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    Adolescenza e volontà di significato


    Giovani alla ricerca di senso /1

    Antonella Arioli

    (NPG 2016-01-41)


    “Sono tanti anni che insegno… Dalla mia esperienza posso dire una cosa: i ragazzi e le ragazze di oggi è vero che sono più fragili e insicuri, ma c’è dell’altro. Vogliono qualcosa che li interessi, per sentirsi «vivi». Credo che questa sia la sfida più grande per noi educatori, almeno per me: aiutarli a trovare questo “qualcosa”, senza cadere nell’errore di sostituirci alla loro ricerca, (magari imponendogli quello che è motivante per noi). Con questo intendo dire che non sempre hanno dei problemi o dei disagi psichici (oggi, per qualsiasi cosa, si chiama lo psicologo!). Dietro al loro «ciondolare», alla loro indifferenza, spesso c’è il fatto che vorrebbero impegnarsi per qualcosa, ma non sanno in che direzione andare. Hanno un sacco di energia che non viene utilizzata… Noi dobbiamo orientarli, ecco. Dobbiamo aiutarli a scovare, a non stancarsi di cercare…”

    Le parole di questa insegnante, incontrata qualche tempo fa in un corso di formazione, sono assai eloquenti. Da una parte, tratteggiano il profilo di un adolescente che, al di là delle fragilità e delle insicurezze, è permeato dalla voglia di impegnarsi in «qualcosa». Un desiderio, questo, che sovente rimane nell’ombra, e che gli adulti (genitori, insegnanti, educatori) faticano a riconoscere e a portare alla luce. Dall’altra parte, quelle parole chiamano in causa il mondo adulto e la sfida che interpella l’educazione: quella di sostenere i ragazzi nella ricerca di questo «qualcosa», resistendo alla tentazione di intralciare il loro cammino verso la scoperta dei «propri» significati. È quanto dice, a ben vedere, anche Martin Heidegger [1] quando parla della cura inautentica: quella che domina e si sostituisce all’altro. A seguire, nei prossimi paragrafi verranno affrontate alcune tra le molte questioni sollevate dalla «nostra» insegnante.

    “C’è dell’altro...”: la volontà di trovare un significato

    Gli adolescenti di oggi, in diversi frangenti, mettono in luce il «bisogno di» qualcosa: di aver una ragazzo/a; di essere popolari nel gruppo di amici; di superare le incomprensioni con i genitori; di non fare nulla; di divertirsi; di mettersi in mostra… e altro potremmo aggiungere. Dei loro bisogni ne veniamo a conoscenza in vari modi: o in incontri estemporanei e casuali; o nelle aule scolastiche; oppure in dialoghi voluti e ricercati, che avvengono in contesti più strutturati (come quello dello sportello scolastico, solitamente denominato di counselling) oppure, se la situazione è più complessa, in un percorso psicoterapeutico. Tuttavia, al di là dello scenario nel quale li si incontra, sembra che ai nostri ragazzi manchino le parole per esprimere dell’altro: il «desiderio per» qualcosa (per una ragione che li faccia alzare al mattino; che li motivi a impegnarsi; che li sorregga davanti alle frustrazioni; che canalizzi le loro tante energie). Qualcosa che costituisca un scopo, insomma: un compito concreto da portare avanti, in prima persona. Dietro ad un problema - esplicitabile e dicibile – con la famiglia (“I miei non mi fanno uscire”; “Con mia madre non parlo”; “Mi hanno tolto il cellulare...”), con la scuola (“Che ci vado a fare? Quello che facciamo è inutile...”; “Con i prof. non c’è dialogo...”), con il gruppo dei pari e/o con la/il fidanzata/o, si intuisce che «c’è dell’altro»: e lo sentono, per primi, i ragazzi stessi. Essi avvertono una insidiosa inquietudine: “Non so bene cosa c’è... è che non sono soddisfatto/a”; “Sento che c’è qualcosa che non va... sono giù”; “Non ho voglia di fare niente, e non me ne frega niente di niente...”. Un’esigenza confusa, dunque, dai contorni non ben definiti, che si manifesta come «senso di insoddisfazione»; «sentimento di vuoto». Ma questo vissuto è, al tempo stesso, qualcosa di molto prezioso, che «ci parla», poiché di fatto testimonia la presenza della “volontà di significato” [2], così come la definisce lo psichiatra viennese Viktor Frankl, fondatore della Logoterapia e Analisi Esistenziale. Si tratta della motivazione «sui generis» dell’uomo a trovare e a realizzare uno scopo. Oltre ai bisogni bio-psico-relazionali (certamente importanti nella fase adolescenziale) «c’è dell’altro», come ha ben intuito l’insegnante di prima: l’esigenza – propria di ciascun essere umano, nessuno escluso – di dare un senso a ciò che vive. In particolare, “la questione che si riferisce al senso della vita è così importante e così radicale che talora può sopraffarci. Ciò accade sovente all’epoca della pubertà, nel periodo in cui più viva si presenta all’adolescente la problematicità dell’esistenza, mentre matura spiritualmente e spiritualmente si tortura.” [3] Sono gli adolescenti, dunque, che avvertono più intensamente – anche se spesso oscuramente – l’urgenza di trovare un senso concreto, specifico e personale rispetto a quanto vivono. Non si accontentano più dei significati trasmessi dagli adulti: essi intendono individuare i «propri» significati, quali bussole interiori per orientarsi nel mondo.

    “Sentirsi vivi...”: dal «bisogno di» qualcosa al «desiderio per» qualcosa

    Ma cosa intendiamo con «esigenza di senso»? Se parliamo con i nostri ragazzi, ci rendiamo conto che essi avvertono non solo (o non tanto) il bisogno di interrogarsi sul «perché» delle cose (sulle cause) quanto, piuttosto, il desiderio di intuire un «per-che-cosa» o un «per-chi» vivere e impegnarsi. In altri termini, sentono l’esigenza di individuare che cosa li attragga, che cosa li «tiri dal davanti». Mentre il «bisogno di» risalire alle cause costringe a guardare al passato (alle mancanze, agli errori, alle cose non fatte, a ciò che non ha funzionato...), il «desiderio per» qualcosa (per una esperienza da compiere, per un’opera da completare, per una persona da amare o, come direbbe Frankl, per un Dio da servire) orienta lo sguardo dei giovani al futuro: alle risorse, a ciò che si può costruire. Ed è proprio la voglia di dirigere lo sguardo al futuro che essi avvertono, più o meno chiaramente, dentro di sé. Un futuro che oscilla tra la minaccia e la promessa (“Vorrei fare qualcosa, ma cosa? Ho paura di fare scelte sbagliate...”; “Non so cosa farò tra qualche anno, so solo che vorrei sentirmi utile a qualcuno...”). E percepiscono, nel contempo, la necessità di «sapere che cosa guardare»: di individuare verso che cosa e verso chi orientare lo sguardo. L’inquietudine, infatti, può trasformasi in angoscia quando al bisogno di realizzare qualcosa (e di realizzar-si in qualcosa) non corrisponde il desiderio per uno scopo concreto, capace di canalizzare le energie. Questo ci porta a differenziare il «bisogno» dal «desiderio». Mentre il primo è riducibile a uno stimolo che spinge verso alcuni comportamenti, con l’obiettivo prioritario di compensare una mancanza o di colmare una lacuna (in un’ottica «riparativa»), il desiderio non riguarda qualcosa che «spinge da dietro», bensì qualcosa che «attrae da davanti»: ovvero, una pro-tensione verso qualcosa o qualcuno che sta al di là di se stessi e che stimola ad aprire lo sguardo (come suggerisce la radice latina del termine «de-sidera»: verso le stelle). In questa ottica, nel desiderio v’è il prevalere della progettualità esistenziale, piuttosto che il ripiegamento su pulsioni da soddisfare. E la «volontà di significato» che i giovani avvertono dentro di sé non è, allora, un bisogno, ma un desiderio: ed è così presente nel profondo che, se insoddisfatto, vela di grigio le giornate. Tutto sembra privo di senso, e la postura esistenziale è quella di chi «ciondola», come dice la nostra insegnante, o quella di chi guarda il mondo da immobile, mentre le cose gli scivolano semplicemente addosso.

    “Non sempre hanno disagi psichici...”: la «normalità» dell’esigenza di senso

    I nostri giovani, si dice spesso, hanno i bisogni materiali e psichici soddisfatti: sono ben nutriti e ben voluti, almeno nella maggioranza dei casi (e comunque più accontentati dei coetanei delle passate generazioni). Ma questa situazione, se apparentemente sembra vantaggiosa, non è detto che in realtà sia propizia per la soddisfazione dell’esigenza di senso. Come si legge nell’agile romanzo dello scrittore Michele Serra, dobbiamo riconoscere (rivolgendoci direttamente agli adolescenti di oggi) che “siete arrivati in un mondo che ha già esaurito ogni esperienza, digerito ogni cibo, cantato ogni canzone, letto e scritto ogni libro, combattuto ogni guerra, compiuto ogni viaggio, arredato ogni casa, inventato e poi smontato ogni idea…”.[4] In un mondo dove non ci sono più sfide da accogliere, missioni da compiere, esperienze da scoprire; in un mondo dove tutto è già stato fatto, già detto, già pensato: è possibile motivare i giovani a cercare ancora qualcosa di inedito e a impegnarsi in qualche avventura esistenziale? Come uscire dalla logica del «già» per stimolare quella dell’«ancora»? Come far spazio alla ricerca dei loro significati, nonostante il vissuto di «saturazione» che possono avvertire? Il primo passo consiste nell’ammettere che non basta avere tutto: “troppo a lungo abbiamo continuato a fare un sogno dal quale solo ora ci destiamo. Abbiamo sognato che bastasse far progredire le condizioni socio-economiche di una persona perché tutto andasse bene, perché essa diventasse felice. La verità è che, non appena è venuta a cessare la lotta per la sopravvivenza, subito è saltata fuori la domanda: ‘Sopravvivere? Ma per quale scopo?’. Al giorno d’oggi un numero sempre maggiore di individui dispone di risorse per vivere, ma non di un significato per cui vivere”.[5] Su questa linea, il desiderio di senso che i ragazzi avvertono (quel «qualcosa in più» che essi vogliono, e che «spiritualmente li tortura») emerge indipendentemente dagli altri bisogni e dalla loro soddisfazione. Non è qualcosa che si manifesta solo quando i bisogni «inferiori»[6] siano stati appagati, così come l’aver appagato quei bisogni fisiologici e psichici non rende immune il giovane dall’esigenza di trovare un senso. Se è vero, infatti, che la maggior parte dei nostri adolescenti riceve materialmente molte soddisfazioni, è oltremodo innegabile che, a quegli stessi ragazzi “manca il senso di tutto!”.[7] E tale insignificanza esistenziale li rende spenti, annoiati e inattivi, avvolti da un vissuto di insipidità nei confronti dell’esistere, dove il vuoto di senso spicca tristemente tra l’opulenza dell’effimero. Questa «fame di senso», per usare un’espressione cara a Frankl, non è nulla di patologico: anzi, è del tutto fisiologica nel processo di crescita. Non è sintomo di un disagio psichico, bensì simbolo del desiderio di conferire un «orientamento» alla propria esistenza; di percepire un «appagamento esistenziale»; di sentirsi l’«artefice» delle proprie scelte e condotte di vita. Tali processi, lungi dal connotare qualcosa di morboso, denotano un atteggiamento “che deve essere attraversato da qualunque individuo che stia crescendo in modo da poter trovare un proprio stabile ritmo vitale, secondo personali finalità e contenuti di vita”[8]. Eppure, troppo spesso ci si ferma alla considerazione dei soli bisogni biologici e psichici, e la volontà di significato resta invisibile.

    “Non sostituirci a loro...”, ma promuovere la ricerca di senso

    Soddisfare il «desiderio per» qualcosa richiede un processo di ricerca personale. La volontà di significato, infatti, non trova appagamento da scorciatoie tracciate da altri, ma da percorsi interiori che reclamano, dai nostri giovani, la fatica di accomodarsi fra i propri vissuti. Non esiste, infatti, un senso pre-dato e pre-confezionato, che vada bene per tutti e che possa essere stabilito da qualcun altro, né tantomeno imposto. Il senso va «intuito» dalla coscienza di ciascuno che sola può guidare gli adolescenti a individuare il proprio compito nella concretezza delle situazioni che vivono. Ciò che importa è che la volontà di significato venga riconosciuta e accolta da quanti si occupano di educazione. Non di rado, purtroppo, i giovani vengono lasciati soli di fronte alle loro preoccupazioni esistenziali. A fronte della difficoltà nel «trovare le parole» per esprimere il desiderio di senso e l’inquietudine che ribolle nel profondo, c’è anche la difficoltà degli adulti nel portare alla luce e nel legittimare tale desiderio. Tuttavia, non accoglierlo significherebbe scoraggiare il processo della ricerca di senso, così cruciale nell’adolescenza per la strutturazione della personalità.
    Su questa linea, anziché restare nell’implicito e costituire un’ombra dell’educazione, l’atteggiamento della ricerca di senso va invece sdoganato, promosso e coltivato dall’educazione stessa. Non è qualcosa che si dispiega da sé, quanto un dinamismo che ha bisogno di essere orientato e sostenuto. Pur essendo, infatti, l’adolescenza un periodo particolarmente sensibile alla maturazione della ricerca di senso, non è detto che ciò accada per tutti, in modo naturale. Accade spesso che i giovani vengano attraversati dalla volontà di significato, ma in modo per lo più inconsapevole. Essi avvertono velatamente e confusamente il desiderio di qualcosa che faticano a intercettare; di qualcosa che li turba e li inquieta, ma che permane nell’oscurità dell’inconscio, non riuscendo ad affiorare e ad alimentare, perciò, il processo della ricerca di senso. Così, mentre l’«esigenza» di senso è qualcosa di costitutivo, la «ricerca» di senso (l’attivo dinamismo del mettersi alla ricerca di un significato) è una «disposizione». Non è una capacità tout-cort, non è un fatto, ma un «farsi», che per dispiegarsi esige dal soggetto che sia innanzitutto consapevole della propria «esigenza» di senso. È necessario, dunque, guidare i ragazzi a comprendere i propri vissuti interiori: a non rimuovere l’inquietudine e il senso di insignificanza, ma a «starci dentro», a «dargli un nome», senza pretendere di spiegarli razionalmente e di individuare ad ogni costo una causa. Essere consapevoli della propria volontà di significato risulta fondamentale per non rimanere ostaggio di forze che si percepiscono oscure, e per imparare ad affrontare quello che si sente dentro di sé. E il senso, così come la sua mancanza, è qualcosa di «sentito» prima che di «pensato». È qualcosa, per usare le parole di Umberto Galimberti, che ciascuno “sente prima nella pancia che nella testa”[9]. Sulla scia di queste considerazioni, promuovere negli adolescenti l’atteggiamento della ricerca di senso vuol dire allenare la capacità di «intuire» consapevolmente e di «realizzare» responsabilmente dei significati nell’esistenza.[10] Di certo, questo non coincide col dare ai ragazzi dei significati pre-disposti e pre-formulati: sarebbe inutile, oltre che dannoso ai fini del loro benessere. Il compito di noi educatori, come ci suggeriscono le parole della «nostra» insegnante, è quello di sostenere i giovani non solo a stare nell’incertezza, come spesso si dice, ma anche a «stare nella ricerca». Non siamo chiamati a definire (con le nostre parole, con le nostre chiavi di lettura, con i nostri significati) quel «qualcosa» di cui loro sentono il desiderio, quanto a sollecitare la personale ricerca di quel qualcosa, stando loro accanto nelle fatiche e negli inevitabili fallimenti. Concludendo con le parole di un collega, da anni impegnato in un Centro diurno di Roma che ospita ragazzi adolescenti, si tratta di “aiutarli a cercare in se stessi qualcosa di cui nessuno ha mai il coraggio di parlare: la coscienza!”.

    Traccia per la riflessione con gli adolescenti

    * “Non sanno in che direzione andare...”
    Queste parole, dette dall’insegnante che ha aperto la nostra riflessione, possono costituire l’occasione per promuovere con i ragazzi un esercizio di “autodistanziamento”[11], nell’intento di stimolarli a vedersi dall’esterno e a mettere a fuoco la propria direzione: ovvero, il proprio compito.
    Immagina di osservarti dall’esterno, mentre stai vivendo in una determinata situazione, come se tu fossi un regista televisivo e riprendessi te stesso con una telecamera. Riprenditi da vicino, nelle espressioni del volto, poi allarga la visuale zummando al tuo mezzobusto, alla tua figura intera, alla situazione che stai vivendo, mettendo a fuoco le altre persone e sfuocando la tua figura, girando intorno alla scena, cambiando le diverse angolature prospettiche. Ora cerca di capire il senso della situazione: che cosa sta avvenendo? Di che azione, discorso, iniziativa c’è bisogno? Quali sono i bisogni degli altri? Quali le necessità contingenti?
    Tenendo conto di questi elementi, quale potrebbe essere il tuo compito? Che cosa ti senti “chiamato/a” a fare? A che cosa devi rinunciare, per portarlo a termine? Quali risorse devi mettere in campo? Sei indispensabile per realizzare questo compito? Se tu non intervenissi che cosa succederebbe?

    * “Non c’è niente che abbia senso, è da tanto tempo che lo so. Perciò non vale la pena far niente, lo vedo solo adesso” (tratto dal libro “Niente”, di Janne Teller, Feltrinelli, Milano, 2000)
    Facendo riferimento all’espressione contenuta in questo libro, dopo un’iniziale confronto con i ragazzi si può continuare la riflessione chiedendo, a ciascuno di loro, di portare «qualcosa» che riveste un significato particolare: un oggetto, una frase, una canzone... Proprio come hanno fatto i protagonisti di “Niente”, per dimostrare a Pierre che si sbaglia nel dire che “niente ha senso”. Si può così costruire la “catasta dei significati”, data dall’insieme di tutto quanto è stato scelto dai ragazzi come emblema dei loro significati soggettivi. Quasi a ricordarci che, nonostante tutto, “esiste qualcosa che ha senso”.

    NOTE

    [1] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2005.
    [2] V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, a cura di E. Fizzotti, Morcelliana, Brescia, 2005, pp. 101-102.
    [3] V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, a cura di E. Fizzotti, Morcelliana, Brescia, 2005, p. 64.
    [4] M. Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 103.
    [5] V. E. Frankl, Un significato per l’esistenza. Psicoterapia e umanismo, Città Nuova, Roma, 1983, p. 23.
    [6] Il riferimento è alla celebre «piramide dei bisogni umani» evidenziati da Abraham Maslow (cfr. Motivazione e personalità, Armando, Roma, 1973).
    [7] K. Bacolini, “Giudicate tutto, trattenete ciò che vale!”. Spunti di riflessione sui giovani di oggi per educare a un senso della vita, in Ricerca di senso, cit., p. 211.
    [8] V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia, 2005, p. 65.
    [9] U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 46.
    [10] Per approfondimenti: A. Arioli, Questa adolescenza ti sarà utile. La ricerca di senso come risorsa per la vita, FrancoAngeli, Milano, 2013.
    [11] Esercizio tratto, con alcune modifiche, da P. Giordano, Il mio perché. Quaderno operativo per giovani alla ricerca di se stessi, Comune di Venezia, Assessorato alla Pubblica Istruzione.


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