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    Strada facendo...



    Alla scuola di Gesù /6

    Elizabeth E. Green

    (NPG 2008-07-38)


    Ce l’abbiamo fatta! Ci siamo liberati dei nostri bagagli in eccesso e, in un modo o nell’altro, siamo passati per la porta stretta. Se siamo stati chiamati da Dio a tu per tu e abbiamo risposto ognuno e ognuna per conto proprio, ora che varchiamo la soglia e ci guardiamo intorno, scopriamo che non siamo più soli! Come dice il canto spiritual: «Noi non siamo soli» ma «mano nella mano» avanziamo gli uni insieme agli altri.

    Alla fine del suo libro Gesù, Elisabeth Schüssler Fiorenza ci lascia in compagnia delle donne discepole in cammino sulla «via aperta verso la Galilea» (Torino, Claudiana 1996, p. 257). Non solo non siamo soli perché in compagnia gli uni degli altri, ma non siamo soli perché Gesù ci precede e ci accompagna! Il Vivente, dice Schüssler Fiorenza, si trova laddove i discepoli e le discepole annunciano il vangelo, mettono in pratica il discepolato insegnato da Gesù, rendono concreto il Regno di Dio, ossia danno corpo al sogno divino. Una volta che abbiamo risposto alla chiamata, una volta varcata la soglia, una volta intrapresa la marcia lungo la strada, Dio non ci lascia soli ma viene insieme a noi. «Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente», promette il Signore risorto ai discepoli alla fine del vangelo di Matteo (Mt 28,20).

    Una triplice modalità di presenza

    Strada facendo, il Signore cammina con noi. Ma come? In che modo Dio ci accompagna nel nostro percorso di vita? Senza dare una risposta esauriente, possiamo dire che il Signore diventa «Emmanuele» ossia «Dio con noi» in tre modi, tre modi collegati insieme, che s’intrecciano, che si complementano arricchendosi a vicenda in una danza senza fine!
    Il primo modo in cui l’Iddio che in Gesù si è rivelato si fa presente è mediante la sua parola, i libri antichi che compongono il primo e il secondo testamento, nati prima in seno al popolo d’Israele e poi in mezzo alle chiese cristiane. Parole umane tramandate lungo i secoli, passate di bocca in bocca magari intorno al falò la sera o in cammino per strada o intorno al tavolo con un buon bicchiere di vino, per poi prendere dimora nei momenti più solenni del culto nel tempio, nelle sinagoghe, nelle case. Parole messe per iscritto per paura che andassero perse o venissero tradite o dimenticate, e poi tutte cucite insieme per fare dei libri, dei codici, degli innari, dei vangeli. Lettere che andavano lette ad alta voce nelle prime comunità cristiane e poi copiate e fatte circolare. Tutte parole che attestano di un Dio che viene incontro agli uomini e le donne, ai popoli, al mondo da Lui creato, e che parlano di quell’incontro, e di ciò che se n’è compreso. Parole che sono state riportate e riascoltate lungo i secoli dalla comunità riunita, la quale – generazione dopo generazione – ha continuato a scoprirle autorevoli, in grado – sebbene provenienti da luoghi diversi e epoche lontane – di parlare ancora e testimoniare di quel Dio che si fa vicino per amarci e chiamarci. Parole lette, ascoltate, predicate, soprattutto vissute in modo che non siano affatto lettera morta ma parola viva e vivificante. Parola che diventa mezzo di comunione con Dio: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l’amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui» (Gv 14,23); parola alla cui comprensione Dio stesso ci guida: «Quando sarà venuto lui, lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità, perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito e vi annuncerà le cose a venire» (Gv 16,12).
    Ecco come ci accompagna strada facendo, nella sua parola da leggere, da meditare, da studiare, da pregare, da sviscerare da cima in fondo, da divorare come il profeta, assimilare nella propria vita affinché diventi parola incarnata.
    Il secondo modo in cui Dio è «Emmanuele» sulla strada aperta è tramite i nostri compagni e compagne di avventura. «Poiché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Il Dio «delle piccole cose», il granello di senape, il pezzetto di lievito, la moneta perduta, il seme gettato nel campo… non ha bisogno di grande cose per scendere in mezzo in noi. Non ha bisogno di folle, di grandi raduni, di piazze, di stadi, di tanto rumore. Anzi, per essere con noi bastano due o tre persone riunite nel suo nome, il cui legame è proprio Lui, il Gesù risorto. Ecco come Dio ineluttabilmente s’intreccia con la realtà umana. Anzi, come hanno detto alcune teologhe, è Dio stesso a creare comunione tra tutti e tutte coloro che si riuniscono intorno a Gesù, in quanto Dio è l’«energia-in-relazione» che crea relazione tra gli esseri umani. Per questo motivo non siamo soli sulla strada aperta, perché Dio vuole insegnarci a con-vivere camminando insieme con le nostre differenze, in comunione con lui e quindi costruendo comunione, comprensione, condivisione gli uni con gli altri.
    Nelle nostre fatiche, nei nostri tentativi di stare in relazione con tutti coloro che portano il nome di Cristo, Dio è con noi. Nei vangeli è la comunione conviviale praticata da Gesù a rendere visibile questa relazione con Dio. Gesù, infatti mangiava e beveva con tutti, uomini e donne, gente per bene e gente un po’ meno. Anzi, sembra che prediligesse la compagnia delle persone per le quali la società di allora non trovava un posto, i «peccatori», coloro che per un motivo o l’altro non erano in grado di seguire tutte i complicati precetti dell’establishment religioso. Ha fatto del banchetto – cui tutti vengono invitati a partecipare – un simbolo del Regno di Dio tant’è che il gesto che ci ha lasciato per ricordarlo è proprio quello dello spezzare insieme il pane e bere insieme dal calice. Dalla comunione conviviale in casa di Maria e Marta, di Simone il lebbroso, dell’esattore delle tasse, si passa all’eucaristia, perché «quando due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro».
    Strada facendo il Cristo risorto ci nutre della sua presenza «facendo ardere il nostro cuore mentre ci spiega le scritture», rivelandosi «nello spezzare il pane» esattamente come era accaduto con i due discepoli facendo la strada per Emmaus (Lc 24, 32,35).
    Ma come riescono a contenere la presenza divina quei due o tre riuniti nel nome di Gesù? Non ci riescono. È come se la presenza di Dio dovesse uscire dai confini del «suo nome» cercando di esprimersi creando relazione tra le persone più inaspettate. Anche in questo caso Dio ci spiazza, scegliendo di rivelarsi non nei grandi bensì nei piccoli, non nei ricchi bensì nei poveri, non nelle persone tenute in considerazione ma in quelle dimenticate. Ecco, Emmanuele «Iddio con noi» che nasce un piccolo senza-tetto qualsiasi messo a giacere in una mangiatoia «perché non v’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,7). Ecco Dio con noi costretto alla fuga per evitare la violenza del re, un altro piccolo migrante della storia.
    Il terzo modo in cui Dio è con noi, quindi, è proprio in coloro che sono stati spinti ai margini della chiesa, della società, dell’economia. Dio infatti ha un debole per i deboli, cosicché senza preavviso si presenta nelle persone in bisogno, le persone che hanno bisogno di entrare in relazione, l’ignudo, il carcerato, l’ammalato, l’assetato, lo straniero: «in quanto l’avete fatto ad uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me» dice Gesù (Mt 25, 40). Strada facendo Dio è con noi in molti modi, ma eccone tre: la sua parola nascosta nelle sacre scritture, la comunione che viene ad intrecciarsi tra coloro che invocano il suo Nome, la sua presenza impensabile e inaspettata nelle persone bisognose.

    I tre compiti

    Abbiamo risposto alla chiamata, siamo in cammino, strada facendo Dio è con noi… ma per fare che cosa? La vita di ognuno e ognuna di noi è un piccolo tassello nel grande mosaico che Dio sta creando. Tutti e tutte hanno una vocazione specifica, uno spartito da suonare nella sinfonia del Regno. Eppure, non siamo chiamati per noi stessi. Gesù, come ha detto Bonhoeffer, era «l’uomo per altri» e noi siamo chiamati a seguirlo diventando uomini e donne per altri. Quale è il compito di coloro che entrati per la porta stretta sono in cammino «sulla strada aperta verso la Galilea»?
    Nel suo libro La chiesa nella potenza dello spirito (Brescia, Queriniana), Jürgen Moltmann sostiene che alla chiesa sono stati affidati tre compiti. Sebbene il modo in cui le chiese li adempiono possa variare da epoca in epoca, da luogo in luogo, i tre compiti (i «per») rimangono stabili. Per descriverli Moltmann utilizza tre parole prese dalle scritture greche: kerigma, koinonia, diaconia. Vediamole una alla volta.
    Noi abbiamo risposto alla chiamata e ci incombe chiamare altri! Non chiaramente per conto nostro, ma per conto di Colui di cui siamo diventati «ambasciatori» (2 Cor 5,20); è compito nostro trasmettere l’invito che tramite Gesù, Dio rivolge a ciascun uomo e ciascuna donna: «Seguimi!».
    In altre parole, uno dei nostri compiti è proprio quello dell’annuncio, della proclamazione delle buone notizie di un Dio che in Gesù non è venuto a giudicare il mondo bensì a salvarlo.
    Kerigma si riferisce proprio a questa proclamazione, «vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato dappertutto facendo del bene e guarendo tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo perché Dio era con lui» (Atti 10,38). Raccontare la storia di Dio col mondo in modo che essa diventi, per donne e uomini oggi, non solo una storia che salva ma anche una storia che ci interpella. Il compito dei discepoli odierni è mantenere viva la storia di Cristo, annunciandola, raccontandola, predicandola, insegnandola.
    Nelle sue lettere l’apostolo Paolo continuamente esorta le persone che formavano le comunità cristiane nascenti a vivere in pace gli uni con gli altri: «Vivete in pace tra di voi», scrive ai Tessalonicesi (1 Tess 5,13), mentre alla chiesa di Roma scrive: «Cerchiamo dunque di conseguire le cose che contribuiscono alla pace» (Rm 14,19). In un mondo caratterizzato dal conflitto interpersonale, da quello più micro delle famiglie a quello più macro delle nazioni, i seguaci di Gesù, Principe della Pace, sono chiamati a vivere in pace tra di loro, a stare «perfettamente uniti nel medesimo modo di pensare e di sentire»(!) (1 Cor 1,10). Mi piace pensare alla chiesa locale come una palestra di convivenza in cui Dio, tramite la koinonia, la comunione da lui donata e poi da noi faticosamente ricercata e costruita, vince la scommessa che il vivere in pace è possibile.
    All’inizio del libro degli Atti, Luca ci regala un ritratto della comunità cristiana ideale, in cui la comunione con Dio appena ritrovata e ristabilita sfocia nella comunione tra i discepoli e discepole di Gesù: «Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno». La solidarietà era frutto della koinonia, comunione creata dalla divina «energia-in-relazione». «e ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio, rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo» (Atti 22,44-47).
    Una delle sfide del cristianesimo è proprio questo: agire con tutta la nostra fantasia e impegno la koinonia, « noi non siamo soli»!
    Il terzo compito affidato ai discepoli e alle discepole di Cristo è il servizio dell’altro e dell’altra, la diakonia, compito così importante che a un certo momento la chiesa delle origini designò delle persone incaricatene in modo specifico. Il nostro Maestro non è venuto per essere servito ma per servire (Mt 10,45) e noi siamo chiamati a fare altrettanto.
    Che sfida per le chiese cristiane sia nel loro modo di organizzarsi (i primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi), sia nella solidarietà interna, sia nel servizio che rendono verso il mondo!
    Sì, perché la chiesa non esiste per se stessa bensì per il mondo che è chiamata a servire: «La religione pura e senza macchia davanti a Dio e Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni» (Gc 1,27). Certamente non limitandoci ad «opere di carità», ma sforzandoci di capire le cause delle ingiustizie cha attraversano il nostro mondo per porne rimedio sognando con occhi aperti e corpo ben destro il sogno di Dio.

    I tre «segni»

    Strada facendo Dio si fa «Emmanuele» per accompagnarci nei compiti che ci sono stati affidati. La presenza divina nascosta nella parola, infatti, corrisponde al compito della proclamazione del vangelo, il kerigma; la divina presenza come «energia-in-relazione» corrisponde alla comunione (koinonia) che siamo chiamati a vivere, mentre la presenza di Dio velata nei minimi e nelle minime corrisponde alla chiamata alla diakonia, il servizio.
    Se ad ogni compito che Dio ci affida corrisponde un suo modo di stare con noi, possiamo anche considerare i gesti che Gesù ci ha lasciati segni concreti della sua presenza che ci accompagna strada facendo. In questa ottica, il battesimo è inteso come proclamazione visiva del cuore del vangelo: «Siamo dunque stati sepolti con lui mediante il battesimo nella sua morte, affinché, come Cristo è stato risuscitato dai morti… anche noi camminassimo in novità di vita» (Rm 6,4) e corrisponde al kerigma; l’eucaristia è intesa come simbolo della comunione solidale della chiesa radicata nell’accoglienza offerta a tutti e tutte da Gesù, e come segno dell’armonioso convivere umano e corrisponde alla koinonia; la lavanda dei piedi (ma questa volta non esclusivamente nelle forme rituali che abbiamo dato a questo gesto) ci richiama al servizio amorevole, cuore della vita cristiana: «Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lare i piedi gli uni agli altri» e corrisponde alla diakonia.
    Tre segni concreti ognuno per dare corpo alla presenza di Dio nel mondo. Strada facendo, Dio è con noi in tre modalità diverse, in tre compiti affidatici, in tre segni concreti, ognuno implicante l’altro, ognuno in rapporto all’altro, ognuno intrecciato all’altro affinché il nostro cammino diventi una danza!


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