è un universo di possibilità chiuse per me?” (S. Natoli, Stare al mondo. Escursioni nel mondo presente, Feltrinelli, Milano 2002, p. 93).
    Per Natoli la sofferenza produce una interrogazione dalla quale si apre – dovrebbe aprirsi – una fessura da cui accedere alla percezione della comune sofferenza che avvolge ogni essere umano: “La sofferenza spinge a un’enfasi del proprio dolore, ma nel contegno il dolore è dominato e visto per quello che è: insieme a me, accanto a me tanti altri soffrono, e quindi io che ho la capacità di governare il mio dolore posso mettere questa capacità a servizio del dolore altrui, nella perdita diventare principio di conforto. Ecco la trasformazione della propria sofferenza in servizio” (ivi; corsivo mio). Ma perché questa “trasformazione della propria sofferenza in servizio” accada veramente è necessario, per Natoli, lo spirito di “condivisione”, la consapevolezza della partecipazione alla comune sorte umana dove l’uno è legato all’altro e non può fare a meno dell’altro: “Senza condivisione però questo non è possibile. Gli antichi lo sapevano, l’umanità queste cose le sa da sempre, ma tende a dimenticarle” (ivi).
    E contro il mito dell’io narciso che si illude di essere autosufficiente, di contare solo sulle proprie forze e di superare ogni crisi ricorrendo al self-help, “all’auto-aiuto”, il filosofo osserva: “Noi diciamo il self-help, ma ‘il compagno al dolor che riduce la pena’ è il self-help. È semmai il delirio di onnipotenza, è la presunzione di autosufficienza, è l’enfasi celebrativa della propria stessa sofferenza che ci fa dimenticare queste verità. E ci fa dire: io soffro, quindi ho il diritto di avere tutti al mio servizio. Ma chi l’ha detto? Tanti soffrono accanto a te, intorno a te, e tu non lo sai. Perché devi ergerti a consiglio universale della sofferenza quando non sei altro che un segmento della sofferenza del mondo? La sofferenza è della specie. Leopardi l’aveva capito in quel bellissimo testo in cui dice che nobile natura è quella che grande e forte/mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire/fraterne, ancor più gravi,/d’ogni altro danno, accresce/alle miserie sue, l’uomo incolpando/del suo dolor, ma dà la colpa a quella/che veramente è rea, che de’ mortali/madre è di parto e di voler matrigna’ (La ginestra). Ovvero alla natura” (ivi).
    Per la bibbia la sofferenza dell’altro, più che presa di coscienza della comune sofferenza che avvolge “la specie umana”, al cui interno la propria sofferenza, come vuole Natoli, è semplicemente “un segmento della sofferenza del mondo” è soprattutto un appello rivolto all’io a chinarsi su quella sofferenza per sconfiggerla. Percepire la miseria dell’altro, per la bibbia, è percepirne l’intollerabilità e intervenire per eliminarla, come fa Dio il quale, dopo aver ascoltato il gemito di Israele in Egitto, trasforma la sua compassione recettiva (“ho osservato la miseria del mio popolo, ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti, conosco le sue sofferenze”: Es 3,7) in compassione attiva: “Sono sceso per liberarlo e farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso” (Es 3, 8).
    Nei suoi quaderni, coniugando esperienza personale e riflessione, E. Cioran scrive: “Tranne poche eccezioni, le persone che hanno molto sofferto finiscono col diventare molto arroganti, non umili. Vi gettano in faccia le loro disgrazie, e non hanno tregua finché non soffrite quanto loro. Penso a X. Ne ha passate tante nella sua vita, è stato umiliato, certo. Ma il modo in cui tratta le persone è odioso. E lui non sa di essere crudele. Crede che tutto gli sia dovuto; non ha nessuna pietà… Si sente oltraggiato quando qualcuno non accetta di inchinarsi davanti a lui. Quel che vuole è umiliarvi, nient’altro. Ma non sa di essere disumano, perché neanche immagina che possiate avere anche voi la vostra dignità. È stato perseguitato ed è diventato persecutore. Disgraziatamente continua a pensare di essere stato una vittima. Il che lo rende ancora più spietato” (E. Cioran, Quaderni 1957-1972, Adephi, Milano 2001, pp. 517-18).
    Se chi patisce corre il rischio di trasformarsi in produttore a sua volta di sofferenza e di violenza, il “siate misericordiosi come il Padre vostro” sovverte questa logica e sfida a fare del patire il segreto o principio per non fare più patire: “poiché so cosa vuol dire soffrire, farò in modo che nessun altro soffra”.


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