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    Erranza e processi educativi /1. Un nuovo paradigma per l’educazione?



    In cammino con i ragazzi /1

    Alessandra Augelli [1]

    (NPG 2012-01-22)


    La riflessione pedagogica sull’erranza che si propone in queste pagine intende partire da una lettura della realtà odierna, per ridare luce a nuclei di significato mai tramontati e sollecitare nuovi orientamenti per l’agire educativo. Una tale analisi è particolarmente feconda in quei momenti in cui la trasformazione irrompe nella realtà creando disorientamento. La capacità di stare nel cambiamento e di accompagnarlo risulta necessaria da consolidare nei ragazzi e nelle figure educative che sono al loro fianco.[2]
    Il presente contributo inaugura una serie di approfondimenti che riportano l’attenzione sull’età preadolescenziale come tempo in cui il passaggio si affaccia con particolare intensità nell’esperienza di ciascuno. Se è vero, infatti, che le trasformazioni sono incessanti e molteplici nel corso dell’esistenza, alcune segnano in modo peculiare, poiché coinvolgono la persona su più fronti contemporaneamente. Far luce sulla preadolescenza e sulle dimensioni ad essa connesse significa, dunque, da un lato restituire attenzione e lentezza a tale tempo in un’epoca in cui la velocità sembra volerlo sbiadire e lasciarlo estinguere, dall’altro continuare a fornire chiavi di lettura agli adulti che, presi a loro volta da un incessante flusso di mutamenti, rischiano di non avere coordinate stabili e risposte puntuali.

    Una metafora viva nel contesto attuale

    Ci sono immagini che resistono al tempo e accomunano culture, fornendo un orizzonte di senso entro cui la persona può comprendere le sue esperienze e viverle meglio. Una di queste è senza dubbio quella del cammino, come trama di significati particolarmente capace di narrare la crescita della persona. «L’educazione se vuole ancora parlare e dire qualcosa all’uomo postmoderno deve contemplare nell’inventario delle sue metafore vive la figura del viandante».[3]
    Vi sono diversi modi di essere per via: al passeggiare si alterna il camminare celere e frettoloso, o la corsa spasmodica e irregolare, o ancora il dirigersi cadenzato di un viaggiatore perfettamente organizzato. Queste modalità ci appartengono tutte: ogni persona sperimenta nei diversi momenti della sua esistenza il passo lento e incerto del mettersi in cammino, l’andatura attenta e rilassata di una passeggiata, l’affanno di una corsa. È indubbio, però, che in alcuni periodi storici un dato «portamento» prevalga sull’altro e si leghi più coerentemente con lo stile di vita e l’attitudine del tempo, anche se tutti gli altri permangono tacitamente.
    Come «camminiamo» oggi? Da quali dimensioni è caratterizzato il nostro procedere sui sentieri dell’esistenza? Come sono i nostri passi? Questi interrogativi risultano di fondamentale importanza per soffermarci sul vissuto degli educatori, dei genitori, degli insegnanti che si riscoprono perennemente in cammino, e per comprendere in che modo il procedere dei preadolescenti, inserendosi in tale scenario, possa risentire di stili e andature oggigiorno diffuse.
    Passi incerti caratterizzano i percorsi di molte persone: i punti di riferimento noti sembrano offuscarsi e diradarsi, fino a dissolversi del tutto. Ogni avanzare è accompagnato da un possibile indietreggiare, ogni piccola scelta è associata a continui ripensamenti. Nell’incertezza diffusa e capillare dei giovani come degli adulti, pare si cammini su un «tapis roulant», su un mondo che gira continuamente; vi è la sensazione di muoversi, sudare, stancarsi, ma in realtà si rischia di essere allo stesso punto di partenza, senza essere in effetti cambiati, senza aver visto e sperimentato realmente nulla. Il vissuto dell’insicurezza può divenire anche alibi per non scendere nella realtà e fare delle scelte concrete. La capacità decisionale è messa a dura prova e sempre più difficilmente ci si sente pronti ad assumere rischi e responsabilità del proprio agire.[4]
    All’incertezza si affianca la velocità e la liquidità: per i valori e le virtù, per le leggi e le istituzioni così come per le relazioni interpersonali vige la regola del «tutto passa». Ogni traccia è soggetta a cambiamento, le realtà significative private del loro significato originario perdono consistenza e spessore. «All’incertezza del futuro – secondo cui la storia umana è e rimane un’avventura ignota – si aggiungono tutte le incertezze dovute alla velocità e all’accelerazione dei processi complessi e aleatori della nostra era».[5] Viene ad indebolirsi così il senso del rapporto con l’altro, tende a sfilacciarsi la trama di relazioni creata: il cammino di vita si prefigura come una serie di piccole tappe; la persona rinuncia a fissare mete troppo lontane, non si ferma mai a lungo, tenta di non legarsi emotivamente alle persone incontrate.[6]
    I percorsi attuali risultano, quindi, privi di linearità e particolarmente complessi: la persona è chiamata a muoversi su più piani, a rispondere ad appartenenze multiple e a riconnettere continuamente dimensioni differenti di sé.[7] Immersi in una cultura dicotomica si fatica ad armonizzare diverse parti di sé: mente e cuore, persona e comunità, pensiero e azione sono scisse, lontane; si rischia di sentirsi interiormente divisi [8] e esternamente confusi.
    Complice la necessità di ottimizzare i tempi, di contenere la facile dispersione delle energie e di restringere ciò che è vago, si vive un cammino stimolato dall’utile, in cui la meta corrisponde sempre più ad un prodotto identificabile. I passi sono sempre più ponderati, calcolati, misurati rispetto al fare. Un sottile senso di colpa affligge coloro che si concedono a spazi e tempi di riflessività e di cura di sé: i territori della spiritualità, del pensiero, del gratuito rischiano di essere vissuti come imponderabili e quindi inutili, vuoti. Quando viene meno così il senso critico e la possibilità di personalizzare il proprio percorso, ci si abbandona al flusso indistinto della maggioranza. Godiamo di una maggiore libertà di movimento e di azione, ma ci ritroviamo spesso chiusi in iter prestabiliti. Lo stesso viaggio è dettato da logiche standardizzate, da andature omologate, dove si riescono a far valere poco l’ispirazione personale e la creatività. Ne viene accentuato il senso di fragilità della persona, e persino di frustrazione.
    Passi stanchi, deboli quelli di molte persone che si muovono prive di speranza, di futuro e che perdono con facilità il senso stesso del loro andare. Così tracce troppo leggere vengono lasciate dietro di sé, con il pericolo di creare ulteriore incertezza e disorientamento nelle generazioni future.
    L’erranza rappresenta la modalità di camminare che riassume molte delle caratteristiche odierne qui tratteggiate e, al contempo, ne rilancia alcune sotto forma di sfida e di provocazione. L’errante procede in modo frammentato e vago, è spesso privo di meta, libero e incerto, poco incline alla stabilità. Il viandante riesce, allo stesso tempo, a sottrarsi ai percorsi noti e a sperimentare nuovi sentieri, a tracciare la strada camminando, ad inventarsi via via metodi originali per lasciare segni del suo andare. L’immagine dell’erranza risulta particolarmente eloquente, dunque, non solo perché permette agli adulti, ai giovani e ai ragazzi di rispecchiarsi e rivedersi in essa, ma anche perché indica un possibile modo di essere-in-cammino capace di valorizzare potenzialità e risorse proprie dello scenario attuale.
    Essa è – riteniamo – una nuova preziosa chiave di lettura, capace di tenere insieme bisogni originari e priorità emergenti.

    Tensione all’equilibrio o ricerca di senso?

    Soprattutto nei momenti in cui la condizione itinerante si esprime con più forza e i vissuti di fatica e disorientamento diventano più intensi, emerge con evidenza il perenne contrasto tra la stabilità e il movimento, la permanenza e il cambiamento, la sicurezza e l’instabilità. Quando prevale la stasi, la persona si ferma, si acquieta, ma lo «slancio vitale», di bergsoniana memoria, non smette di provocare e di spingere al cammino. Quando, poi, predomina il moto incessante, si desidera e si aspira a trovare un assetto stabile. Ricerca delle radici e distacco, separazioni e ricongiunzioni sembrano far parte di un unico modo di essere al mondo ove si aspira alla permanenza delle relazioni, ma se ne assapora anche la precarietà; si chiede continuità, ma al contempo si mina ciò che è troppo stabile.[9]
    La dialettica tra essere e divenire, tra stasi e cambiamento da sempre abita la storia e l’animo umano. Filosofi, poeti e letterati nel tempo hanno evidenziato ora l’uno ora l’altro aspetto. Ma si può davvero trovare una conciliazione? Di che natura può essere l’equilibrio tanto cercato?
    Il rischio più ricorrente nei tempi di grande trasformazione è quello di irrigidirsi in blocchi monolitici e aspirare ad equilibri statici, che facilmente però possono essere messi in crisi. Ipotizzando una condizione iniziale di stasi, gli sforzi sono indirizzati a limitare i cambiamenti troppo rilevanti o a bilanciare forze contrapposte. Se si ritiene che «la nostra natura umana è nel movimento»,[10] ci si orienta al raggiungimento di equilibri dinamici, ad un’armonia tra diverse dimensioni del proprio andare. In questo caso, pur di fronte ad impedimenti o forzature, la persona cerca di orientarsi rispetto ad un punto o a una direzione, affinando la ricerca di senso.
    La vita di ciascuno è trasformazione, ma questa può divenire povera se è fine a se stessa, se non se ne riconosce un’intenzionalità («in relazione a chi/cosa»), una direzione («verso dove»), una progettualità («in vista di»).
    Il processo di crescita si costella di soste e avanzamenti, concatenati e interagenti l’un l’altro: l’azione educativa è volta a far cogliere ciò che è nel movimento e ciò che si muove nella stasi.
    Cambiare è cifra essenziale dell’educazione: lo sguardo pedagogico è volto a disvelare le forme inautentiche di cambiamento che intendono proporsi come tali soltanto perché vestono i panni del diverso, dell’innovativo, e hanno spazzato via ogni legame con la tradizione e ogni espressione di memoria. Si tratta di rispondere con un «impegno di formazione, un’opera di guida, di accompagnamento, di interpretazione attiva, di lettura della realtà contemporanea aperta e in movimento».[11] Compito educativo prioritario non è dunque quello di appiattire le ambivalenze, spianare i terreni dissestati, evitare turbolenze e annullare le dissonanze, ma di sostenere i più giovani nel loro essere-tra un bisogno di riconoscimento e identificazione e l’esigenza di distanza e differenziazione. In questo senso l’erranza educativa può diventare espressione piena di quella ricerca di senso che si muove non linearmente, ma su vie mutevoli e multiformi e che richiama alla riflessività, stimolando a costruire e a personalizzare il proprio percorso. Solo così l’errare non risulta vano, ma aiuta a prendere consapevolezza del desiderio di una vita piena rispetto al rischio di dispersione.

    L’educazione errante

    Di fronte all’alterazione o alla frammentazione dei sistemi di riferimento la persona può vivere il vuoto come momento di crescita, il proprio essere-in-bilico come spazio in cui lasciar germinare gli interrogativi e, con maggiore intensità, ricercare il significato di quello che gli accade nella vita. Se è vero, come dice De Giacinto, che «il giovane vuole riappropriarsi del mondo, non ereditarlo», occorre rafforzare la fiducia nei ragazzi perché riescano a ricercare e consolidare un senso proprio, sapendo dubitare di ciò che viene imposto, ma restando aperti a suggerimenti, indicazioni, proposte che vengono dagli altri. L’instabilità e il disequilibrio possono essere proficui quando in essi trova espressione il «risveglio a un problema, presa di coscienza non solo intellettuale, ma anche etica ed estetica»12. «Ogni certezza è religiosa nel senso etimologico del termine, perché salda assieme le cose»13; ogni incertezza può ampliare spazi di esperienza in cui esercitare la propria libertà di «creare legami», può aprire orizzonti in cui scegliere, con maggiore adesione, valori e punti di riferimento.
    Il tratto caratteristico della nostra epoca è di una sostanziale condivisione di vissuti di incertezza e precarietà, dove gli stessi adulti fanno fatica a trovare risposte per se stessi e per i più giovani. Tramontata l’idea di formazione come processo di adesione ad una forma precostituita, ad una struttura di sé uniforme e standardizzata, si tratta di reinventare un paradigma educativo che tenga assieme l’emergere della persona – con le caratteristiche di unicità, di imprevisto, di eccedenza rispetto agli schemi – e il suo immettersi in un terreno di significati condivisi.
    Senza rinunciare alla necessità di trasmettere e insegnare14, l’erranza educativa, facendo propria l’esigenza di continuità e di coerenza, sottolinea la necessaria rifondazione di autentici legami – legami di senso, di valore, di relazione – che tengano assieme gli eventi che si susseguono nella vita di ciascuno nella divergenza e difformità con cui si presentano. La proposta di un’educazione errante diviene preziosa, come si è visto, in un tempo in cui è più facile vedere il frammento come parte di un mondo in frantumi e non come pezzetto di un mosaico da ricomporre, come traccia di un sentiero da costruire.
    L’immagine di erranza che si affaccia nell’orizzonte educativo non è, quindi, espressione di fuga e di evasione, non sostiene atteggiamenti di lassismo e di deresponsabilizzazione. Si fa invece portavoce di un’istanza di personalizzazione dei percorsi formativi propria di una condizione storica e sociale in cui non si può procedere ricalcando modelli antichi e replicando percorsi noti. Il viandante, infatti, è chiamato a rifondare, a ricreare, a fare la strada camminando, vivendo l’essere-nel-mondo e l’essere-con gli altri come occasione per interrogarsi e per dar senso alle cose, facendo alla fine del suo percorso un creativo e motivato essere-per gli altri. Riconosce, quindi, il valore della compagnia e della scoperta, poiché fa della sua vita un incessante essere-in-ricerca. Non rifiuta a priori l’esigenza e la bellezza di «far casa», di abitare un luogo, ma cresce nella consapevolezza di sé, innanzitutto «abitandosi», stando bene in propria presenza, conoscendo pensieri, emozioni, desideri e attese.
    L’educazione si pone da sempre su un terreno connotato dal rischio, dalla precarietà, dall’errore, dove stanno insieme luci e ombre, dove ciò che si crede conquistato e fissato può essere facilmente in discussione; ha però continuato a muoversi su queste vie, facendo della possibilità la sua ricchezza e del senso il suo motivo.


    NOTE

    [1] Dottore di ricerca in Pedagogia, Docente di laboratorio, Università Cattolica, Milano.
    [2] Si veda A. Augelli, Erranze. Attraversare la preadolescenza, Franco Angeli, Milano, 2011.
    [3] A. Valleriani (a cura di), Il viandante e la sua strada, Andromeda, Ancona, 1997, p.91- 92.
    [4] Per approfondimenti si veda AA.VV, Relazione educativa ed educazione alla scelta nella società dell’incertezza, XLVI Convegno di Scholè, La Scuola, Brescia, 2008.
    [5] E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina, Milano, 2001, p. 82.
    [6] Cf Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 38.
    [7] Interessante a tal proposito il concetto di «poligamia di luogo» (Beck, 1997) in M. Rampazi, Storie di normale incertezza. Le sfide dell’identità nella società del rischio, Led, Milano, 2009.
    [8] C. Lasch, L’io minimo: la mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti , Feltrinelli, Milano, 2004; R. D. Laing, L’io diviso: studio di psichiatria esistenziale, Einaudi, Torino, 2001.
    [9] Cf Maffessoli, Il nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, Franco Angeli, Milano, 2000, p.82.
    [10] B. Pascal, Pensieri, n. 77.
    [11] S. Tramma, Educazione e modernità. La pedagogia e i dilemmi della contemporaneità, Carocci, Roma, 2005, p. 97.


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