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    Il senso e i sensi dell’educare /1

    Mariella Mentasti

    (NPG 2011-01-69)


    «Le nostre strade, affollate e frenetiche,
    sono luoghi dove non si permette la conoscenza
    di un percorso. Sono luoghi da consumare,
    finalizzati non tanto a un’osservazione,
    a un riconoscimento e al riconoscimento
    reciproco, quanto ad una strumentalità.
    Ciò che fa difetto alla maggior parte dei cittadini
    è lo sguardo che implica un riconoscimento,
    che porta a prendersi cura, a preoccuparsi
    dell’altro come individuo che condivide con me
    la dimensione di uomo.
    Questo sguardo presuppone che si voglia vedere
    e sapere, che sia presa la decisione di non girare
    le spalle, di rifiutare il silenzio,
    di non scappare via pedalando veloci.
    Guardare con attenzione è avere già fatto
    ed esprimere una scelta».
    (A. Canevaro)

    Anna

    Anna aveva vent’anni e vestiva tutta di nero. Si tingeva i capelli di nero, si truccava con matite nere, ombretti neri, smalti neri. Gli occhi erano già neri e profondi.
    Anna, quando la chiamavano, faceva la cubista; succedeva di rado, perché ormai era diventata troppo magra, a furia di non mangiare.
    Anna era sieropositiva ma non lo diceva: aveva rapporti occasionali… «peggio per loro, diceva, così imparano ad andare con delle sconosciute».
    Anna odiava il mondo, tutto il mondo, ma soprattutto gli uomini: il padre l’aveva insultata, picchiata e abbandonata, i suoi tanti ragazzi le avevano portato via il pensiero, il giudizio e perfino l’anima. Il corpo no, glielo avevano lasciato, deturpato e ferito, perciò odiava anche quello.
    Anna diceva che al posto del cuore aveva un buco nero che le risucchiava tutto, solo la morte le rimaneva, solo alla morte voleva somigliare.
    Anna non sorrideva mai, le sue parole erano taglienti come lame, ma i suoi occhi erano profondi.
    Anna, quasi ogni pomeriggio, intorno alle cinque, veniva al parco, sola, silenziosa e cupa, non guardava nessuno, si sedeva su una panchina vuota poi scompariva nel suo MP3 col volume a palla.
    Noi la vedevamo arrivare, ci guardavamo perplessi, qualcuno faceva spallucce, qualcuno ammiccava, poi nessuno ci badava più.
    La gente passava, la vedeva, ma, al più, voltava lo sguardo con aria di disappunto.
    Era strana quella presenza, troppo nera, troppo immobile, troppo difficile da guardare, come il drappo nero della morte. Meglio evitarla, meglio starle al largo, faceva paura.
    Marco arrivava di tanto in tanto con i suoi colori e il cavalletto; aveva negli occhi una passione: guardava il mondo con meraviglia, di tutto si stupiva. Gli piaceva dipingere la luce radente del tramonto, i colori del temporale, il movimento degli alberi scossi dal vento, il dolore delle madri dei soldati, il suono delle campane a festa, la gioia di un bacio d’amore. Non sapeva fare altro. Però quello che faceva gli piaceva molto. Aveva occhi trasparenti che guardavano sempre avanti, come se volessero farsi trapassare da tutto ciò che vedevano, come se volessero vedere come gli altri, oggetti, animali, uomini e donne, lo vedevano. E così sorrideva spesso, si burlava delle immagini che si formavano nel suo cuore. Diceva «il mio cuore cambia forma e colore a seconda di quello che passa attraverso i miei occhi e io, per non dispiacergli, devo raffigurarlo».
    Quel giorno l’immagine di Anna trasformò il cuore di Marco in un buco nero.
    Marco non abbassò lo sguardo, sebbene quel buco nero lo abbagliasse più di mille soli, si avvicinò, si sedette accanto ad Anna e stette in silenzio: era la prima volta che non riusciva a raffigurare ciò che gli era apparso in cuore.
    Anna non abbassò l’MP3, non lo guardò, non cambiò espressione. Cambiò posizione e si chinò su se stessa, come se volesse rendersi ancora più invisibile.
    Marco bisbigliò: «Anche alla morte dispiace veder morire i bambini, anche la morte soffre». Anna abbassò l‘MP3. «La morte non può soffrire, la morte è morte e nessuno le può voler bene».
    «La morte è nera perché ha risucchiato in sé tutti i colori del mondo, quand’essi sono diventati motivo di dolore: il rosso del sangue innocente, il giallo dei deserti senza vita, il blu del cielo senza stelle e senza amore. La morte è nera ma porta in sé una Promessa; la morte non è un buco nero, è una scatola nera; se riesci ad aprirla, lì ci sono tutti i colori: ci sono i campi di grano di Van Gogh, i tramonti di Matisse, le ninfee di Gauguin, c’è il padre misericordioso di Rembrandt, gli sposi felici di Chagall e la giungla fantastica di Ligabue. Ci sono cose buone e belle, chiuse là dentro, c’è tutto il creato, c’è l’arte che lo guarda e lo veste di emozioni, ci sono i vestiti di Anna: gialli, arancioni, verdi e lillà che aspettano di essere indossati. C’è un bacio bianco, un bacio che non desidera, non prende, vuole solo dare. C’è uno sguardo che attende, c’è un Amore vero «.
    Anna, si tolse le cuffie, alzò gli occhi, fissò Marco e, per la prima volta, spinse il suo sguardo oltre. Non sorrise ma andò a prendere la tavolozza dei colori.
    Dipinse la speranza.

    Lo straniero

    Un uomo, mentre percorreva la via verso casa, subì un’aggressione: venne derubato, picchiato e abbandonato sul ciglio della strada. Solo un impercettibile flebile lamento gli usciva dalla bocca. Passò di lì un sacerdote, lo vide ma attraversò la strada e proseguì. Forse pensò «Pover’uomo, vorrei aiutarlo ma ho i miei riti al tempio; qualcun altro lo vedrà e ci penserà». Passò anche un uomo colto e pio, conosciuto e stimato dalla comunità dei credenti, lo vide ma si scansò e proseguì. Anch’egli forse pensò: «Ho l’agenda piena di impegni, ho i miei poveri da aiutare… e se poi fingesse per tendermi un agguato? Qualcun altro lo vedrà e ci penserà». Infine uno straniero lo vide, lo guardò con attenzione, si avvicinò, si accorse che era ferito, si commosse alla sua sofferenza, si prese cura di lui, lo portò all’albergo e si assicurò che gli fossero fornite tutte le cure necessarie. Il giorno successivo tornò a visitarlo per accertarsi che fosse fuori pericolo; l’uomo lo guardò e lo inondò di un sorriso di gratitudine: in quello straniero aveva riconosciuto l’Amore (liberamente tratto da Luca 10, 25-37).

    Alzare lo sguardo

    Marco avrebbe potuto, come tutti, ignorare quella scomoda presenza: avrebbe avuto tante altre occasioni per farsi prossimo con la sua arte, il suo talento. Lui non era un professionista della cura, nessuno gli aveva ordinato di alzare lo sguardo su Anna, di riconoscere il suo immenso dolore, di prendersi cura di lei. Nessuno, ma Marco sentiva in cuor suo che Qualcuno l’avrebbe fatto. Quel Qualcuno che ha reso la vista ai ciechi perché potessero ri-conoscere in Lui la salvezza, perché potessero vedere come Lui vedeva il mondo. Quel Qualcuno che vedeva, riconosceva e chiamava per nome perché ogni sguardo era per Lui speciale, ogni incontro era novità, stupore e gioia. Anche per Anna Lui sarebbe stato prossimo e si sarebbe commosso, si sarebbe fermato e avrebbe sofferto delle sue ferite invisibili e del suo dolore perché la morte si era infiltrata nei suoi vent’anni per rubarle i sogni.

    Nella prossimità del quotidiano educare, guardare con attenzione significa accorgersi, vedere l’invisibile, rispecchiarsi nell’altro, nelle sue paure, nei suoi sogni, nelle sue sofferenze, nella sua storia, nei suoi progetti. Allora non sono più io che guardo ma è l’altro che mi guarda, mi ri-guarda e, nell’incrocio degli sguardi, diventa possibile comprendersi, immaginarsi dentro un luogo che non fa più paura ma che, per essere vivibile, richiede il coraggio di essere riconosciuto.
    Essere educatori credibili e coraggiosi significa guardare in faccia la realtà, rallentare il passo, dimenticare i nostri progetti, fermarsi e fare delle scelte. Scelte di cura, prima ancora che di percorso, perché medicare le ferite dell’anima è l’unico modo per ricomporre un sogno.
    Educare è guardare oltre le apparenze per scoprire mondi nuovi, è guardare dentro se stessi, conoscersi e ri-conoscersi nei propri limiti e nelle proprie ricchezze, nell’incapacità di agire, di comprendere, di cambiare, di inventare, con tanti dubbi ma con una certezza: che ogni viso è un miracolo.
    Educare è guardare dall’alto la banalità del proprio quotidiano per accorgersi che è possibile cambiare prospettiva, vedere sotto nuovi punti di vista, scoprire che il cuore di Anna non è un buco nero che risucchia tutto ma uno scrigno che attende di essere aperto. Basta trovare la chiave e, per cercarla, essere disposti a ribaltare la nostra mente e il nostro cuore. Poi, una volta trovata, fare festa.

     


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