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    L’educatore-wanderer: quale accompagnamento per i ragazzi “erranti”?



    Alessandra Augelli

    (NPG 2014-01-11)


    L’uomo che viaggia solo può partire oggi;
    ma chi viaggia in compagnia
    deve aspettare che l’altro sia pronto.
    (Henry David Thoreau)

    L’uomo non può mai tornare allo stesso punto da cui è partito.
    Perché nel frattempo lui stesso è cambiato.
    Tutto quello che siamo lo portiamo nel viaggio.
    Portiamo con noi la casa della nostra anima.
    Come fa la tartaruga con la corazza.
    (A. Tarkowski)

    Disorientati, incerti, inquieti, instabili, spaesati, scoordinati…sono alcune delle parole più frequenti con cui vengono descritti i ragazzi e le ragazze che si incontrano quotidianamente. Tali aggettivi hanno perlopiù una connotazione se non “negativa”, ma certamente problematica e “sospettosa” nei confronti di un’età, qual è quella preadolescenziale, che fatica ad affermarsi nella sua specificità. Le riflessioni che si sono snocciolate lungo l’intero anno hanno avuto l’intento di contribuire a passare dalle ombre alle luci del passaggio preadolescenziale, cercando di lasciar emergere dietro ogni fatica una sfida e un compito evolutivo da sostenere e incoraggiare.
    Analizzando i temi del progetto e del desiderio, delle relazioni interpersonali, degli spazi e dei tempi, dei cambiamenti corporei e dei vissuti emotivi, si sono volute sottolineare le possibilità insite in questo periodo di vita, così delicato, ma anche così preparatorio a tutti gli altri passaggi che si incontreranno nell’esistenza. L’incertezza preadolescenziale si può tradurre, quindi, in una potentissima riserva di domande di senso, così come l’instabilità si può leggere all’insegna della capacità di lasciar abitare in sé le contraddizioni e cercare nuovi equilibri; l’insicurezza si esplica nello slancio a sperimentare situazioni originali e il bisogno di conferme evidenza la capacità di rifondare dei legami scontati.
    La chiave interpretativa dell’erranza è particolarmente feconda in questa prospettiva: errante non è soltanto chi sbaglia strada e chi procede come vagabondo senza meta e obiettivi di vita, ma è anche chi sa fare di ogni passo un’esperienza profonda, chi sa accogliere l’imprevisto come possibilità e chi è capace di guardare con flessibilità e spirito di iniziativa il proprio cammino [1]. I ragazzi e le ragazze in questo senso sono erranti perché in questo tempo della vita non c’è percorso pre-tracciato che possa appagare la loro sete di scoperta e perché hanno bisogno, alle volte, di perdersi per ritrovarsi e per costruire da sé la propria bussola. Allo stesso tempo, ricercano quelle figure educative che sanno farsi anch’esse erranti, non per pura questione di empatia o di asimmetria, ma perché si fanno garanti della possibilità di formulare i percorsi in base alle domande e ai bisogni espressi e della necessità di fare della ricerca di senso della propria vita l’unica vera avventura per cui vale la pena impegnarsi, ogni oltre ricetta educativa e cammino formativo certo e prefissato.
    La celebre canzone “Io vagabondo” ci sollecita a pensare ai passaggi di crescita, al momento in cui si guarda con nostalgia al bambino che si è stati e alla perdita di punti di riferimento pur in contesti da sempre abitati dalla persona: l’essere vagabondi è svuotarsi dalle certezze materiali, pur confidando in un senso più ampio e profondo, in una “spiritualità” che fa della strada motivo di elevazione di sé. Mettersi in cammino è il richiamo intimo e costante di chi non si accontenta “del fuoco di un camino” – come dice il testo musicale – ma vuole scaldare la propria esistenza al “sole del mattino”: questo appello è per tutti, adulti e bambini, adolescenti e giovani, singoli e istituzioni, per chi osa cercare qualcosa in più, per chi dà inizio alla propria erranza a partire dalle “sfasature” che incontra nella propria quotidianità. “Certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova” [2]: questo coraggio è il solo richiesto per fare della propria vita qualcosa di unico e irripetibile e per suscitare anche negli altri questo desiderio.

    LA CHIAVE INTERPRETATIVA DELL’ERRANZA

    Che l’immagine del cammino sia eloquente per narrare la storia e le esperienze di ciascuna persona è indiscutibile; altrettanto innegabile è la necessità di sviscerare ciò che questa rappresentazione consegna a quanti vivono l’impegno formativo ed educativo, nei confronti di sé stessi e degli altri. Non basta dire di essere per via, occorre comprendere come si pensa e si vive il proprio movimento esistenziale e, attraverso il modo di concepirlo e affrontarlo, in che modo lo comunichiamo a quanti ci circondano. Interessante la riflessione di Nietzsche: “Si distinguano i viaggiatori in cinque gradi: quelli del primo e più basso grado sono i viaggiatori che viaggiano e sono visti viaggiare; propriamente essi «vengono viaggiati» e sono quasi ciechi; i secondi guardano realmente nel mondo; ai terzi succede qualche cosa, in conseguenza di ciò che hanno visto; i quarti vivono ciò che è loro successo entro se stessi e continuano a portarlo seco; finalmente ci sono uomini di forza altissima che devono in ultimo e necessariamente far vivere ad altri ciò che hanno visto, dopo averlo vissuto e assimilato, in azioni e in opere, non appena sono tornati a casa. Simili a queste cinque specie di viaggiatori, tutti gli uomini in generale vanno peregrinando attraverso la vita” [3].
    La consapevolezza di non essere mai viandanti di un’unica “specie”, ma di alternare sempre, a seconda del tempo e delle condizioni, il modo di concepire e vivere il cammino di vita, ci offre la possibilità di riflettere su alcune dimensioni importanti: quante volte, infatti, ci si sente “viaggiati” e si perde l’ardore di uno sguardo attivo sulla realtà? Quando, invece, riusciamo a guardarlo realmente e a gustarlo in profondità? In che modo dare spazio al cambiamento rispetto a ciò che si è ammirato?
    Le domande delle figure educative si infittiscono anche in relazione alla capacità, come dice Nietszche, di comprendere e dar senso a ciò che si attraversa e all’impegno a condividere con altri ciò che si è vissuto, offrendo, anche ad essi, opportunità di scoperta e di cambiamento: la possibilità di farsi cambiare dal viaggio e di portarlo a lungo con sé si eleva fino a rendere «testimonianza» ad altri della propria esperienza vissuta. Acume nel guardare il mondo, riflessività e possibilità di cambiamento, interiorizzazione e permanenza intima della trans-formazione, possibilità di raccontare e comunicare ad altri l’esperienza di viaggio e, attraverso la traccia viva di un sé rinnovato, sollecitare nuove partenze: sono queste le dimensioni che si pongono come trama di un cammino autentico per sé e per gli altri.
    Se a volte, quindi, nella quotidianità si sperimentano momenti di stasi, passività, stanchezza, l’attenzione verso dimensioni qualificanti l’essere in cammino autentico legittimano questi passaggi in vista di una più feconda circolarità di pensiero e azione e di piccoli significativi mutamenti. Ciò che determina lo scarto tra un modo di essere in cammino e l’altro è proprio il valore dato al vissuto esperienziale – anche quello poco legittimato e approvato – , il pensiero riflessivo e il cambiamento che ne consegue.
    Sapendo che non tutti gli avanzamenti possono dirsi «cammino», occorrerà interrogarsi su quali siano gli “equipaggiamenti essenziali che occorrono per esercitare un camminare consapevole” [4]: non esistono, infatti, luoghi particolari, né mete e itinerari prefissati che possono «promettere» l’autenticità dell’essere-in-movimento. Ciò che conta è l’intenzione, che attribuisce senso al camminare, permettendo di superare anche i limiti e le fragilità di quegli spazi attraversati che non contribuiscono alla crescita e al compimento della dignità della persona.

    DALLE PAROLE AI FATTI: UN LESSICO ERRANTE PER NUOVE FORME DI EDUCAZIONE

    Se, come dice Heidegger, “il linguaggio è la dimora dell’essere” [5], i cambiamenti nei modi di stare con se stessi, di relazionarsi e accompagnare l’altro, partono anche da un rinnovamento del linguaggio. Le parole “accendono” le trasformazioni e le sostanziano, innescano dei mutamenti e gli danno significato.
    “La pedagogia è una disciplina «straripante» di parole: ogni comportamento, scelta, strategia, ogni situazione è stata definita con discorsi, circonlocuzioni, metafore, nell’intento di afferrare ciò che passa attraverso l’educazione” [6]: benché alcune dimensioni restino indescrivibili, incompiute e misteriose, offrire nuove parole alla formazione e ristabilire il legame originario tra le parole e le realtà che esprimono significa arricchire i percorsi educativi di possibilità inesplorate.
    Da un esercizio siffatto ne scaturiranno non solo conoscenze disancorata da categorie date per scontate, ma anche azioni più efficaci, nella consapevolezza, come sostiene Freire, che “non esiste parola autentica che non sia prassi. Pronunciare la parola autentica significa trasformare il mondo” [7].
    I pre-giudizi, le ovvietà, le forme di stereotipia con cui si guarda al cammino umano come rappresentazione universale della vita possono impedirci di cogliere in pienezza il senso autentico di tale esperienza esistenziale ed educativa, offuscandolo attraverso sovrapposizioni di astratte idee o di abitudinarie concettualizzazioni.
    Viaggio, itineranza, vagabondaggio, nomadismo, erranza, strada, percorso, pellegrinaggio, cammino, mobilità, via, sentiero… Tante le espressioni che si innestano sull’esperienza viatoria della persona e che danno vita ad un quadro composito. L’impegno educativo sta, innanzitutto, nell’utilizzare e diffondere “quelle parole che sappiano istituire una rapporto originario col fenomeno di cui discorrono; parole in cui il significato riesca ad abitare comodamente, perché sanno conservare la realtà di un’esperienza [8]”. Di conseguenza, sollecitati da questo sforzo, le figure educative sono chiamate a scegliere, a seconda dei contesti e delle condizioni, le parole da trasformare in atti, i significati da rendere presenti.
    Nell’analizzare le espressioni dell’ essere-in-cammino ciascuno, quindi, si senta provocato a coglierne la risonanza nel proprio vissuto e la ricaduta pratica nelle dinamiche educative quotidiane.
    * Il movimento (dal latino moveo) ci presenta l’ampio orizzonte di significato entro cui si colloca il cammino: esso indica l’atto di togliere qualcosa o qualcuno dallo stato di quiete, effettuando uno spostamento da un luogo ad un altro, un cambiamento da una posizione ad un'altra. La diffusione del verbo nella forma riflessiva – muoversi – sottolinea quanto, nella formazione umana, sia necessario non tanto realizzare lo spostamento, quanto stimolarlo e suscitarlo, così che si tratti di un corpo che si adopera perché l’altro avverta questo prodigarsi e accolga a sua volta lo stimolo. Il muovere si accosta, quindi, al suscitare: ex-moveo, radice dello stesso termine emozione. Creare movimento è favorire esperienze in cui si possa sentire, camminare è emozionarsi, così come restar fermi è apatia (a-pathos), astenersi dal sentire provoca immobilità, assenza di cambiamento. Ogni modo di essere-per-via denota un diverso modo di vivere l’esperienza affettiva e sensoriale.
    * Il valore dei vissuti esperienziali nelle dinamiche di viaggio ci viene sottolineata da Leed, facendo notare come nell’alto tedesco antico viaggiare, uscire, traversare o vagare veniva espresso con «Irfaran» da cui deriva «Erfahrung», esperienza [9]. In questo caso fare esperienza è legato al significato di attraversare uno spazio, di superare ostacoli, di valicare confini. “L’idea profondamente radicata che il viaggio sia un’esperienza che mette alla prova e perfeziona il carattere del viaggiatore risulta chiaro nell’aggettivo tedesco bewandert che oggi vuol dire sagace, esperto, ma che originariamente qualificava semplicemente chi aveva viaggiato molto” [10]. Il cammino non è sempre e indistintamente esperienza: può diventarlo, da un punto di vista formativo, a patto che i vissuti diretti stimolino e comportino un vero attraversamento, potendo riconoscere un punto da cui ci si allontana (ex-), una processualità attivata (-per-) e un movimento verso qualcosa di nuovo (-ire).
    * Le parole “via, viaggio” fanno risalire il loro significato al latino viaticum: il bagaglio, l’occorrente necessario per nutrirsi durante il cammino. La radice etimologica del viaggio esprime anche la valenza di un buon equipaggiamento per affrontare la strada, che concili utilità, essenzialità e necessità di leggerezza. Si tratta, dunque, di educare ad “attrezzarsi” correttamente per un percorso di vita autentico: ciascuna preparazione, per quanto, attenta e scrupolosa dovrà lasciare ampi spazi liberi e strumenti di flessibilità, perché gli imprevisti che si incontrano possano essere vissuti in chiave costruttiva. Un bagaglio, infatti, troppo pesante e privo di spazi di ripensamento e arricchimento può diventare ostacolante per tradurre in pratica la prospettiva errante, per cui la strada si fa camminando e ogni evento è da vivere nella sua unicità.
    * Ogni erranza che voglia dirsi tale presuppone una partenza (dal latino pars-partum – dividere, dividersi): la partenza è uno delle prime azioni educative da compiere ed è, al contempo, quella più faticosa e complessa, in quanto implica una perdita da rielaborare. Senza questa prospettiva di abbandono e di lascito, che coinvolge tutti i protagonisti del percorso formativo, il percorso stesso si riduce ad un “giro turistico” fine a se stesso, ad un ritorno al punto di partenza, privato della possibilità di cambiamento e trasformazione. Molti cammini di vita si basano su “false partenze” o su “pseudo-partenze” che finiscono, col tempo, per appesantire sempre di più il carico di aspettative e di certezze da cui occorrerà staccarsi. Educarsi ed educare alle piccole e semplici partenze “disseminate” lungo la propria storia risulta indispensabile per fare del percorso educativo un’autentica erranza.
    * L’espressione inglese utilizzata per indicare comunemente il viaggio, travel, nella stretta assonanza con travaglio, richiama la fatica e la stanchezza connessa al mettersi in cammino. In un tempo in cui molto spesso si rischia “amorevolmente” di sollevare i più giovani dalle difficoltà e dagli sforzi legati all’esperienza quotidiana, occorre rivalutare il senso educativo del disagio e della sofferenza. I momenti di limite e di fragilità sono quelli in cui si infittiscono le domande di senso e la persona è chiamata a dare risposte “in proprio” per la propria esistenza. Se, però, non avrà ricevuto, nel tempo, sollecitazioni in tal senso e non avrà preso con sé nessuna indicazione rispetto a cui potersi confrontare e anche contrastare, il compito di dare significato alla propria esistenza diventerà molto più arduo.
    * Nella prospettiva itinerante, particolare rilevanza è da attribuire al transito: “trans-itum è movimento. In quanto participio passato di trans-ire unisce il concetto di «oltre» (trans) con quello di «andare» (ire) assumendo le molteplici accezioni di passare, andare, scorrere, trascorrere, ma anche di trasformarsi, mutarsi, e di passare attraverso, attraversare, trapassare, sorpassare, superare” [11]. Ponendosi tra il già e del non ancora, transitare attribuisce valore al durante, allo spazio e al tempo del per-corso, ai singoli istanti del mentre si è per via; transito (da cui transitorio, provvisorio) indica il passaggio in senso stretto, l’attraversamento. “La sincronicità del transito”, dice Perniola, “non deve farlo confondere col viaggio (…) Il viaggio implica un’origine e una meta, un’andata e un ritorno. Ma nel movimento dallo stesso allo stesso è impossibile fare tali distinzioni” [12]. Il richiamo a stare nel presente, proprio del transito, diventa cruciale quando ogni attesa si consuma nella prefigurazione degli avvenimenti e il peso del passato sembra condizionare ogni passo.
    * “Peregrinatio deriva da ager (campo) e indica un’andata o una sosta in campagna nel campo, cioè in un luogo in cui non si vive normalmente, in un luogo estraneo. (…) Perciò la peregrinatio può significare sia il viaggio e il cammino in corso, sia la permanenza e il soggiorno in terra straniera. Lo stesso vale per il verbo peregrinari, che può significare sia pellegrinare, camminare, sia essere in terra straniera. I latini rendono con pellegrinatio il termine greco xeniteia” [13]. Nel tardo antico, quindi, il peregrinus è il forestiero, lo straniero, colui che passa attraverso [14]: la sua estranietà è vissuta nel segno della religiosità e di una tensione verso l’Assoluto. Il pellegrinaggio “è un cammino orante, verso i luoghi del culto o del miracolo; è un cammino per-egrinante, volto a realizzare un per. Per espiare, per ottenere, per pregare insieme” [15]. Questi significati richiamano l’attenzione educativa nei confronti della dimensione dell’intenzionalità, aspetto alle volte taciuto, altre volte sbandierato e confuso con la programmaticità del formare. “Intenzionare” un’azione o un evento significa attribuirgli significato e far emergere le facoltà del singolo di volgersi verso le cose sottraendole dall’indistinto del non senso. Questo richiede tempo e protagonismo personale e comporta anche la possibilità di incappare nell’assenza di significato o di non rispondere a schemi programmatici prefissati.
    * La parola nomade deriva dal greco némo “che ha un ampia gamma di significati, ma che nella specificazione linguistica ha sempre più assunto quello di pascolare” [16]. Nomade è pertanto colui che si sposta per cambiare pascoli; è detto di tutte quelle popolazioni che, vivendo di pastorizia, non hanno dimora stabile. Interessante la suggestione di Ferraro sull’etimologia della parola nomade: colui che “fa della strada (odos) la propria legge (nomos)”, indicando così “la percezione di essere ovunque e da nessuna parte” [17] , di essere «condannati» all’esclusione, alla liminarità di chi non ha fissa dimora. L’esperienza del nomadismo, da leggersi in contiguità e non in contrapposizione con quella della stanzialità, è senz’altro quella che, da un punto di vista antropologico e socio-culturale, meglio esprime i vissuti dell’uomo e della donna contemporanei: spostamenti fisici o dislocazioni cognitive, mobilità effettiva o fluidità percettiva, in ogni caso, la persona viene a contatto con una serie di implicazioni ed effetti che - a livello globale e locale, a livello virtuale e a livello di esperienza quotidiana - i processi del nomadismo contemporaneo provocano come segno e come vissuto [18]. La libertà di movimento si intreccia con la capacità di intravedere spazi fecondi per accasarsi, anche temporaneamente, e l’assenza di itinerari prestabiliti si affianca alla necessità di costruzione progressiva di una mappa orientativa.
    * Il vagabondo (dal latino vagare, vagum) si muove di qua e là, acquisendo in profondità il senso dell’indeterminatezza, della instabilità del cammino; moto incerto e indefinito che viene condiviso dall’errante (dal latino errans, da cui errore) che, proprio in virtù di tale vaghezza, contempla, nel suo andare, la possibilità di sbagliare, di cadere in errore, di allontanarsi dal giusto, dal vero. L’errante, il vagabondo ama camminare, spostarsi a piedi; questo particolare modo di essere-in-movimento riassume in sé la centralità e l’intenzionalità di un corpo (Leib), che esperisce il mondo e la valenza di una spazialità e una temporalità, che nel percorso, seppur fatto di avanzamenti e retrocessioni, di errori e deviazioni, avanza, progredisce, si sviluppa: “il camminare, pur senza meta precisa, è pur sempre un «andare verso» (…). Si cammina sempre guidati dallo sguardo proteso in avanti” [19]. Tali chiarificazioni appaiono indispensabili per saper scorgere spazi di possibilità educativa, lì dove l’inconcludenza di un movimento erratico sembra condurci.
    * Interessante, infine, notare le sfumature semantiche tra strada, via, sentiero, rotta. La strada (dal tardo latino stratam, che sta per via strata, via lastricata) indica un tratto di terra, generalmente spianato o lastricato, che permette la comunicazione tra più luoghi; la strada è sì lingua di terra che collega più luoghi, ma anche luogo di incontro, di scambio. L’incrocio di strade si fa bivio, crocicchio, la confluenza di strade si fa piazza. “E’ un errore”, dice Emanuele Severino, “ritenere che la strada sia uno stratum dove le cose restano così come sono, restano prodotte o distrutte, vicine o lontane dall’esistenza” [20]; la strada “è un piccolo mondo, dove si incontra una «porzione di umanità» che trascorre parte del proprio tempo e della propria vita” [21]. La strada è anche via (dal latino vehere, portare), spazio che permette di trans-portare, luogo che consente di condurre attraverso il mondo. Alla voce sentiero troviamo la definizione di “viottolo generalmente stretto che si è formato in seguito al frequente passaggio”: percorrere sentieri battuti da altri, o essere in prima persona creatori di un sentiero grazie ad un continuo camminare. “Le strade mi s’allungavano davanti, oltre che dietro, man mano che i miei giorni portavano ciottoli sulle strade stesse” [22]: l’azione del portare ciottoli, del segnare col passo la via, del solcare la terra col vigore di una presenza costituisce opera autentica del viandante, dell’errante. E così anche la rotta (dal latino viam rupta) nel significato etimologico non richiama tanto una strada rotta, spaccata, disfatta, dissestata, quanto una «via aperta», generalmente usato per indicare il percorso di una nave o di un aereo; proiezione, direzione, percorso compiuto o da compiere, conservando ampi spazi di manovra, di cambiamento, di inversione.
    Se, come dice De Giacinto, “le parole attendono una loro realizzazione. (…) Ognuna è protagonista, vuole il suo tempo e la sua grazia” [23], possiamo far sì che, negli spazi e nei tempi opportuni, esse creino interrogativi perché uno stile viandante possa caratterizzare le figure educative.

    SPAZIO, TEMPO E CORPO DELL’ERRANZA EDUCATIVA

    L’esperienza educativa nella complessità di variabili e di dimensioni che attiva risulta molto spesso di difficile lettura: per tentarne una comprensione ci si può lasciar aiutare da tre direzioni di senso originarie – spazio, tempo e corpo - che, in quanto proprie di ciascuna persona, ci permettono di leggere i vissuti dall’interno, superando preconcetti e ovvietà.
    Il cammino è “laboratorio” [24] educativo attraverso cui prendere consapevolezza dello spazio che siamo: non tanto dello spazio che abbiamo a disposizione, di cui fruiamo nelle nostre attività quotidiane, dello spazio contenitore di gesti e movimenti, ma dello spazio che trattiene emozioni e ospita sentimenti e pensieri.
    Dice Solnit: “il senso dello spazio si può acquisire solo a piedi; poiché a piedi ogni cosa rimane collegata, perché camminando si occupano quegli spazi che separano” [25].

    Qualificare gli spazi

    L’erranza educativa permette alla persona di qualificare gli spazi incontrati, di attraversare luoghi differenti, vivendo la complessità degli “antipodi”. Tra i paesaggi dell’anima – come li chiama Galimberti – e quelli del mondo esterno si intesse un dialogo continuo, più o meno cosciente, più o meno esplicitato: i luoghi che andiamo a cercare riflettono bisogni intimi e questa consapevolezza è quanto mai fondamentale da un punto di vista educativo in quanto apre interrogativi su quei luoghi dove sono diretti i più giovani, ma anche sulla quantità e la qualità degli spazi entro cui proponiamo l’incontro interpersonale. “L’esterno ci abita quanto il nostro interno. Il paesaggio ci vive, ci at-testa stando in noi, nel nostro corpo-esperienza e nella nostra testa-pensieri. (…) Ciò che del paesaggio si fa in noi narrabilità, diviene abilità d’esistenza, capacità di de-scriversi, capacità di discernere il nostro paesaggio interno dal paesaggio esterno, anche se l’uno è la continu-azione dell’altro. (…) Il paesaggio di vita, sin dall’inizio, ci attende, ci sente, ci colloca, ci racconta la nostra storia, ci trasforma in storia, perché noi lo si narri, anche senza parole – nella storia della nostra storia” [26].
    Lo spazio, rispecchia e, al contempo, influenza i nostri vissuti emotivi. Sottolinea Binswanger come ci sia sempre uno “spazio emotivo, che non è assente da ogni altro tipo di spazialità, ma anzi lo contrassegna dal profondo” [27]. Ogni spazio per il viandante si offre come potenzialmente suggestivo: ogni territorio, anche quello in apparenza più sterile e insignificante, può, cioè, “suggerire” [28] qualcosa, può instillare domande o stimolare risposte. L’educazione itinerante ci stimola a conservare un rapporto dialogico con gli spazi in cui stiamo, con i territori che attraversiamo poiché tramite essi personalizziamo il mondo e diamo voce ai paesaggi interiori che ci abitano.
    Il cammino, “il movimento - dice Merleau-Ponty - non fa altro che manifestare in modo più sensibile l’implicazione spaziale e temporale: il presente vissuto che racchiude nel suo spessore un passato e un avvenire” [29]. Nel momento stesso in cui avanziamo abbandoniamo apparentemente un tempo che “non è più” e ci dirigiamo verso un “non ancora”, ma in realtà il presente conserva sempre memoria e progetto, passato e futuro.
    Nel tempo attuale l’angoscia di sapere che non siamo noi a poter governare il tempo ci spinge da un lato a fuggire, dall’altro a convincerci di poterlo gestire, regolare, organizzare in ogni sua dimensione. Si fugge dal presente proiettandosi in un futuro senza scopo né direzione, o rifugiandosi in un passato idilliaco, incorniciato in uno sguardo ingenuo. Non di rado si rischia di scappare anche dallo stesso futuro e dal passato «vivendo alla giornata», inchiodando l’attimo ad impegni e scadenze. “Vivere alla giornata, tuffarsi nell’attivismo incessante, avere come dimensione temporale unicamente il presente diventa una fuga dal passato vissuto come troppo imponente per essere assorbito e metabolizzato, e dal futuro avvertito come sempre più minaccioso perché imprevedibile e non controllabile” [30].

    Al "passo" del tempo?

    Non si cammina più al passo con il tempo, attraverso il tempo. Si corre contro il tempo, si avanza rapidamente tentando di averne la meglio. Il movimento segue ritmi frenetici e frammenta il tempo in una miriade di istanti privi di un senso unitario. Sembra si «lotti» ogni giorno con un tempo mai sufficiente rispetto all’affaccendarsi umano; e a volte si giunge, paradossalmente, quasi ad apprezzare chi ha poco tempo a disposizione, perché molto impegnato. La mancanza di tempo segna la vita di ogni persona; la fretta, l’impazienza caratterizzano l’esperienza vissuta di molti e si diffonde l’incapacità di fermarsi e attendere. Si tende a spostarsi nella realtà riducendo al minimo le perdite di tempo, senza troppi slittamenti e imprevisti. In modo particolare l’attuale «intolleranza» all’imprevisto è emblematica di una modalità di essere-in-viaggio propria di chi vive calcolando e gestendo i percorsi formativi secondo «tabelle di marcia». Non si ammettono situazioni che intralciano la «corsa», frangenti (etimologicamente dal latino «frangere», rompere) che spezzano il tempo previsto del percorso, costringendo a volte a cambiar strada, contrattempi che ostacolano il volgersi programmato dei momenti del viaggio. “Il vero disagio che l’imprevisto provoca è quello di mettere a nudo la persona, di rivelarla a se stessa ed è per questo che fa così paura” [31].
    Anche il tempo «libero» risulta essere un tempo «pieno». Per paura di saggiare «vuoti» che urlano il limite, si rischia di “predisporre” percorsi educativi in cui il cambiamento è un tempo stretto tra due date (l’inizio e la fine), rosicchiato già dalla sua conclusione, un tempo «cieco», indifferente a ciò che è passato e abituato ad un futuro tutto prevedibile.
    Rivoltella sottolinea come la maneggiabilità del tempo, se da un lato porta il tempo al di fuori «fuori» dalla persona, lasciando prevalere l’ordine del manipolare (dominio della tecnica), rispetto all’ordine dell’accadere (dominio del senso collettivo e della storia), dall’altro può condurre la persona ad una maggiore possibilità di scelta, di padronanza, di orientamento nel proprio orizzonte temporale [32].
    Compito educativo imprescindibile è quello, allora, di ristabilire il senso della memoria, del presente e del progetto.
    La valenza del ricordo appare emerge sempre più spesso soltanto quando si vive lo smarrimento, quando ci si perde e, in questo caso, tornare indietro, ripercorrere il percorso fatto diviene un’urgenza, se non un imperativo. Fare memoria è per il viandante esercizio del cuore: riconnettersi cioè con ciò che fa vibrare la propria esistenza, con ciò che appassiona e rende vitali.
    Rievocare la strada compiuta permette di riconoscere gli incontri decisivi, gli eventi che hanno contrassegnato la personale via, come unica e autentica, i bivi incontrati e le scelte fatte, le possibilità censurate o non viste: solo riandando con la mente e il cuore a quei momenti, riannodando i fili del tempo, prendendo tra le mani il bandolo della matassa si può tentare di comprendere il senso di una storia di viaggio. L’homo viator si accorge che la tessitura tra passato, presente e futuro è un lavorio continuo: un paesaggio ne rievoca un’altro già attraversato, una situazione che si presenta fa riemergere paure e remore antiche, un particolare fortuito ci fa battere il cuore per un futuro desiderato. “La memoria sottrae all’oblio le cose che sono state, riconsegnandole ad una nuova significatività, ad una nuova intenzionalità futura” [33]. In un esistenza itinerante i ricordi non vengono stipati in scatole chiuse, ma costituiscono sillabe, parole, lemmi di un andare discorrendo, alla ricerca di un senso rinnovato passo dopo passo.

    Movimenti a spirale

    Unica via per l’errante che non vuole sottrarsi allo scorrere del tempo, ma viverlo in pienezza, è di rimettere in circolo il proprio passato, innestandolo nel presente: il ritorno al passato non è regressione, ma movimento della ricerca di senso che, attraverso la distanza temporale, permette il riappropriarsi di alcuni vissuti, tra risorse e limiti. Nel movimento a spirale dell’errante, il passato viene rivisto e riletto continuamente alla luce dei nuovi significati raccolti, viene rivisitato grazie ai vissuti presenti, e si orienta verso un futuro che custodisce un senso più grande. Per questo “la passione avvertita per il proprio passato si trasforma in una passione di vita ulteriore” [34].
    Quanto esercizio di memoria esiste nei percorsi educativi proposti? Quanta capacità di lettura critica del proprio passato e della storia comune viene promossa nei luoghi formativi? Sono domande, queste, che sostengono l’autenticità educativa, senza sacrificare tuttavia altre dimensioni. Si è ben consapevoli, infatti, di quanto sia il futuro la struttura temporale propria del viandante, “la dimensione aperta del non-ancora, in cui il soggetto si scopre finito, temporale, ma animato da un insaziabile desiderio di infinito” [35]. Nessuno spostamento avrebbe senso se non fosse proiettato in un tempo «altro», non ancora vissuto, orizzonte in cui prendono corpo le direzioni possibili, irradiate dal presente. Il futuro è tempo in cui dimora il cambiamento, da cui il partire trae ispirazione e fondamento, verso cui il trans-ire protende, a cui ogni viandante lega le sue attese. Nella dimensione temporale del non-ancora germina la speranza: essa “libera il tempo, nel quale ci chiudiamo, come in una prigione, (…) speranza che riunisce, riconcilia i frammenti di un tempo che separa e disgiunge” [36].
    La velocità con cui ci muoviamo non ci permette di vivere a pieno tutte quelle esperienze che hanno bisogno di tempo per venire alla luce, tutti quei vissuti che richiedono un tempo più «giusto», ove il presente sembra non esistere. L’incontro e il dono caratterizzano il tempo presente: è nell’esperienza vissuta con l’altro e per l’altro che ciascuno può percepire l’ampliamento del tempo, la possibilità di espandere e dilatare la temporalità oggettiva e misurabile e abbracciare una realtà più ampia: la persona scopre, con stupore, la bellezza di aver speso tempo in «lunghezza», ma di averlo guadagnato in «spessore» di vita. Lì dove si concepisce l’esserci come temporalità vissuta, dare il proprio tempo significa offrire parti di sé. Il tempo mio diviene “tempo dell’altro che incontro e che acquista per me il senso di una temporalità che convocandomi mi oltrepassa e in questo superamento il tempo dell’altro si produce come il risultato di una gratuità” [37]. Un tempo dilatato, non conteggiato, di ampio respiro, lungimirante è fondamento dell’aver cura autentico, che “va oltre l’immediatezza del bisogno presente, ma investe per il futuro” [38]. Solo nel tempo donato il viandante supera “l’angoscia di passare, di finire, di giungere al termine, trasformandola nella «gioia di essere in cammino»” [39].

    Muoversi come corpo/persona

    Nell’esperienza del camminare si percepisce in modo immediato quanto il corpo sia persona, e non meccanismo che si muove secondo sterili automatismi: il corpo offre la possibilità, non solo di entrare in contatto col mondo attraverso i sensi, ma di saggiare la correlazione tra il movimento e i vissuti emotivi, i sentimenti che ne modulano il passo. Il corpo-persona (Leib) conosce la baldanza del passo saltellato, la lentezza del camminare affaticato, l’esigenza di fermarsi, il desiderio di correre, la trepidazione di aver raggiunto una meta, la frustrazione di una via labirintica. I vissuti emotivi condizionano e caratterizzano l’andatura di ciascuno, il «portamento», i modi, cioè, di «portarsi» sulla scena del mondo, di essere con gli altri: la fiducia e la sicurezza di «camminare a testa alta» o il timore di incedere restando «rinchiusi tra le spalle». Nello stesso tempo, «incorporiamo» segni di esperienze fatte lungo il cammino che si fanno visibili sul nostro corpo: le cicatrici di una caduta, lo zoppicare dopo un ostacolo incappato, il trascinare pesi o difficoltà non risolte. “L’io per mezzo del suo corpo costituisce un assoluto centro di orientamento attorno al quale il mondo viene a collocarsi come mondo circostante” [40]: nel camminare si fa esperienza dell’unità delle parti, che si muovono secondo la ricercatezza di un’armonia, secondo un ordine e una correlazione ritmica di ciascuna parte. “Camminare in sé è l’atto volontario più vicino ai ritmi involontari del corpo: il respiro e il battito del cuore. Stabilisce un delicato equilibrio tra il lavorare e l’oziare, tra il fare e l’essere. Camminare è uno stato ideale in cui la mente, il corpo e il mondo sono allineati come se fossero tre personaggi che finiscono per dialogare tra loro, tre note che improvvisamente formano un accordo. Camminare ci permette di essere nel nostro corpo e nel mondo senza esserne sopraffatti” [41]. L’errare risponde al nostro desiderio di entrare in contatto col mondo, di saggiare una sorta di estensione nella realtà, ma al contempo di sperimentare i suoi confini, i limiti a cui il corpo è soggetto: la fatica, l’ostacolo, ma anche l’impossibilità di raggiungere alcuni luoghi solo con le nostre gambe. Errando si fa esperienza del mondo attraverso la sensibilità del proprio corpo e si conosce meglio la propria corporeità incontrando il mondo e i limiti che esso pone.
    La parte del corpo maggiormente coinvolta nell’esperienza del camminare sono le gambe: esse rappresentano il senso del nostro dirigerci, costituiscono la modalità mediante cui il “corpo, come assoluto qui, si orienta verso i vari là del mondo” [42]. Il «viaggio» inizia quando ci si alza, si «dis-accavallano» le gambe, ci si «scomoda» per andare verso qualcosa o qualcuno. Molti nella loro vita e nella loro attività, dice Thoreau, restano “seduti con le gambe accavallate, quasi che le gambe fossero fatte per sedervisi sopra e non per mettersi eretti e camminare” [43]. Costituiscono, dunque, una base sicura su cui sollevarsi, da cui essere sostenuti, grazie a cui si rende possibile la flessibilità e il movimento: alternandosi una dopo l’altra, in un moto inarrestabile, le gambe permettono l’azione verso un altrove. La stanchezza del dirigersi o la paura del pericolo incontrato si avverte innanzitutto nelle gambe, che diventano «molli», fiacche e ci impediscono di andare avanti. Spesso si prova anche la bellezza di “lasciarsi portare non dalle gambe, ma dai sensi: assaporare colori, odori e suoni” [44]. I sensi ci permettono di cogliere la «finezza» dell’esperienza viatoria, sottigliezze che non cogliamo se non attraverso un esercizio di apertura e di profondità che contrasti la distrazione e la superficialità. I colori di un paesaggio, i profumi della natura, il sapore di un pasto condiviso costituiscono l’essenza dell’attraversamento. Bodei evidenzia che i sensi “sono quasi delle finestre sul mondo e, guardando la cosa al contrario, sono delle vie d'accesso del mondo dentro di noi. I sensi umani ci mettono in rapporto con la realtà in maniera differenziata. Ciascuno di essi ci dà dei tipi di conoscenza che altri non ci possono dare e noi alla fine li integriamo, usiamo una specie di miscelatore e così costruiamo in qualche modo la realtà” [45].

    Affinare il sentire

    La sensorialità, come affinamento del sentire, non è tanto eredità tramandata o predisposizione passiva, quanto competenza dinamica, da coltivare e perfezionare. “Uno dei compiti, io credo, del nostro modo di stare nel mondo, sarebbe di aprire più gli occhi, le orecchie, quasi tutti i pori del corpo e sostanzialmente avere un'esistenza più ricca, probabilmente più sensata - nel doppio significato del termine - in quanto ci rendiamo conto di più cose, esercitando questi sensi, soprattutto quelli che nella nostra tradizione sono stati più trascurati” [46]. Lo spirito itinerante nei percorsi formativi si evince, anche, quindi, dalla capacità di attivare la sensorialità e di allenare l’esercizio del senso attraverso la sollecitazione dei sensi. Contesti educativi dove non si avvertono odori, gusti, visioni, suoni, contatti particolari non solo restano anonimi ma creano indifferenza e impersonalità. Al contrario la sollecitazione dei sensi aiuta a contrastare l’ovvietà e la consuetudine e favorire il decentramento rispetto al «senso comune». Essere erranti nella formazione significa aprirsi al ventaglio di sensazioni, avendo il coraggio di imbattersi in sapori nuovi. L’erranza educativa ci stimola a “ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei confronti del quale ogni determinazione scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato o un fiume” [47].

    EDUCARE ALLA STRADA: TRA CONFINI, MARGINI E CENTRALITÀ

    La strada è, per eccellenza, luogo dell’erranza esistenziale. Nessun immagine, probabilmente, come la strada, racchiude in sé una ricchezza di simbologie, rimandi, suggestioni: artisti, scrittori, cantautori, poeti hanno attinto ispirazione da essa. Autostrade, strade a scorrimento veloce, vicoli e tratturi; strade in salita e in discesa; tornanti, curve, rettilinei; paesaggi e segnaletiche; a senso unico, senza via d’uscita, restringimento di carreggiata, strada dissestata…Di per sé la strada può arricchirsi di significati esistenziali, può stimolare riflessioni, può richiamare alla mente vissuti ed esperienze personali. Quando si popola di presenze diviene terreno d’incontro, luogo di scambio, ma anche sfondo su cui si stagliano storie avventurose, che si svolgono allo scoperto, senza alcun riparo e protezione dai rischi e dagli imprevisti. Per via si avverte la precarietà di relazioni che si compiono nel qui e ora, dove si sperimenta l’episodicità, ma anche l’intensità e l’essenzialità di condivisione e partecipazione. “La strada, con i suoi incontri favolosi e patetici, i suoi drammi sconosciuti. Creature profondamente diverse si mettono in viaggio destinate a percorrere la stessa strada” [48]. La strada brulica di gente, si fa scenario di eventi inattesi e apparentemente insignificanti, partecipa dei nostri incontri, può comunicare comunica calore o freddezza a seconda delle relazioni che in essa e attraverso essa si compiono.

    Nuove possibilità educative

    La via può essere territorio educativo privilegiato poiché si fa spazio dis-allontanante, predisponendo all’incontro e all’interazione con l’altro. La strada ricongiunge, colma dei vuoti, rende «presenti», «prossime» le persone lontane: tracciare una strada, cercare o segnare una via lì dove non c’è può divenire impegno educativo concreto e sempre attuale. La relazione, l’incontro, l’esperienza che in essa si dispiegano denotano la strada come spazio denso di possibilità educative.
    Al contempo, per poter far emergere i significati formativi legati alla strada, occorre innanzitutto confrontarsi con una serie di rappresentazioni e pregiudizi: è un contesto, infatti, associato all’immoralità e all’illegalità, dove avvengono “danni” nei confronti della società. Le dimensioni della libertà e della ricerca di senso, della sperimentazione di vita e della “rottura” dei gusci protettivi necessaria per la crescita di ciascuno vengono facilmente confusi con la spensieratezza, l’autodeterminazione e la discrezionalità.
    Nella prospettiva socio educativa il lavoro di strada è stato molto valorizzato soprattutto come modalità per incaricarsi dei bisogni di vita che sorgono «dal basso» e valorizzare le soluzioni si escogitano processualmente con creatività. La strada, “attraversata da una pluralità di soggetti, per cui ognuno ha la sua traiettoria, le paure, gli interessi, i limiti e le risorse si fa, dunque, spazio educativo ove poter annodare fili allentati di realtà sociali e comunitarie sofferenti e disgregate” [49].
    Pur accogliendo e apprezzando l’enorme contributo in termini di teoresi e di prassi che gli studi sull’educativa di strada hanno dato e continuano a dare alla formazione, si intende, qui, effettuare un passaggio: dall’educare nella strada all’educare alla strada.
    Se, infatti “la relazione educativa è sempre spazializzata, non solo per il suo essere contenuta in uno spazio, ma perché essa determina i caratteri di questo spazio” [50], è interessante comprendere come i diversi soggetti in formazione, i ragazzi quindi e gli educatori stessi, intendono e vivono la strada come sollecitazione per la propria esistenza. Lì dove “lo spazio educativo è spazio dell’espansione della vita ed (…) è spazio della scoperta che si allarga contemporaneamente al dischiudersi ed espandersi dell’intelligenza e del sentimento” [51], la strada può essere territorio, in cui ritrovarsi e rileggere il proprio modo di essere-nel-mondo.

    Ai margini e confini

    Si può, in tal senso, educare alla strada anche se non si è fisicamente in essa, poiché la spinta all’esplorazione, la crescita in autonomia, la legittimazione dell’errore, il rafforzamento della capacità di ritornare diventano dimensioni praticabili in diversi contesti.
    Aprendosi all’imprevedibile bellezza dell’esistenza e alla pluralità di sollecitazioni che giungono, l’educatore-viandante si dispone a costeggiare le cose procedendo lungo percorsi sinuosi, ad «inseguire» le biografie che si snocciolano dinanzi, a vivere il piacevole turbamento del perdersi, non senza una padronanza di sé, indispensabile per l’ orientamento altrui. Le derive possono essere tante, poiché è proprio la possibilità di instaurare relazioni simmetriche, il fascino di «tuffarsi» pienamente nella storie incontrate, la frustrazione di confrontarsi con spazi di “povertà” e fragilità possono portare al rischio di sostituirsi all’altro per compiere scelte e agevolare percorsi e provocare così la de-responsabilizzazione dei più giovani.
    In una corrispondenza tra spazio esteriore e luogo interiore, l’erranza, per le sue caratteristiche di avventurarsi e battere sentieri non noti, di sperimentare lo smarrimento e il ritrovarsi, di «far parlare» luoghi sconosciuti, di intrattenersi lungo il percorso, si propone come modalità educativa che si prende cura degli interstizi, abita i margini e attraversa confini.
    In particolare i confini risultano necessari al lavoro educativo in quanto, demarcando differenze e creando appartenenza, creano contrapposizioni, ma anche collegamenti. Sempre più gli educatori si accorgono di quanto la labilità e la dissolvenza dei confini crei nei più giovani incertezza, e disorientamento, poiché diventa difficile acquisire consapevolezza del dove ci si trova, del verso dove si dirige la propria azione, del dove si è stati.

    Confini come frontiera

    I confini diventano frontiera quando siamo capaci di riconoscerli, quando permettono un radicamento che è terreno di inizio, punto di avvio per dirigersi in una direzione. La crisi dei confini crea privazione di punti di riferimento, mentre la possibilità di ravvisarli e renderli evidenti accresce l’energia quando bisogna superarli, l’umiltà quando occorre costeggiarli, la perspicacia quando è necessario discuterli.
    L’educatore-viandante, solo tracciando confini saprà muoversi agevolmente tra il centro e i margini della vita di quanti gli sono affidati, non rifiutando né l’uno né l’altro posizionamento.
    Nel suo «essere tra» le differenti realtà, nel suo abitare gli spazi interstiziali dell’esistenza impara ad aver cura delle diverse forme di marginalità: marginalità dei singoli, espressa nella difficoltà di trovare e di appropriarsi dei propri punti di forza e delle proprie risorse più intime; marginalità dei gruppi e delle comunità, connessa al mancato accesso alle risorse o alla fatica di costituire punti di riferimento organici; marginalità dei popoli e delle culture, legata a dinamiche storiche, a forme di povertà indotte ed enfatizzata da stereotipie e silenzi. L’educazione itinerante ci consegna l’immagine di un viandante che sa disporsi al centro del sentiero e ai margini, valendosi dei diversi punti di vista ed elaborando un pensiero capace di dar conto della complessità del reale; muovendosi tra il formale e l’informale, l’educatore-viandante anima il rapporto tra centralità e marginalità: dai margini al centro giungono interrogativi, indicazioni per mettere in discussione ciò che è assunto come ovvio, dal centro ai margini arrivano proposte di connessioni e reti, di direzionalità e orientamenti.
    Dice Heidegger: “Salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini, condurre i mortali: questo quadruplice aver cura è la semplice essenza dell’abitare” [52]. L’educatore che intende dar senso alla propria esistenza e sostenere altri nella persona ricerca di significato fa sue queste linee guida e si impegna ad essere radicato nella comunità, leggendo i segni che da essa vengono; non smette al contempo di tendere ai valori alti e di custodire sogni e idealità; concilia la propensione verso la trascendenza e l’accompagnamento umile e quotidiano delle persone di cui ha cura.

    UN VIANDANTE PER EDUCATORE

    Una bellissima poesia di Baudelaire, che dice: “Ignoro in quale latitudine sia la mia patria, so solo di amare le nuvole, le nuvole che passano laggiù, le meravigliose nuvole”, esprime bene i vissuti del viandante, capace di fare di ogni luogo la propria dimora e appassionarsi al movimento incessante dell’esistenza umana.
    Nei diversi luoghi educativi la multiformità del mondo-della-vita (Lebenswelt) emerge in tutto il suo spessore: ci si imbatte in situazioni diverse, nell’originalità dei volti, nell’unicità delle storie, nella complessità dei vissuti emotivi. Problematicità e risorse di senso fanno parte di un’unica grande trama che si tende, aggrovigliandosi o dispiegandosi, nella tela dell’educazione: lo sguardo è sempre teso a vederne i chiaroscuri, i significati che emergono dall’esperienza. L’educatore saggia la discontinuità di condizioni differenti, di cammini non lineari e ricerca la tensione unificante, si sforza di rintracciare una continuità, non lascia acquietare la ricerca di senso, tenta di accostare frammenti e stabilire nessi tra le esperienze. Chiamato ogni giorno a padroneggiare più registri comunicativi, l’educatore percepisce dislivelli, subisce contraccolpi affettivi quando ha investito troppo, è spronato a ridefinire le sfide dopo un errore.

    Una irrinunciabule fiducia

    Il senso di incertezza, proprio dell’esistenza, diviene spesso sfondo della relazione educativa, soprattutto in condizioni di debolezza e di marginalità, ove l’educatore è chiamato ad agire. Nasce l’esigenza di riconciliarsi con la precarietà degli eventi, affinché possano leggersi nel segno positivo della creatività, come possibilità di rivedere e rifondare il rapporto con gli altri e con le cose.
    Si può essere punti di riferimento anche nei momenti di smarrimento, testimoniando “l’irrinunciabile fiducia nella possibilità che l’esistere abbia motivazioni grandiose” [53]. Si tratta di imparare ad accogliere anche le parti più fragili della propria persona, e, in virtù di questa tensione sempre viva, accordare i lati tenui con quelli forti. Le fragilità diventano corazze quando non le si è assunte e, di fronte, agli scontri, agli urti della realtà l’educatore più facilmente si abbatte, vive il senso del cedimento; “la tenerezza anima la speranza andando a toccare le parti molle del temperamento e degli affetti, della fiducia in sé e negli altri, della speranza e della resistenza, contro ogni delusione” [54].
    Per poter essere guide educative non bisogna tendere alla perfezione, ma alla coerenza, occorre saper accogliere la propria compiutezza e riconoscersi imperfetti [55] è il richiamo all’autenticità che fa dell’educatore-viandante un “esempio della sua dedizione e devozione personale alla grande causa della ricerca, della verità e della scienza. (…) Il ruolo della guida-battistrada è quello precedere l’educando sul cammino della vita e tracciare un percorso esemplare che egli non deve ripetere pedissequamente, ma ispirarvisi idealmente per costruire la propria irripetibile storia personale” [56].
    La guida, pur tenendo una distanza rispetto all’altro e al gruppo, non smette di ricercare, anzi, è proprio la costanza di un’errare significativo che conferma l’attendibilità del cammino indicato: “Non possiamo mai considerarci «a posto» (…), perché io stesso – educatore – lotto per essere educato. Questa lotta mi conferisce credibilità come educatore; per il fatto che lo sguardo medesimo che si rivolge sull’altra persona insieme è rivolto anche su di me. (…) È proprio il fatto che io lotto per migliorarmi ciò che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro ” [57].
    La sana inquietudine, il desiderio costante di formarsi per formare stimola a «esercitarsi» nella conoscenza profonda del sé: l’educatore-Wanderer è impegnato ad educarsi a segnare i territori esistenziali, a dare nomi ai sentimenti, nel mentre li si «attraversa»; egli è esploratore e geografo del proprio mondo interiore: sa avventurarsi nelle situazioni, sa errare lungo i meridiani e i paralleli dell’esistenza, e attribuire senso, nominare, prendere consapevolezza di ciò che vive. Costruisce in questo modo la sua mappa di riferimento, lasciandola aperta a confronti e ulteriori revisioni, e non si limita a mostrarla o consegnarla agli altri, ma, al contrario, fornisce gli strumenti e sollecita la passione nel costruirne una personale. Per delineare una carta che dica l’esperienza vissuta rafforza per sé e per gli altri la capacità di restare aderente al reale, non stringendo i percorsi formativi in idee, sogni, proposte che possono in qualche modo risultare lontani dalle biografie dei singoli.

    Farsi viandante

    L’educatore-wanderer fa della strada la sua dimora, strada non tanto intesa nella sua fisicità, quanto nella ricchezza di simbolismi, espressioni, significati che racchiude: crede nell’incontro come segno tangibile dell’essere presenza, lambisce i margini con passo leggero, osa percorrere sentieri “dove hanno escluso che si possa trovare qualcosa di buono” [58], sostiene i processi di superamento degli ostacoli, agevola la ripresa dopo i rallentamenti.
    Per questo ciascuna figura educativa prima di essere accompagnatore dell’erranza altrui, non può non sentirsi essa stessa in cammino: nutre la propria capacità di mettersi in gioco e caldeggia per sé, innanzitutto, gli slanci creativi, restando in ascolto della «chiamata» a ripartire. “Farsi viandante è un invito pedagogicamente significativo non soltanto per l’educando, ma anche per l’educatore che dovrebbe in ogni momento sapere imbracciare la sua sacca e ripartire, mettersi in cammino alla ricerca di se stesso, affrontando i pericoli e le disconferme che serpeggiano nel vasto mondo. L’educatore-Wanderer non è mai arrivato, poiché nuovi spazi attendono sempre di essere esplorati (…) occorre diventare «liberi-per-il-viaggio», cioè liberi di percorrere lo spazio dell’erranza sulla Terra e il tempo della vita” [59].
    Tale spirito chiede di essere alimentato da incontri e scambi all’interno di un cammino condiviso con altri educatori, con l’équipe, con il gruppo di lavoro: spesso i contesti educativi divengono sfondo su cui si stagliano traiettorie personali, intersecatesi solo nei momenti di programmazione, in cui il tempo di sosta equivale ad un puro scambio di informazioni. La compartecipazione dei vissuti, la condivisione dei passi che via via si compiono per l’altro e con l’altro, la valorizzazione delle competenze di ciascuno, la «comune» cura che si progetta e si propone, il sentirsi corresponsabili nelle difficoltà e nelle crisi consolidano il camminare con l’altro, diverso dal camminare accanto all’altro o dall’errare isolatamente sullo stesso territorio.
    Non si tratta tanto di una “marcia” che fa più rumore di un cammino isolato, ma di un “pellegrinaggio” comune che potenzia il valore di testimonianza del singolo e il potenziale teoretico e pratico dell’essere-in-cammino. Il cammino condiviso va conquistato e non si esplica in una mera vittoria sull’individualismo e sul protagonismo del singolo: implica l’attenzione al percorso più che alla meta e la valorizzazione dei processi più che dei prodotti.

    Un cammino condiviso

    Pensare al cammino condiviso ci riporta, infatti, non solo ad una «coppia» di persone che percorre la stessa strada; l’immagine che viene alla mente è pure quella di un gruppo, di un insieme di persone, nel quale ciascuno si distingue per un ruolo o una posizione: vi è il battistrada, il precursore, colui che si pone dinanzi e guida, orienta, indica; vi è chi si discosta dalla compagine, ama starsene ai margini; chi devia, esplora, incontra pericoli, in nome di uno spirito avventuriero che lo caratterizza; vi è chi ama soffermarsi sui particolari o perdersi nei propri pensieri; vi è chi si aggrega spontaneamente, chi si avvicina ad altri per simpatia, formando così piccoli sottogruppi; c’è chi si pone in coda per vigilare sul gruppo, per sostenere chi è in difficoltà, per proteggere gli ultimi. Le figure educative sperimentano i diversi posizionamenti porre rispetto al gruppo: davanti perché non venga mai meno il punto di riferimento; in mezzo agli altri perché ci sia possibilità di vivere la semplicità dei gesti di cura: il sorriso, l’ascolto, il dialogo; dietro perché sappia vegliare sui passi dei singoli nel gruppo, con rispetto e discrezione, sapendo sostenerli e lasciarli andare, affiancarsi e guardarli da lontano.
    La maggiore difficoltà vissuta da tutti coloro che accompagnano la crescita educativa dei più giovani sta nella cura da dedicare a tutti e al singolo, nell’impegno verso il gruppo e nell’ascolto particolare rivolto alla persona. L’educatore-wanderer agevola e coltiva il rapporto interpersonale tra i membri del gruppo, nella consapevolezza che esso si pone come anello di congiunzione per un vissuto di unione e solidarietà di ordine più esteso. Il senso della comunità si radica proprio nell’esperienza diretta dell’altro: “L’esperienza feconda della reciprocità è così generosa che grazie a quella mi sento capace di darmi ad ogni prossimo che traversi il mio cammino. È come una speranza che io apro all’amore, una fiducia nella sua ricchezza [60]. Lo spirito comunitario va ricercato e costruito con fatica: considerando le diversità che connotano l’«insieme», occorre trasformare i distacchi tra i singoli in distanze, riempiendo di senso i vuoti di incomprensione e gli inevitabili malintesi. Si tratta non tanto di calare dall’alto “comunanze” e similarità, ma di far sperimentare la crescita che scaturisce dallo scambio tra «realtà» differenti e dal ritrovarsi tutti a condividere la sete di pienezza esistenziale.
    Se, come dice Guardini, “la vita viene destata e accesa solo dalla vita” [61], la responsabilità di “mettere in moto una storia umana e personale” [62] è l’impegno di ogni educatore-wanderer, che vive in prima persona la bellezza della scoperta e la possibilità di farsi spiazzare dall’irruzione dell’esistenza provvidente, oltre ogni programmazione di percorso.

    PREPARANDO LA BISACCIA: SIMBOLI E STRUMENTI DELL’EDUCATORE-VIANDANTE

    Di fronte all’incertezza di non avere strade prefissate l’attenzione viene posta sugli “equipaggiamenti” più efficaci per far fronte all’imprevisto e dar senso alle esperienze che sopraggiungono. In assenza di indicazioni valide per tutti le figure educative si chiedono quali strumenti possono consegnare alle persone di cui si prendono cura. Così come non vi è una mappa effettivamente valida se non è co-costruita e letta assieme a quanti si accingono a riceverla e adoperarla, così non vi può essere una buona attrezzatura di viaggio che non sia preparata in ascolto dei vissuti esperienziali di ciascuno e nell’interscambio continuo con chi condivide il cammino.
    “Di che cosa ho bisogno per realizzare questo intervento educativo?”, “Quale cassetta degli attrezzi posso costruire per far fronte alle sfide formative attuali?”, “Quali sono gli strumenti di cui non riuscirei a fare a meno quando sono con i ragazzi”: sono queste alcune delle domande che tante figure educative si pongono nella loro quotidianità.

    Simboli e realtà

    Solitamente si pensa, dunque, ad una bisaccia da riempire, di un bagaglio da preparare perché non si resti sprovvisti del necessario lungo il cammino. E, molto spesso, gli elementi, i simboli e gli oggetti scelti rappresentano la stessa identità dell’educatore-viandante, i suoi lati in luce, le sue competenze, ma anche le sue fragilità e debolezze.
    Il viandante medievale, così come il pellegrino, portava con sé un bastone, per appoggiarsi nei momenti di stanchezza e per scacciare i pericoli, una borraccia, per potersi abbeverare, un mantello e un largo cappello per potersi riparare. Ma chi si metteva in cammino aveva una sacca di pelle, leggera, piccola e resistente, per ricordarsi dell’essenzialità.
    Ciascuno, quindi, nel compito educativo che è chiamato a svolgere può interrogarsi su quale sia il proprio bastone, ovvero sui propri elementi di sostegno; su quali siano gli strumenti per attingere alle fonti e per attraversare le avversità. Ma soprattutto, in un tempo di iperstimolazioni e ricerca incessante di sicurezze, deve avere il coraggio di lasciare nella propria bisaccia dello spazio vuoto.
    Il viaticum, la bisaccia del viandante, è una sacca leggera, che si apre nei momenti di necessità, e di condivisione o di accoglienza del dono altrui: esso simbolicamente rappresenta tutto ciò di cui ci si arricchisce per via, che si “guadagna” nel viaggio, prendendo ma anche, lasciando.
    Se, infatti, il riempire una bisaccia è sinonimo di sicurezza, lo svuotare è espressione di accoglienza e apertura a quanto si presenta lungo il transito; ma soprattutto lasciar spazio nei propri equipaggiamenti formativi è segno di grande fiducia nell’azione provvidente della Vita e di speranza nelle capacità della persona di auto-trascendere [63]. Dice Etty Hillesum nel suo Diario: “E, come fosse un fagottino, io mi lego sempre più strettamente sulla schiena, e porto sempre più come una cosa mia quel pezzetto di destino che sono in grado di sopportare: con questo fagottino già cammino per le strade” [64]: certo solo del valore della persona e del mistero dell’esistenza, l’educatore viandante si pone in ascolto di sé e formula continuamente il bagaglio coerentemente con i bisogni profondi appresi nella ricerca di sé e nello studio della situazione contingente.
    Ogni equipaggiamento, per quanto affinato sia, non può, quindi, non lasciar spazio a quella speranza che è errante, che “consente all’uomo di camminare sulle strade della vita, di essere uomo: non si può vivere senza sperare! Homo viator, spe erectus: è la speranza che tiene l’uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende capace di futuro” [65].
    “Caratteristica delle anime che non si sono lasciate intorpidire dalla vita” [66], la speranza è quella che estende lo spazio fisico e spirituale della bisaccia, facendo sì che l’educatore-viandante possa trovare strumenti e possibilità importanti anche lì dove ci si sente nudi e impreparati, spogliati di ogni sicurezza e stabilità.
    In un’epoca per cui ad ogni problema o difficoltà sembra sempre che ci sia una soluzione e una “ricetta” immediata, occorre attraversare la paura di lasciare dei vuoti, di restare scoperti e di avvertire mancanze. Spesso rischiamo come educatori di “imbottirci” e appesantirci con una serie di precetti e suggerimenti, che patiscono la precarietà del momento. In un’ottica di “iper-educazione” ci priviamo di quelli spazi di riflessività, creatività e autonomia, così importanti per la crescita personale e di quanti ci circondano.

    Leggerezza e sobrietà

    Oltre, quindi, una serie di strumenti che ciascuno elabora e di cui prende consapevolezza nei percorsi formativi, è da proporre un bagaglio sobrio, che lasci trasparire l’opera di discernimento che sta dietro il processo di liberazione e alleggerimento: vedere ciò che si scarta e ciò che si tiene, valutare le priorità, e ciò invece che può essere in qualche modo omesso, o meglio, affidato.
    Un equipaggiamento leggero offre la possibilità di sentire la fame e la sete che spingono ciascuno a ricercare, a mettersi in cammino, ad accettare la precarietà che è imprevisto, è affermazione del “non so” e del “non posso”, è accettazione del limite.
    Dice Volpi: “Nella logica e nella convinzione che a una società complessa non possiamo che rispondere con un’educazione altrettanto complessa, abbiamo dilatato senza più confini ciò che i bambini devono sapere e saper fare. (…) Non si tratta di tornare alla semplicità, ma di affrontare la complessità con “armi” semplici e fiducia nella persona” [67].
    Forse una preparazione siffatta spiazza e sbaraglia tanti assunti educativi, ma è ciò a cui la strada educa: il decentramento, la capacità di metterci del proprio in ogni situazione, la fecondità degli “strappi” della vita.
    L’educatore-viandante ha da preparare e custodire, una bisaccia leggera, sobria, semi-vuota, strappata, che sa di polvere e di incontri.


    NOTE

    [1] Per approfondimenti si veda A. Augelli, In itinere. Per una pedagogia dell’erranza, Pensa Multimedia, Lecce, 2013.
    [2] Rodari G., La strada che non andava in nessun posto in I cinque libri, Einaudi, Torino, 1993, p. 242.
    [3] F. Nietzsche, Il viandante e la sua ombra, Monanni, Milano, 1927, p. 119.
    [4] D. Demetrio, Filosofia del camminare, Cortina, Milano, 2006, p. 154.
    [5] M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, Milano, Adeplhi, 1995, p. 61.
    [6] V. Iori, Essere per l’educazione, RCS - La Nuova Italia, Firenze, 1988, p. 80.
    [7] P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Ega, Torino, 2002 p. 77.
    [8] L. Mortari, Aver cura della vita della mente, RCS-La Nuova Italia, Milano,2002, p. 118.
    [9] Cfr. E. J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Il Mulino, Bologna, 1992, p.15.
    [10] Idem.
    [11] V. Iori, Nei sentieri dell’esistere. Spazio, tempo e corpo nei processi formativi, Erickson, Trento, 2006, p. 147.
    [12] M. Perniola, Transiti, Castelvecchi, Roma, 1998, pp.16- 17.
    [13] A. Grün, In cammino. Una teologia del peregrinare, Edizioni Messaggero di Sant’Antonio, Padova, 2005 p.13.
    [14] Cfr., F. Ferrarotti, Partire tornare. Viaggiatori e pellegrini alla fine del millennio, Donzelli, Roma, 1999, p.60.
    [15] D. Demetrio, Filosofia del camminare, op. cit, pp.75- 76.
    [16] E. Baccarini, Il pensiero nomade, Cittadella, Assisi, 1994, p. 16.
    [17] Ibidem, p. 5.
    [18] Cfr. M. Callari Galli (a cura di), Nomadismi contemporanei. Rapporti tra comunità locali, stati-nazione e «flussi culturali globali», Guaraldi, Rimini, 2004, p. 13.
    [19] D. Demetrio, Filosofia del camminare, op. cit., p. 79.
    [20] E. Severino, La strada, Rizzoli, Milano, 1983, p. 7.
    [21] L. Rigoliosi, La strada come luogo educativo. Orientamenti pedagogici sul lavoro di strada, Unicopli, Milano, 2000, p. 13.
    [22] S. De Giacinto, L’isola delle parole trasparenti, Vita e Pensiero, Milano, 1983, p. 31.
    [23] Ibidem, p.13.
    [24] Non inteso dal punto di vista delle scienze esatte come luogo in cui si sperimenta una correlazione ipotizzata tra parametri preventivamente stabiliti, come campo per la raccolta e la verifica dei dati, ma come spazio in cui si fa esperienza di alcuni vissuti, si tenta di comprenderli, esprimerli e condividerli, elaborando sapere. per approfondimenti si veda A. Augelli, “Fare laboratorio per apprendere con i ragazzi. Quel che della vita si può comprendere (meglio) attraverso laboratori educativi” in Animazione Sociale n.263 maggio 2012, pp. 88-97.
    [25] R. Solnit, Storia del camminare, Mondadori, Milano, 2000, p. 10.
    [26] M. L. Lorenzetti, Psicologia. Estetica. Narrazione, Metafore e metaforme del cambiamento, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 122.
    [27] D. Cargnello, Alterità e alienità. Introduzione alla fenomenologia antropoanalitica, Feltrinelli, Milano, 1977, p.123. L. Binswanger distingue lo spazio orientativo da quello emotivo, ossia “lo spazio nel quale il Dasein si trova in quanto emotivo, intonato”.
    [28] Dal latino “sub-gerere”, portare sotto, dare silenziosamente, consegnare dabbasso.
    [29] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, op. cit., p. 364.
    [30] V. Iori, Nei sentieri dell’esistere, Spazio, tempo e corpo nei processi educativi, Erickson, Trento, 2006,, p. 118.
    [31] S. Chialà, Parole in cammino, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2006, p. 80.
    [32] Per approfondimenti si veda P.C. Rivoltella, Giovani e percezione del tempo: il punto di vista dell’educazione in G. Ardizzo (a cura di), “L’esilio del tempo. Mondo giovanile e dilatazione del presente”, Meltemi, Roma, 2003, pp. 64-73.
    [33] V. Iori, Nei sentieri dell’esistere, op. cit., p. 121.
    [34] D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Cortina, Milano,1995, p. 10.
    [35] E. Baccarini, Il pensiero nomade, Cittadella, Assisi, 1994, p. 27.
    [36] Cfr. G. Marcel, Homo viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, Edizioni Borla, Parigi, 1980, pp. 64-65.
    [37] E. Baccarini, Il pensiero nomade, op. cit., p. 48.
    [38] Idem.
    [39] L. Mortari, Un metodo a-metodico, La pratica della ricerca in Maria Zambrano, Liguori, Napoli, 2006, p. 11.
    [40] D. Cargnello, Alterità e alienità. Introduzione alla fenomenologia antropoanalitica, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 110.
    [41] R. Solnit, Storia del camminare, Mondadori, Milano, 2000, p. 5.
    [42] Ibidem, p. 109.
    [43] D. Thoreau, Camminare, SE, Milano, 1989, pp. 14-15.
    [44] S. Chialà, Parole in cammino, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2006, p. 68.
    [45] R. Bodei, I sensi e la filosofia, Intervista del 03/07/1991, in RaiEducational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.emsf.rai.it/scripts/interviste.asp.
    [46] R. Bodei, I sensi e la filosofia, ibidem.
    [47] Ibidem, p. 17.
    [48] La strada (1954), Regia di Federico Fellini, Prodotto da D.De Laurenis e C.Ponti; con Anthony Quinn, Giulietta Masina, Richard Basehart.
    [49] Cfr. P. Bertoli, Fare l’operatore di strada: tra missione e professione in AA.VV., “Acrobati senza rete”, Franco Angeli, Milano, 2004, p. 14.
    [50] V. Iori, Lo spazio vissuto, op.cit., p. 72.
    [51] Ibidem, p. 83.
    [52] M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 106.
    [53] E. Musi, Concepire la nascita, L’esperienza generativa in prospettiva pedagogica, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 222.
    [54] M. Filippini, La responsabilità del sentire intenerito, in V. Iori (a cura di), “Quando i sentimenti interrogano l’esistenza”, Guerini, Milano, 2006, p. 341.
    [55] Si veda S. Tramma, L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Carocci, Roma, 2003.
    [56] D. Bruzzone, Ricerca di senso e cura dell’esistenza. Il contributo di Viktor E. Frankl a una pedagogia fenomenologico-esistenziale, Erickson, Trento, 2007, op. cit, pp. 130-131.
    [57] R. Guardini, Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia, 1987, p. 222
    [58] Cfr. P. Bertoli, Fare l’operatore di strada: tra missione e professione in AA.VV., “Acrobati senza rete”, op. cit., p. 16.
    [59] V. Iori, Lo spazio vissuto, Luoghi educativi e soggettività, La Nuova Italia, Firenze, 1996, p. 250.
    [60] E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, Edizioni di Comunità, Milano, 1949, p. 109. A tal proposito, ne Il personalismo, lo stesso Mounier aggiunge: “Ogni qual volta si invocano delle società «all’altezza dell’uomo», «a misura d’uomo», ci si chiede: su quali proporzioni è fatto l’uomo? Su quelle dei giardini di periferia e dei dintorni di quartiere, oppure dell’universo e della storia? Colui che esplora milioni di chilometri sopra il suo capo e millesimi di millimetri sotto l’arco delle sue mani, colui che è chiamato ad interpretare e fare la storia universale, non va misurato dall’ampiezza del suo passo. Egli può trovare difficoltà a raggruppare l’umanità sotto masse imponenti; deve fare esperienza viva dell’umanità entro società a raggio ristretto”, op. cit, p. 65.
    [61] R. Guardini, Persona e libertà, op. cit., p. 222.
    [62] Idem.
    [63] Dice G. Marcel: “La speranza è atto d’un pensiero d’amore che trascende il fatto” in Homo viator, op. cit, p. 77.
    [64] E. Hillesum, Diario, Edizione integrale, Adelphi, Milano, 2012, p. 707.
    [65] E. Bianchi, Parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Rizzoli, Milano, 1999, p. 163.
    [66] Ibidem, p. 62.
    [67] R. Volpi, Liberiamo i bambini. Più figli, meno ansie, Donzelli, Roma, 2004, p. 78.


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