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    Mediazione


    Riccardo Tonelli

    (NPG 2000-05-51)


    Gesù disse: Io sono la via; io sono la verità e la vita. Solo per mezzo di me si va al Padre. Se mi conoscete, conoscerete anche il Padre, anzi, già lo conoscete e lo avete veduto. Filippo gli chiese: Signore, mostraci il Padre: questo ci basta. Gesù rispose: Filippo, sono stato con voi per tanto tempo e non mi conosci ancora? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: mostraci il Padre? (Gv 14,69).
    Il desiderio di incontrare Dio, in un dialogo diretto e immediato, di «vederlo» a faccia a faccia, l’abbiamo anche noi dentro, come l’aveva Filippo. Eppure, questo desiderio – legittimo ed entusiasmante – non è realizzabile. Non è questo, infatti, il progetto di Dio, come lo conosciamo dalle sue manifestazioni.
    Certo, l’esistenza «salvata» è l’incontro immediato dell’uomo con Dio, prodotto dalla sua grazia. Questa salvezza e l’incontro che la produce, però, di fatto sono mediati: si realizzano in Gesù Cristo e, per lui, nell’umanità dell’uomo e in quel «germe» di umanità nuova costituito dalla Chiesa. Lo ricorda proprio Gesù a Filippo.
    Quello delle «mediazioni» è un problema pastorale di grande rilevanza. Due concrete questioni lo specificano.
    La prima riguarda il significato e la consistenza dell’affermazione. La seconda la sua qualità. È proprio vero che per accedere al mistero di Dio si deve passare attraverso mediazioni? Che conseguenze tutto questo produce nella azione pastorale concreta? Quali mediazioni ci permettono l’accesso al mistero di Dio?
    Suggerisco qualche risposta agli interrogativi, in coerenza con quella logica dell’Incarnazione che rappresenta il riferimento centrale del nostro progetto di pastorale.

    Incontriamo Dio nello spessore fragile delle «mediazioni»

    Il cristiano dice la sua fede attraverso gesti e parole. Essi, come tutte le espressioni della comunicazione umana, sono sempre nell’ordine simbolico. C’è qualcosa che si vede, si percepisce, si può persino registrare sulla carta, in una pellicola, in un supporto magnetico. Esso si porta dentro una realtà, più profonda e più intensa, che resta invisibile.
    Nel caso della fede, quello che non si vede è la decisione di affidare la propria vita all’amore esigente del Dio di Gesù; quello che si costata sono appunto parole e gesti, segnati profondamente dalla cultura del soggetto e del contesto in cui la persona dice la sua fede.
    Questa prospettiva rappresenta un dato comune e condiviso in tutta l’esperienza cristiana. Sappiamo di non poter arrivare a Dio in modo diretto e immediato. Capiterà così solo quando, alla fine dei tempi, lo vedremo «a faccia a faccia»; per ora dobbiamo accontentarci di vederlo «come in uno specchio» (1 Cor 13, 12), attraverso il riflesso della sua presenza. Anche la nostra risposta non è mai diretta e immediata, ma ha bisogno sempre di segni.
    Per dire questo dato di fatto, a me piace parlare di «mediazioni». L’espressione ricorda la funzione: sono strumenti, orientati a realizzare quell’incontro che non può mai essere «immediato», perché riguarda una realtà misteriosa, sottratta alle nostre dirette esperienze, indicibile mediante le nostre parole. Esistono mediazioni per rendere presente il mistero di Dio e il suo amore che salva. E ci sono mediazioni che servono ad esprimere la nostra decisione per lui.
    Gesù di Nazareth è la manifestazione radicale decisiva di Dio per noi. Egli è Dio con noi e per noi. Ma questa presenza e questo incontro passano sempre attraverso la mediazione della sua umanità, rivelante e nello stesso tempo nascondente, come ci insegna la storia degli incontri che punteggiano la sua esistenza terrena. La sua umanità manifesta Dio come mediazione che si fa appello ad una decisione di fede, libera e responsabile. Solo nella fede che interpreta e supera la povertà del visibile, possiamo incontrare veramente Gesù il Cristo.
    Lo stesso vale per la Chiesa e per la sua prassi sacramentale. La comunità ecclesiale dichiara la sua consapevolezza con espressioni molto precise e perentorie: in ordine alla salvezza, essa è un segno – una mediazione, appunto – nel quale l’evento salvifico si comunica come appello ad una decisione esistenziale e invita ad aprirsi alla accettazione della grazia di salvezza in questo segno oggettivamente contenuta.
    Nel corso dei secoli, sono state utilizzate espressioni diverse, per ricordare che l’incontro con Dio si realizza, per ogni uomo, attraverso mediazioni. Al di là delle formule, la constatazione è pacifica ed è sempre stata condivisa nella Chiesa. Al livello pratico e quotidiano, quello tipico dell’azione pastorale, le posizioni invece si dividono. Possiamo pensare che esistano dei segni più veloci e maggiormente accertati per arrivare a Dio o dobbiamo constatare che per tutti la strada è lunga e irta di difficoltà e incertezze?

    La proposta tradizionale

    Nel modello teologico tradizionale, il mondo religioso (quello della preghiera e delle espressioni collegate ad essa) rappresenta la via privilegiata per arrivare a Dio e per rispondere al suo amore. Esso porta direttamente a Dio ed esprime la modalità più alta di incontro e di comunione con lui. L’unica condizione è la fatica di evitare tutte le distrazioni, quegli slanci, più o meno controllati, che potrebbero servire malauguratamente a portare fuori strada...
    Le attività non religiose rappresentano invece un cammino lungo e tortuoso per realizzare il nostro incontro con Dio. Non poche volte fanno persino correre il rischio di dimenticare quello che conta di più. Tutti presi dall’affanno delle cose, non abbiamo più tempo per la preghiera e ci dimentichiamo di Dio.
    L’ideale sarebbe una preghiera continua e non interrotta… L’uomo però deve lavorare per poter mangiare. Non può quindi sottrarsi a questo compito. Le attività non religiose hanno bisogno di essere riequilibrate sul tempo e sul ritmo. Soprattutto diventa urgente ricollocarle nella loro giusta direzione. Vanno perciò messe in opera tutte le astuzie adatte a controllare, a recuperare, a ricollocare il lavoro nel suo significato autentico.
    Di qui una serie di abitudini devote… che tutti noi conosciamo d’esperienza diretta. La preghiera prima e dopo il lavoro rappresenta, per esempio, uno stratagemma prezioso per «santificare» il lavoro: per riportarlo cioè da necessità distraente a valore religioso pieno. Anche il gioco delle «intenzioni» diventa prezioso per riorientare il proprio lavoro: chi fa forza su una «retta intenzione» e la recupera continuamente durante il lavoro stesso, fa passare la sua fatica da un semplice strumento di sopravvivenza ad una espressione di amore fraterno e ad un contributo per la costruzione del regno di Dio.
    Questo modo di vedere le cose introduce una pericolosa divisione nella struttura interiore di ogni persona, trascinata in una dialettica continua tra esigenze opposte che la rompono dentro.
    Una variante che ha fatto presto fortuna, è rappresentata dalla spiritualità benedettina, fatta propria da alcuni grandi santi. Essa, molto legata al concreto e alla fatica quotidiana, ha introdotto il binomio «lavoro e preghiera», cercando di fare le cose in modo tale da trasformare la congiunzione «e» nella forma attiva del verbo essere. Per questo, la congiunzione «e» è stata scritta con un bel accento sonante: «il lavoro – quando è fatto bene, per amore di Dio e dei fratelli – è (diventa) preghiera».

    Mediazioni celebrative e mediazioni prassiche: una proposta alternativa

    Non mi piace considerare alcune mediazioni privilegiate e, di conseguenza, altre distraenti e pericolose. Nemmeno mi sembra corretto confondere una cosa con l’altra, facendo diventare il lavoro preghiera o viceversa.
    Sono convinto della possibilità di suggerire una ipotesi alternativa, capace di spostare l’attenzione dalla cosa in sé alla responsabilità del soggetto.
    L’umanità dell’uomo è il visibile che si porta dentro il mistero che ci salva. Quando parlo di mediazioni, penso perciò a tutto l’umano, a tutta la storia personale e collettiva. Per questo essa è sempre «storia di salvezza», storia dell’accoglienza o del rifiuto del progetto di Dio che la costituisce. Nell’unica storia di salvezza possiamo riconoscere il significato della vita nella sua globalità e delle singole espressioni in cui si distende e si concretizza.
    Non riusciamo a pensare ad una esistenza umana fatta di gesti tutti eguali, tutti programmati, tutti della medesima intensità. Per questo, non tutte le mediazioni sono identiche.
    Sono d’accordo con il tentativo di riassumere le diverse mediazioni che percorrono l’esistenza cristiana, attorno a due raccoglitori fondamentali: lavoro (e cioè le opere della fede) e preghiera (e cioè le parole della fede). Ma propongo… di porli allo stesso livello. Qui sta la mia proposta.
    Attorno alla preghiera possono essere raccolte e organizzate le mediazioni che hanno la funzione di realizzare l’incontro con Dio secondo modalità celebrative: la comunione ecclesiale, i sacramenti, la Parola, quelle mediazioni che celebrano, nel rito liturgico e sacramentale, la potenza rinnovante di Dio.
    Il lavoro evoca attività operosa, «prassi», impegno fattivo e concreto. Con un termine poco usato e forse meno espressivo, parlo di mediazioni prassiche (che accentuano la prassi, a differenza delle altre che accentuano la celebrazione).
    Le mediazioni celebrative esprimono più direttamente la presenza operosa e salvifica di Dio nella storia, perché celebrano questa presenza nel rito liturgico e perché annunciano che Dio è l’assoluto e che la sua presenza non è legata a nessuna azione dell’uomo, come il dono della salvezza nasce dal suo amore gratuito e preveniente.
    Le mediazioni prassiche, invece, esprimono più direttamente la responsabilità dell’uomo in questa unica opera di salvezza, perché celebrano la presenza di Dio nella responsabilità storica dell’uomo. Sono costituite dalle diverse prassi operose e liberatrici dell’uomo per l’uomo. Lavoro e preghiera sono due modalità di incontro con Dio e di risposta alla sua presenza. Sono tutt’e due «mediazioni», perché non realizzano l’incontro e la risposta in modo diretto e immediato, ma solo in modo indiretto e mediato, attraverso la «porta stretta» dell’umano, come mediazioni, appunto.
    La distinzione tra mediazioni celebrative e prassiche non propone due modi di vivere a scelta, quasi ci potessero essere i cristiani che celebrano e non fanno nulla, e quelli che fanno e non celebrano. Mediazioni celebrative e prassiche sono egualmente importanti per l’esistenza cristiana. Anzi, penso all’esistenza cristiana come ad un continuo ideale che raccoglie in unità le singole diverse azioni ed esperienze, i cui poli estremi sono rappresentati appunto dalle celebrazioni e dalla prassi operosa. Tagliando i ponti con uno di questi poli, si rinuncia a qualcosa di costitutivo e di qualificante. E quindi si rinuncia a vivere da cristiani.
    Di fatto però nelle singole azioni e nell’orientamento generale della vita, possiamo privilegiare il polo delle celebrazioni o scegliere di essere più vicini a quello della prassi. Avviene così anche nel ritmo ordinario della vita: a volte siamo più nel momento celebrativo e a volte più in quello prassico. Basta pensare all’avventura dell’amore, l’esperienza umana che dice meglio di altre il mistero del rapporto tra Dio e l’uomo.
    Una scelta ha la stessa dignità dell’altra: esprime la stessa novità di vita, in cui siamo costituiti per dono, nel codice della diversa sensibilità personale. Non si tratta di scegliere celebrazione contro azione, ma di esprimere concretamente l’una dimensione e l’altra, ripensando continuamente quello che viene privilegiato, nel frammento concreto di esistenza, dalla prospettiva di quello che in questo frammento non viene scelto.
    L’educazione alla vita cristiana esige l’impegno di far crescere in questa consapevolezza e l’assicurazione di esperienze concrete.
    Ci vuol poco a constatare quanto questo sia di difficile mentalità… visto che è invalsa l’abitudine di definire i cristiani di prima e di seconda categoria, proprio sul criterio della vicinanza o della lontananza da uno dei due poli.
    La difficoltà è anche di ordine pratico. I giovani sono, di natura spontanea, dediti al fare, con una fantasia che vorrebbe manipolare subito l’esito della fatica e ha bisogno di sperimentare cose nuove continuamente. Riflessione e interiorità esulano, in genere, dal raggio dei loro interessi e del loro stile di esistenza. Hanno quindi bisogno di continua e coraggiosa educazione all’esperienza delle mediazioni celebrative, per scoprire la preghiera e per contemplare nel profondo l’opera potente della mano di Dio.
    Nello stesso tempo, non possiamo accontentarci troppo rapidamente di quella piccola élite di giovani bravi, che ci chiedono tempi di silenzio e di preghiera… se faticano troppo a sporcarsi le mani nella trama complessa della realtà.


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