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    Gabriele



    Figure della fede /2

    Carmine Di Sante

    (NPG 2000-02-32)

    Il racconto neotestamentario, non diversamente da quello anticotestamentario, conosce figure sovrumane chiamate «angeli», che non appartengono né alla sfera divina né a quella umana, ma si muovono liberamente tra l’una e l’altra.
    Il più noto di questi angeli è Gabriele che Luca, il terzo evangelista, introduce all’inizio del suo vangelo nella storia di Zaccaria e di Elisabetta, una coppia di anziani che, in tarda età, diventano i genitori di Giovanni Battista, il precursore di Gesù:
    Mentre Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l’usanza del servizio sacerdotale... gli apparve un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita, poiché egli sarà grande davanti al Signore...». Zaccaria disse all’angelo: «Come posso conoscere questo (=come è possibile che tutto questo avvenga)? Io sono vecchio e mia moglie è avanzata negli anni». L’angelo gli rispose: «Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annuncio» (Lc 1, 8-19).
    Leggendo pagine come queste bisogna evitare due rischi opposti ma speculari: prendere alla lettera il racconto, come se si trattasse di una cronaca (il rischio del «fondamentalismo», che assume il testo come suona nella sua formulazione letterale, rifiutando di sottoporlo all’analisi dell’intelligenza critica), oppure ritenerlo una storia buona per mentalità «arcaiche» sprovviste di conoscenze razionali, ma che non ha nulla da insegnare a società complesse e disincantate come l’attuale, fornita a dismisura di saperi scientifici e tecnologici. Al contrario bisogna collocarsi nella giusta ottica – l’ottica ermeneutica fondata sul «buon senso» e sulle scienze ermeneutiche che la tematizzano – la cui cellula originaria è l’incontro interpersonale dove, di fronte all’altro che agisce ed agendo parla o integra il suo agire con il parlare, l’io non si chiede se quella azione o quella parola è «vera o falsa», ma «cosa vuol dire», e non per giudicarla, ma per comprenderla cogliendone l’intenzionalità o il senso. Per questo G. Ebeling, il teologo tedesco discepolo di Bultmann, ha scritto che «il principale fenomeno gnoseologico non è la comprensione del linguaggio ma la comprensione attraverso il linguaggio, che cioè nell’ambito dell’umano, oggetto della conoscenza non è il linguaggio, parola o testo, ma la realtà di cui il linguaggio è mediazione, contemporaneamente svelamento e rilevamento».
    Questo principio ermeneutico elementare vale anche, e forse soprattutto, per la pagina evangelica dell’angelo Gabriele, alla quale non dobbiamo chiedere se la storia narrata è vera o meno (una domanda come questa è mal posta e, come ogni domanda mal posta, non ha risposta), ma cosa vuole dire. E ciò che la storia vuol dire è che, oltre la superficie dell’esistenza umana, tras-pare e si intra-vede, al di là dell’apparenza e tra le righe, una dimensione più profonda e nuova. L’angelo, con i suoi messaggi e i suoi linguaggi, è la messa in scena di questo «oltre» che tras-pare e si intra-vede al di là della superficie e dell’apparenza dell’esistenza umana e dei giorni e delle notti che la scandiscono. La storia dell’angelo Gabriele mette in luce questo «oltre» dispiegandone il tratto costitutivo e sorprendente.
    Questo «oltre» che riluce al di là dell’apparenza dell’esistenza è la Compagnia di Dio che segue l’uomo dovunque, in «ogni luogo», metafora di ogni situazione di tristezza o di gioia, di speranza o di angoscia, di esilio o di permanenza in patria. Compagnia non occasionale ma permanente, che non abbandona mai, è fedele, rimane sempre accanto anche se ignorata, allontanata, rifiutata o negata. E soprattutto Compagnia discreta che non si impone con la forza né minaccia ma resta in silenzio, si mette da parte e attende con pazienza perché ci si accorga della sua presenza e la si accolga con fiducia. L’angelo – termine che in greco vuol dire messaggero e che, in quanto messaggero, parla non di sé ma dell’altrove da cui proviene – è annuncio di questa Compagnia di cui prendere coscienza e alla cui presenza si svela il senso dell’umano. «Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annuncio» (Lc 1, 19): questa l’autodefinizione dell’angelo Gabriele a Zaccaria, turbato e preso da timore per la sua apparizione.
    L’angelo Gabriele «evangelizza» (il termine usato da Luca è euaggelisasthai, lo stesso riservato per Gesù, il portatore per eccellenza dell’«evangelo», della buona novella) perché annuncia a Zaccaria la Compagnia di Dio che cambia la sua vita in cui ac-cade il miracolo della nascita del Battista, battistrada del messia.
    Dai vangeli la credenza negli angeli si è trasferita alla tradizione cristiana dove ha trovato la sua espressione più toccante in una delle preghiere più belle, conosciute anche dai non credenti: «Angelo di Dio che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me che ti fui affidato dalla pietà celeste. Amen». Stando ad alcuni libri che si pubblicano soprattutto negli Stati Uniti, si assiste oggi ad una «riscoperta» degli angeli e della loro forma protettrice, e ci sono perfino di quelli che sostengono (più che per buona fede forse per ragioni di cassetta, dal momento che, in clima di New Age, l’emozionale e l’irrazionale si affermano con successo) la possibilità di verificarne e fotografarne la luce o aureola che emana dalla loro presenza.
    In realtà il discorso biblico sugli angeli non si presta a interpretazioni come queste e, al di là del razionalismo, che lo ritiene linguaggio immaginifico buono per bambini ma non per persone intelligenti, e al di là del fideismo, che lo ritiene linguaggio rivelato a chi è eletto o privilegiato, la sua lettura ermeneuticamente corretta consiste nell’annunciare la Compagnia di Dio all’uomo. Introducendo la figura e il linguaggio degli angeli, la bibbia non intende sostenere la loro esistenza né, per essa, è rilevante il loro nome e il loro numero (se nomi e numeri ricorrono, essi hanno una funzione solo letteraria). Più semplicemente essa intende affermare, con la mediazione del linguaggio poetico e della finzione letteraria, che Dio è Compagnia dell’uomo che non abbandona mai e che con questa compagnia l’esistenza da sterile si fa feconda, come quella di Zaccaria, e da esperienza di non senso, dove risuona la domanda del «perché vivo» e del «che ci sto a fare», si fa senso, dove si apre all’io la meta e l’orientamento verso cui tendere.
    Interpretata come metafora o simbolo di Dio come Compagnia, l’angelo – l’angelo custode come ama definirlo e invocarlo la tradizione popolare – non è immagine infantile su cui sorridere, ma figura della fede su cui riflettere dove, col linguaggio frutto della potenza dell’immaginario, si trova espressa e riformulata la «definizione» con cui Dio si rivela a Mosè quando gli chiede il nome: «Ecco, io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro? Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono» (Es 3, 13-14). Il senso di questa autodefinizione divina, sulla quale si sono versati fiumi di inchiostro da parte di mistici e di filosofi, non è quella di affermare che Dio è la pienezza dell’Essere dal quale provengono tutti gli altri esseri (un modo di pensare come questo, determinato dalla preoccupazione filosofica di capire il senso delle cose, è estraneo al racconto biblico per il quale Dio non è coglibile in sé ma nel suo rapporto con l’uomo), bensì quella di svelare all’esistenza umana, in cerca di senso, una Presenza che la «tras-figura» convertendola, come quella di Zaccaria, da figura «sterile», condannata alla morte, a «figura di vita», aperta al nuovo.
    Dio, per la bibbia, è Presenza: colui che, come vuole l’etimo del termine, è «di fronte» e «accanto». Non per giudicare, non per condannare, non per sorvegliare, non per rimproverare, non per sedurre o catturare. Semplicemente per camminare con te, fermandosi dove ti fermi, sedendosi quando sei stanco, seguendoti nei burroni in cui precipiti, dandoti la mano se gliela chiedi, ascoltando le tue domande se gliele poni, tacendo se non vuoi essere disturbato e, se lo allontani, accettando di essere allontanato, ma per continuare a seguirti da lontano, senza che tu te ne accorga e non te ne abbia a male, come fa la mamma stando al gioco con il bambino che la rifiuta illudendosi di poterne farne a meno.
    Se Dio è forza (è questo il significato etimologico dell’angelo Gabri-ele), la sua è la forza della Compagnia che non abbandona. Mai.


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