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    La morte di Gesù. L’amore incondizionato



    Carmine Di Sante

    (NPG 1999-03-54)

    Non ci si lascerà sorprendere mai abbastanza dal fatto che, caso unico nella storia delle religioni, la tradizione cristiana pone al centro della sua fede un condannato a morte sulla croce e che, proprio in questo condannato a morte, riconosce e celebra il disvelarsi di Dio all’uomo, il suo farglisi compagno di viaggio definitivamente. Duplice paradosso e scandalo dall’altezza vertiginosa da rasentare l’assurdo, l’inaudito e quasi l’impossibile: l’assunzione del fallimento a principio di vita e paradigma (quale maggiore fallimento che l’essere condannati a morte da un legittimo tribunale con il consenso delle autorità politiche e religiose?) e la sua dimensione rivelativa come «luogo» dove Dio «ac-cade» nella storia irrompendovi come evento per redimerla.
    Il tempo quaresimale, tempo di conversione come decisione e come scelta del Bene attraverso il no al male, è dispiegamento soprattutto del paradosso di questo fallimento in cui per l’uomo si cela e si disvela il potere – la possibilità cioè non illusoria ma reale – di sconfiggere il potere della morte. Al centro del tempo quaresimale si celebra infatti la «settimana santa» e, al centro della settimana santa, il «Triduo Pasquale», i «Tre Grandi Giorni» (Giovedì, Venerdì e Sabato, qualificati dalla tradizione come «santi», che vuol dire distinti e separati da tutti gli altri per la loro eccezionalità simbolica e rituale), in cui vengono proclamati i racconti della passione di Gesù e della risurrezione che ne capovolge la sconfitta in vittoria e la sofferenza in gloria. Il Giovedì Santo e il Venerdì Santo mettono in luce soprattutto il primo aspetto, la «passio Jesu», la sua passione; mentre il Sabato Santo, con la veglia pasquale celebrata nel cuore della notte, dispiega soprattutto la potenza di scardinamento e di rinnovamento che con quella morte si è aperta per la storia umana:

    «Questa è la notte
    in cui hai liberato
    i figli d’Israele, nostri padri,
    dalla schiavitù dell’Egitto
    e li hai fatti passare illesi
    attraverso il Mar Rosso.
    Questa è la notte
    in cui hai vinto le tenebre
    del peccato con lo splendore
    della colonna di fuoco.
    Questa è la notte
    che salva su tutta la terra
    i credenti nel Cristo
    dall’oscurità del peccato
    e dalla corruzione del mondo,
    li consacra all’amore del Padre
    e li unisce nella comunione dei santi.
    Questa è la notte in cui Cristo,
    spezzando i vincoli della morte,
    risorge vincitore dal sepolcro.
    O immensità del tuo amore per noi!
    O inestimabile segno di bontà:
    per riscattare lo schiavo,
    hai sacrificato il Tuo figlio! (...).
    Il santo mistero di questa notte
    sconfigge il male, lava le colpe,
    restituisce l’innocenza ai peccatori,
    la gioia agli afflitti.
    O notte veramente gloriosa,
    che ricongiunge la terra al cielo
    e l’uomo al suo creatore!».

    Pensare il paradosso cristiano

    Pochi inni come questo, noto come «Exultet» («Esulti»: l’invito ad esultare rivolto dal celebrante all’assemblea, e attraverso l’assemblea, all’umanità intera), esprimono mirabilmente il paradosso cristiano di un fallimento nella cui profondità risplende una luce come folgore, la cui potenza più potente di quella del sole è principio di illuminazione e rigenerazione del mondo.
    Ma come è possibile che dalla morte ingiusta di Gesù sulla croce, dove i suoi avversari trionfano e lui, l’innocente, è sconfitto, emani lo splendore di una luce così potente, capace di sconfiggere le tenebre del mondo? Come è possibile che nel fallimento di Gesù, rifiutato e condannato, si celi il segreto che capovolge e trasfigura quel fallimento in principio di vita nuova o vita «eterna», secondo il linguaggio neotestamentario? Come è possibile che Gesù, l’abbandonato («il popolo stava a vedere») e l’oltraggiato («i capi invece lo schernivano dicendo: ‘Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto’») è il vincente e il vivente? In altri termini: come è possibile che il suo abbassamento è innalzamento, la sua sconfitta vittoria e la sua morte risurrezione?
    Rispondere a domande come queste è necessario perché nessun tema come questo della croce si presta ad equivoci ermeneutici e strumentali, come ad esempio quelli di chi vorrebbe vedere in essa la negazione dell’amore alla vita e la giustificazione della spiritualità della privazione e del dolore; ma soprattutto perché, ponendo al centro del suo annuncio il paradosso della croce, il Nuovo Testamento, fa un’affermazione che non è né vuole essere incomprensibile ma portatrice di un di più di comprensione e di intelligibilità. Se il «para-dosso», infatti, pone accanto (para) all’affermazione comune (doxa) un’altra che la contraddice, non è per negarne l’ordine di razionalità e di senso che essa veicola, bensì per dischiudere il di più di razionalità e di senso che si cela nelle sue profondità. Ponendo al centro del proprio annuncio e delle sue feste – soprattutto delle grandi feste del Triduo pasquale – la croce, e proclamando che dal crocifisso che vi è disteso sopra l’umanità trae la vita e la salvezza, la tradizione cristiana non fa un’affermazione incomprensibile ma offre alla ragione, con il linguaggio del paradosso, un di più di razionalità e di senso da pensare e tematizzare.

    L’intelligibilità del paradosso cristiano

    Il di più di razionalità e di senso che si rivela nel paradosso cristiano della croce è l’amore asimmetrico che in esso si rivela. Amore asimmetrico: amore cioè che pone una relazione indipendentemente dalla risposta e recettività dell’altro.
    Secondo Giovanni, un giorno Gesù confidò ai suoi discepoli che «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 12). Per Giovanni, donare la vita agli amici è il segno più grande dell’amore: lo spazio esistenziale dove si esprime nella modalità più alta e non ulteriormente trascendibile la relazione d’amicizia. Cosa può esserci infatti oltre e altro dalla relazione amicale? «Non vi chiamo più servi – continua Gesù nel vangelo di Giovanni – perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (v. 15). L’amicizia è realtà escatologica, cioè ultimale, perché segno di una comunione che affonda le sue radici nella volontà creatrice. Come può essere pensato infatti il paradiso se non come il luogo della relazione amicale, dove per sempre ognuno è amico all’altro? Dare la vita per gli amici è attestare la radicalità dell’amicizia e istituire, sul proscenio mutevole della storia, l’assoluto della relazione amicale per la quale, trascendenza del solipsimo, della servitù e della dipendenza, si può vivere e anche morire.
    A ben guardare però questo principio di Giovanni non si applica a ciò che avviene sulla croce, per la semplice ragione evidente e sconvolgente che sulla croce Gesù non ha di fronte amici che lo amano e lo mantengono nello spazio amicale, ma nemici che lo ritengono colpevole – lui l’Innocente per antonomasia – e lo condannano a morte come pericoloso sovversivo che minaccia l’ordine umano, secondo l’accusa di sobillare il popolo, e l’ordine divino, secondo l’accusa di essere un bestemmiatore. La croce sulla quale Gesù è innalzato è circondata a tal punto di codardia e di inimicizia che perfino gli amici di una volta, che lo avevano seguito e amato negli anni della predicazione pubblica, lo abbandonano e se ne fuggono, leggendo nel suo fallimento il loro stesso fallimento. Gesù non dà né può dare la sua vita per gli amici perché intorno a lui non ci sono amici ma nemici.
    Ma allora cosa fa Gesù sulla croce? La risposta inaudita del racconto neotestamentario è che sulla croce Gesù dona sì la sua vita, ma non per gli amici bensì per i nemici. Affermazione sconvolgente perché l’amore ai nemici non è una modalità dell’amore agli amici, ma un amore altro, che il Nuovo Testamento chiama agape, e il cui tratto costitutivo è la relazione di radicale asimmetria: ti amo e ti accolgo non perché mi sei amico, bensì perché io ti offro la mia relazione di amicizia nel momento stesso in cui tu mi ti neghi come amico.
    È questo – il dono della relazione amicale a chi abita e istituisce lo spazio inimicale – l’evento che, per il Nuovo Testamento, accade sulla croce e ne spiega il paradosso. Assumendo il rifiuto e la condanna come il luogo personale ed esistenziale dove «tra-durre» e «intro-durre» la relazione d’amicizia nello spazio dell’inimicizia, Gesù dischiude un nuovo umano come relazione asimmetrica o gratuita; e ciò che dal punto di vista fenomenico, quello dei «passanti» che lo vedono e lo giudicano dall’esterno, è sconfitta e fallimento, dal suo nuovo punto di vista, quello stesso del Padre al quale aderisce nell’abbandono dell’obbedienza, è vittoria e principio di vita nuova.


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