Educare alla Costituzione /12
Raffaele Mantegazza
(NPG 2012-01-70)
Il 12 e 13 maggio 2010 si sono svolte le elezioni degli organi di rappresentanza degli studenti e delle studentesse nelle università italiane: Qui riportiamo i dati relativi all’affluenza in alcune sedi: Firenze 3,5%, Roma-Sapienza 6%, Cagliari 7%, Bergamo 3,2%, Milano-Statale 7%, Enna 33%.
Di fronte allo straordinario dato dell’Università di Enna, il presidente dell’Ateneo Cataldo Salerno ha commentato: «I nostri studenti hanno espresso un’altissima partecipazione al voto perché esprimono durante tutto l’anno un’altissima partecipazione alle attività didattiche. Lezioni ed elezioni vanno di pari passo».
A parte l’amarissima constatazione del fatto che si considera eccezionale (e in effetti lo è) un’affluenza alle urne che vede più di 7 studenti su 10 disertare le urne, occorre però far notare come il legame tra lezioni ed elezioni sia tutt’altro che poco significativo. Evidentemente in un Ateneo nel quale i ragazzi e le ragazze si sentono realmente accolti e protagonisti della quotidianità educativa, essi ed esse sono più stimolati ad accedere, come elettorato attivo e passivo, alle elezioni dei loro rappresentanti nelle strutture dell’Ateneo. Una rappresentanza che la Legge Gelmini in realtà ridimensiona (come peraltro fa anche nei confronti della presenza dei docenti e soprattutto dei ricercatori negli organi di governo dell’Università).
Dunque sembra di capire che la democrazia a scuola non passa unicamente attraverso il dato formale della partecipazione alle urne, ma attraverso il fatto sostanziale di un coinvolgimento diretto dei ragazzi e delle ragazze nel campo della didattica quotidiana. I decreti delegati, gli organi di partecipazione dei ragazzi alla vita della scuola, hanno saputo sottolineare, senza confusione di ruoli, il carattere comune dell’impresa di guidare e gestire una scuola.
È demagogico dire che un ragazzo di sedici anni sa gestire i fondi della scuola meglio del Dirigente Scolastico; è democratico prevedere che il Dirigente renda conto della gestione dei fondi a un organo nel quale sono rappresentati anche i ragazzi; è educativo prevedere che le proposte dei giovani a proposito della gestione dei fondi siano prese in carico, analizzate, accettate se interessanti e rifiutate con motivazione se ritenute inapplicabili. Il corsivo non è casuale: è ridicolo chiedere ai ragazzi di saper argomentare le loro scelte se gli adulti sono i primi a non motivare i loro rifiuti nei confronti delle richieste dei giovani.
Ricordiamo il caso di un liceo milanese, assurto agli onori della stampa, nel quale, il giorno dell’esposizione dei cartelloni con i risultati degli scrutini, i ragazzi di una classe esposero i loro voti al loro docenti; ci fu scalpore e critica, ma ci fu anche chi capì che i ragazzi pretendevano dai loro docenti coerenza rispetto alle premesse dell’attività educativa e alle promesse quotidianamente fatte in classe; i ragazzi non chiedevano il diritto di valutare i loro professori ma chiedevano che diritto avesse di valutarli il docente che arrivava in classe regolarmente con 30 minuti di ritardo, li umiliava, non correggeva mai i compiti in classe entro la data promessa.
In ascolto di tutti
Ma al di là del caso universitario e scolastico, ci sembra che la questione sia di carattere generale. Occorre infatti essere molto critici nei confronti delle analisi che parlano di un massiccio ritorno delle masse alla passione per la politica: se è vero che le elezioni politiche del 2006 hanno fatto registrare un record di affluenza alle urne, occorre anche ricordare che la campagna elettorale che le ha precedute è stata forse la più povera del dopoguerra quanto a programmi, progetti per un Paese nuovo, dibattiti sulla reale sostanza dei problemi, tutta giocata invece sulla contrapposizione personale tra i leaders nelle arene televisive più o meno ufficiali.
Forse le elezioni del 2006 hanno costituito il punto più basso dello svuotamento di senso dei luoghi tradizionali e popolari della politica (le piazze, le sezioni di partito, le aule consiliari, i luoghi di aggregazione fisica e corporea dei soggetti), e la partecipazione della popolazione alla campagna elettorale ha ricordato per lunghi tratti gli scontri verbali tra le tifoserie prima dell’inizio di un derby.
Ovviamente la politica vissuta a livello popolare ha sempre incrociato le dimensioni del goliardismo o dello scherno fino ad arrivare alla violenza verbale; ma quando queste dimensioni costituiscono l’essenziale della discussione, quando si arriva per settimane a contrapporre la «mortadella democristiana» al «nano piduista pelato», i «comunisti che vogliono i transessuali al potere» ai «servi sciocchi del duce di Arcore» e solo sulla base di queste rappresentazioni prepuberali decine di migliaia di persone scelgono i propri rappresentanti in Parlamento, allora c’è qualcosa di sbagliato al nucleo del discorso politico e del modo in cui la politica viene presentata soprattutto dai giovani; c’è una formazione all’anti-politica e alla politica-spettacolo che non è smentita ma semmai confermata dalle percentuali di affluenza, trattate demoscopicamente come fossero indicatori di share di una trasmissione di successo.
Dunque, i giovani partecipano alla vita politica se sentono che questa loro partecipazione è reale e non fittizia, e che quotidianamente, non solo in tempo di elezioni, anche la popolazione più giovane viene interpellata a proposito dei problemi generali e specifici e si tiene conto della loro idea. La partecipazione infatti deve passare necessariamente attraverso la percezione del fatto che la propria opinione conta, viene presa in considerazione.
E inoltre la partecipazione deve prevedere anche lo sviluppo di una capacità progettuale; non basta, anche se è utile, insegnare ai ragazzi a scrivere una lettera al Sindaco, soprattutto se poi questo non si degna di rispondere a meno che non si sia in campagna elettorale; occorre che i ragazzi e le ragazze facciano un esercizio di immaginazione, di progettazione della città, del paese e del quartiere, cerchino soluzioni per i problemi che incontrano tutti i giorni.
Si ha un bel dire che «la città è di tutti» ma se i ragazzi e le ragazze vedono continuamente i loro bisogni ignorati dalle Amministrazioni Locali è difficile che essi possano sentirsi rappresentati e soprattutto che possano veramente partecipare alla vita pubblica. Quando un gruppo di adolescenti chiede spazi di aggregazione e si sente continuamente ripetere che «le priorità sono altre» si ha un bel lamentarsi poi del fatto che i ragazzi si disinteressano di politica. Lenin disse provocatoriamente che una cuoca doveva saper reggere lo Stato; non voleva certo dire che la politica non necessita di competenze specifiche, ma che queste competenze non devono diventare mestiere ma possono e devono essere insegnate a tutti e a tutte. Saper leggere un Pgt (Piano di Governo del Territorio), lo strumento che ha sostituito il Prg (Piano regolatore generale), è certamente difficile; saper studiare la mappa del proprio territorio identificando le aree verdi, le zone destinate a insediamenti produttivi, le zone abitative è più facile, soprattutto se al termine di questa operazione si chiede ai giovani di ipotizzare cambiamenti o critiche: ha senso costruire un condominio in una zona che non è servita dalle fognature? Il verde è sufficiente, eccessivo, scarso? Che senso hanno quelle strane statue che sono da poco state posizionate di fronte al Municipio? E il traffico in Via Verdi, come possiamo risolverlo?
La fatica e la gioia della partecipazione
Attenzione: non stiamo proponendo l’idea demagogica secondo la quale i ragazzi saprebbero risolvere questi problemi (anche se siamo del tutto convinti che attorno all’ubicazione di un campo di calcio o all’arredo di una sala prove per la musica qualche idea l’avrebbero, forse più aggiornata di quelle dell’Assessore ultra-settantenne), ma stiamo parlando dell’attivazione di una mentalità osservativa, critica e progettuale rispetto al proprio territorio, che nell’ottica del «pensare localmente, agire globalmente» può portare i giovani a una maggiore consapevolezza della complessità del rapporto tra locale e globale.
Altre esperienze però hanno carattere specificatamente pedagogico, di educazione alla partecipazione. Pensiamo ad esempio ai consigli comunali dei ragazzi e delle ragazze, che hanno un senso pedagogico e politico soprattutto se rimandano all’autenticità dell’esperienza originaria, nata in Francia nel 1979 nel piccolo borgo di Schiltinheim e tesa a far provare ai ragazzi e ai bambini la fatica e la gioia della democrazia, due dimensioni che in uno stato civile non vanno mai disgiunte e si presentano, non solo nel giorno delle elezioni, sempre fianco a fianco.[1]
Si tratta di una di quelle esperienze che si collocano sulla cerniera tra educazione e politica, per cui non possono semplicemente essere poste in atto e lasciate a se stesse, ma devono essere implementate e continuamente monitorate da adulti; la collaborazione delle scuole in questo senso è del tutto vitale, ma non può costituire per l’Amministrazione l’alibi per disinteressarsi di quanto accade all’interno di questi Consigli.
Un esempio: nessuno può chiedere a un cittadino perché ha votato per un determinato Sindaco (o meglio, lo può fare, ma per pura curiosità); invece è pedagogicamente interessante capire per quali motivi è stato scelto il Sindaco del Consiglio Comunale dei Ragazzi: ricordiamoci che stiamo parlando di educazione alla democrazia, e non rischiamo mosse di tipo demagogico.
Lasciamo crescere la democrazia, sapendo che la democrazia è di tutti ma che il compito di educare alla democrazia è essenzialmente un compito adulto.
NOTE
[1] Cf Giulio Ameglio, Claudio Caffarena, I consigli comunali dei ragazzi come stimolo per la partecipazione dei giovani, Roma, Erikson 1979.