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    Vivere di fede nella vita quotidiana /6

    Vivere in questo mondo

    come gente

    di un altro mondo

    Riccardo Tonelli


    «Chi sono io?» ci chiediamo spesso e con insistenza.
    Ci poniamo la domanda nei momenti di crisi e di incertezza, per cercare una ragione di conforto «dentro», in quello spazio di libertà interiore dove scopriamo di poter resistere alle minacce e alle seduzioni che ci stringono da ogni parte. E ce la riproponiamo quando la vita ci sorride e non ci sembra vero che tutto fili così liscio.
    Il credente sa quanto la qualità della sua fede sia interpellata da questo interrogativo e dalle risposte che a esso diamo. La fede attraversa tutta la vita quotidiana. L'esperienza di fede diventa, di conseguenza, la ragione determinante e la dimensione qualificante della ricerca sull'identità.
    Il problema è strettamente personale. Da soli, senza il sostegno rassicurante degli altri, ci diciamo chi siamo e come ci sogniamo.
    Diamo però la nostra risposta nella risonanza di quella che i cristiani danno a titolo collettivo. La domanda « chi sono io?» diventa presto la ricerca di ciò che caratterizza e specifica il cristiano.
    Quando essere cristiani rappresenta un dato di prestigio sociale, il problema non si pone. Si è cristiani
    spontaneamente e non ci si interroga sulle caratteristiche qualificanti, tanto la faccenda sembra pacifica.
    Quando invece l'esperienza ecclesiale è in crisi e per vivere di fede ci vuole coraggio e capacità di resistenza, riaffiora prepotente il problema dell'identità cristiana.
    Oggi siamo veramente in un tempo di crisi, sulla spinta del pluralismo e della complessità sociale in cui viviamo. Sembra quasi che senza precisi_connotad, capaci di differenziare, ci si perda nella babele dei progetti di vita e dei sogni mai realizzati.
    Se è vero che il credente vive in questo mondo come se fosse di un altro mondo, cosa lo distingue e lo fa diverso dagli altri?
    Le risposte a livello collettivo sono tante, nel panorama frastagliato dell'attuale coscienza ecclesiale.
    Ne propongo una, a conclusione di questo tratto di cammino percorso assieme, meditando sulla fede in Gesù Cristo. La suggerisco senza eccessive pretese: chiede solo di continuare a pensare, ed eventualmente di provare a sperimentarla sulla propria pelle.

    1. LA COMPAGNIA DEL CREDENTE CON TUTTI GLI UOMINI

    Ci sono dei cristiani che hanno paura della confusione e si sentono in crisi quando si ritrovano dispersi in mezzo alle grandi folle. Hanno bisogno di riconoscersi, distinguendosi e separandosi dagli altri. Cercano una loro identità attraverso una chiara e definita preoccupazione di « differenza»: per stile di vita, per scelte di fondo, per orientamenti concreti.
    L'esperienza dell'incontro con il Dio di Gesù li separa un po' dalla compagnia degli altri uomini. Lo si vede anche a prima vista, da mille segnali coltivati con cura puntigliosa.
    Non me la sento di dire, con quattro battute, che il modello della differenza sia poco corretto. Non voglio fare il giudice saccente, anche perché quello dell'identità è un ambito dove le sensibilità personali giocano un peso determinante.
    Per conto mio preferisco una ipotesi diversa: la compagnia, sincera e convinta, con tutti gli uomini di buona volontà.
    Mi incoraggiano le parole solenni con cui si apre la Gaudium et spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (GS 1).
    La mia proposta è motivata su ragioni serie. Se le condividiamo, vanno tradotte in uno stile coerente di vita.
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    1.1. In compagnia per promuovere la vita

    Una ragione che spinge verso la compagnia l'ho già ricordata nel capitolo precedente. Il credente dice la sua fede assumendo pienamente la causa che ha riempito l'esistenza di Gesù e l'ha trascinato fino alla croce: la vita.
    La passione per la vita chiama alla compagnia con tutti gli uomini che amano la vita e lottano per la sua vittoria. Nel Regno di Dio il confine non passa tra chi riconosce Gesù e chi non lo conosce ancora. Passa molto più nel profondo: tra chi vuole la vita e chi preferisce la morte.
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    1.2. In compagnia anche per vivere di fede

    Ci sono ragioni importanti verso la compagnia anche nell'ambito specifico della fede, quando leggiamo la realtà dalla parte del mistero di Dio, per vedere ciò che non si vede e possedere ciò che si spera.
    Due riferimenti inquietano il credente che prende sul serio le esigenze della sua fede: il fatto che per vivere di fede si richiede una capacità molto ampia di cercare e pensare, mettendo a frutto scienza e sapienza; e il fatto che anche nella comprensione della realtà dalla parte del mistero il credente resta con dubbi e incertezze, come tutti gli uomini.
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    1.2.1. Cerchiamo in compagnia con tutti
    La fede è una esperienza che inonda di luce nuova, improvvisa e abbagliante, le esperienze della vita quotidiana. Per questo le riempie di senso nuovo.
    Il senso sperimentato nella fede colloca veramente in un altro mondo, perché porta a risignificare le cose che si vedono e si manipolano dal mistero che si portano dentro. Non trascina però lontano dalle trame dell'esistenza né dispensa dalla fatica di sperimentare, produrre e ricercare il senso delle cose. «Il senso dal mistero» emerge solo tra le pieghe della vita quotidiana, che è vita di tutti, da costruire e condividere con tutti.
    Per giungere al mistero, un lungo tratto di strada va quindi compiuto in compagnia con tutti gli uomini, condividendo riflessioni e ricerche, competenza e professionalità. Se pretendiamo di percorrerlo da soli, con arrogante presunzione, corriamo il rischio di smarrirci o di giungere a conclusioni falsificate da una cattiva lettura della realtà.
    Il problema è serio e inquietante: purtroppo non sono pochi i casi in cui i cristiani hanno combinato grossi guai perché hanno tentato operazioni di questo tipo.
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    1.2.2. E ci immergiamo nel mistero in compagnia con tutti
    Anche quando le strade della ricerca si dividono e il credente intravede il mistero nascosto nella realtà, la fede non ci sottrae neppure all'esperienza, comune a tutti gli uomini, di vivere avvolti in un mistero che resta impenetrabile. Davvero, il nostro è un Dio grande e imprevedibile, come sono imprevedibili e sconcertanti i suoi doni. Riconoscerlo nel volto e nella parola di Gesù di Nazaret non ci dà una carta in più nei suoi confronti.
    Nella Bibbia ci sono pagine dure che danno da pensare.
    Impressiona, per esempio, l'abisso di solitudine e di tristezza che fa gridare a Gesù, nell'atto supremo e sognato di tutta la sua vita: « Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46).
    L'urlo di Gesù dà voce alle angosce di tanti credenti. Spesso ci troviamo sprofondati nell'imprevedibile silenzio di Dio. Anche noi gridiamo, con le parole del Salmo: « Dio, esci dal tuo silenzio, non rimanere muto e inattivo» (Sal 83,2).
    Non è una situazione eccezionale. È invece il rischio quotidiano di ogni esistenza che cerca di sfondare il confine del mistero.
    Dio riempie la nostra vita quotidiana. Essa è il luogo della sua presenza di salvezza. Ma il nostro Dio è il Dio del silenzio che si fa parola e resta silenzio e mistero.
    La presenza di Dio è diversa da qualsiasi altra presenza di amici: è una presenza vera intensa reale, che è nello stesso tempo e con la stessa verità « assenza»; è un possesso mai totalmente posseduto; è una vicinanza mai pienamente vicina.
    Nel vocabolario con cui descriviamo le nostre esperienze, il contrario di vicinanza è lontananza, quello di presenza è assenza, come quello di possesso è privazione.
    Il Dio di Gesù ha un vocabolario tutto suo. Quando si fa parola per noi, riesce a coniugare nello stesso gesto vicinanza e lontananza, assenza e presenza, possesso e privazione. Egli è Dio-con-noi; ma resta sempre l'ineffabile e l'indicibile.
    Confessarlo presente non è mai un sottile esercizio della nostra intelligenza. È sempre una scommessa di vita perché è un atto di fede confessante. È il rischio di chi accetta di misurarsi con l'imprevedibile.
    Chi si interroga su Dio e sull'uomo, di fronte all'avventura dell'esistenza quotidiana e alla ricerca di fondamenti sicuri, sa di sprofondarsi nel mistero di Dio. Lì tutti gli uomini sono davvero fratelli, credenti e non credenti, cristiani e gente delle altre grandi esperienze religiose. Le loro strade finiscono sempre sulle sponde di un mistero che dà le vertigini.

    2. LA SOLITUDINE DEL CREDENTE

    La « compagnia» del credente con tutti gli uomini resta però sempre un poco strana, tutta originale. La sua esperienza di fede scaturisce dalla testimonianza della croce e da una speranza che va oltre ogni umana sapienza. E questo lo costringe presto alla solitudine.
    Nella compagnia piena e sincera con tutti, l'uomo di fede si sente costretto ad assumere atteggiamenti, a dire parole e a fare gesti che sono solo suoi, che non riesce più a capire e a condividere chi viaggia solo sull'onda del buon senso e delle logiche correnti.
    La fede ci fa essere un po' profeti. Il credente non si rassegna di fronte alle lotte e non rinuncia alla certezza della vittoria anche quando la morte soffoca ogni sussulto. Grida forte le esigenze della vita, quando nel suo nome viene contrabbandata la morte. E ricorda a tutti che solo riconsegnando la propria vita al Dio della vita, nel riconoscimento della sua signoria definitiva su tutti gli sforzi dell'uomo, è possibile possedere la vita anche oltre la morte.
    Non riuscirei a dire queste cose se dovessi solo raccontare la mia storia. Per fortuna, siamo la Chiesa: un popolo di profeti che ha riempito la storia della confessione della propria fede. Parliamo quindi di profezia in buona compagnia.

    2.1. Dio fa cose nuove. Perché non ce ne accorgiamo?

    Colui che fa esperienza della salvezza di Dio e si sente immerso nella pace del perdono e dell'amore,
    ha sempre un cuore affamato di giustizia. Dio ci dà la sua pace perché diventiamo operatori di pace. Per questo, il credente soffre più dolorosamente l'ingiustizia e lotta più intensamente per il suo superamento, in una grande esperienza di speranza.
    Il credente condivide la storia e la vita di tutti: ma grida, a parole e con i fatti, dal suo interno la grande promessa di Dio, che lo riguarda direttamente: « Fra poco farò qualcosa di nuovo. Anzi ho già incominciato. Non ve ne accorgete?» (Is 43,18-19).
    Nel coraggio solitario simile a quello dei martiri della prima era cristiana, egli dà il suo contributo all'impegno comune, provocando sempre all'invenzione di cose nuove, perché i cieli nuovi e la nuova terra non sono la rivisitazione del presente, magari accomodato alla bell'e meglio, ma una inedita e imprevedibile esperienza di futuro.
    Nella sua passione per la libertà e per la vita, il credente cammina e vive « sotto la promessa».

    2.2. Prendere le distanze dalle logiche del buon senso

    La solitudine segna anche l'impegno del cristiano per la costruzione della vita. In questa impresa egli condivide prospettive e interventi con tanta altra gente. Egli vive immerso nel mondo. È la casa comune e non la vuole fuggire.
    Quando si mette a far verifiche, per decidere contro chi reagire e da che parte stare, s'accorge che alcune logiche sono certamente contrarie al Vangelo, costruite dentro prospettive mortifere. Da queste non è difficile prendere le distanze, almeno in linea teorica.
    Molte altre, invece, sono meno evidenti. Determinano quello stile di perbenismo e di concretezza che sembra indispensabile per ogni convivenza ordinata.
    Il cristiano percepisce però un disagio crescente. Si sente soffocare, nei suoi sogni e nei suoi progetti. Ha paura di essere costretto a fare come tanti altri: spegnere l'insofferenza dell'utopia per vivere a proprio agio nella mischia delle vicende quotidiane.
    Nell'esperienza della croce, il cristiano respira aria pulita. Impara a prendere le distanze dalle logiche in cui siamo immersi, per verificarle tutte, in un'opera coraggiosa di discernimento critico.
    Nella libertà della fede riusciamo di nuovo a sognare in grande. E così, rifatti nel sogno, possiamo riprendere il ritmo duro di una esistenza che ha bisogno di mercanteggiare le esigenze e di ridimensionare le prospettive.

    2.3. Distruggere tutti gli idoli

    Noi, gente di questo tempo, ci siamo riempiti la vita di idoli. Alcuni li mostriamo a tutti, con arroganza e fierezza: sono i simboli della nostra potenza e i segni del nostro fascino superiore. Altri li teniamo di riserva, per i momenti di difficoltà.
    Ormai ci siamo affezionati tanto e sono tanto indispensabili compagni di ogni avventura, che non ci accorgiamo quasi più della loro presenza e delle loro pretese. Quando c'è da decidere e da organizzare, basta uno sguardo anche distratto verso di loro e troviamo tutta l'ispirazione e la sicurezza di cui abbiamo bisogno.
    La fede produce semplicità, stupore, paziente ricerca e trepida attesa. Per dare vita, offrendo ragioni i per vivere, dobbiamo ricostruire, in noi e negli altri , questa difficile qualità di vita. L'unica condizione seria è quella che ci fa soffrire di più: distruggere, con decisione, tutti gli idoli che ci siamo fabbricati.
    Per distruggere gli idoli, dobbiamo riandare quotidianamente all'avventura della nostra vita, per rileggerla con calma, tranquillità e coraggio: ripensare alle decisioni e alle motivazioni che le hanno ispirate, per guardare in avanti dopo aver riconquistato in modo riflesso il passato.
    Chi vive così, gli piaccia o no, deve estraniarsi non poco dal mondo in cui vive, fatto di corse forsennate, di sicurezze assurde: pieno di idoli.
    Diventa, per forza, un solitario, che vive in questo mondo come se fosse ormai di un altro mondo.

    2.4. Solitudine e libertà = lotta

    Vivere da solitario è un'impresa dura e faticosa. Fa soffrire. La solitudine è lotta.
    Sembra strano. Ma è così. Non ho ragioni da addurre, come quando si dimostra un teorema di geometria o la terza legge della termodinamica. Possiamo mostrarlo raccontando frammenti della nostra storia. Lo verifichiamo raccontando la storia dei grandi credenti, chiamati a maturare, nel silenzio della loro interiorità, grandi scelte per la loro vita e per quella degli altri.
    L'ha vissuto così Gesù, in quel periodo drammatico della sua vita in cui si è trovato costretto a scegliere la qualità della sua vocazione per la causa di Dio. «Lo Spirito di Dio spinse Gesù nel deserto. Là egli rimase quaranta giorni, mentre Satana lo assaliva con le sue tentazioni» (Mc 1,12-13).
    Nel deserto Mosè ricostruisce la sua vocazione di mano potente di Dio. Nel deserto il popolo ebraico rinnova la sua fedeltà a Dio. Nel deserto Elia ritrova la sua passione infuocata per la causa di Dio.
    Come Gesù, anche Mosè, Elia, il popolo ebraico, i monaci abitatori del deserto sono stati tentati da Satana: messi continuamente di fronte ad alternative drammatiche.
    Non c'è una risposta, pronta e facile, una di quelle che non lasciano alternative. La decisione è sempre come buttarsi nell'abisso di Dio. Ci possono accogliere le braccia rassicuranti o possiamo sfracellarci sulle dure rocce.
    Nella solitudine sperimentiamo la prova: la decisione che sa rischiare, trascinata tra le diverse alternative, senza poterci appoggiare ad altri, senza poter citare l'autorità di un documento o di un personaggio di prestigio a sostegno della nostra posizione.
    Siamo davvero soli nel mistero di Dio che è sempre, nonostante tutto, mistero grande e indicibile. Questa solitudine ci fa soffrire: ci costringe a lottare con la nostra voglia di chiarire tutto, di sperimentare, di decidere solo a ragion veduta o solo nella compagnia rassicurante degli altri.
    Ma non è questo l'unico modo di vivere l'esperienza dello Spirito?

    3. L'IMPOSSIBILE DIVENTA POSSIBILE

    Colui che si chiede quale sia il senso e il dono della sua fede nella compagnia con tutti gli uomini resta sicuramente colpito da una pagina del Vangelo come questa: «Quando arrivarono in mezzo alla gente, un uomo si avvicinò a Gesù, si mise in ginocchio davanti a lui e disse: Signore, abbi pietà di mio figlio. È epilettico e quando ha una crisi spesso cade nel fuoco e nell'acqua. L'ho fatto vedere ai tuoi discepoli, ma non sono riusciti a guarirlo. Allora Gesù rispose: Gente malvagia e senza fede! Fino a quando dovrò restare con voi? Per quanto tempo dovrò sopportarvi? Portatemi qui il ragazzo. Gesù minacciò lo spirito maligno: quello uscì dal ragazzo, e da quel momento il ragazzo fu guarito.
    Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù, lo presero in disparte e gli domandarono: Perché noi non siamo stati capaci di cacciare quello spirito maligno?
    Gesù rispose: Perché non avete fede. Se avrete tanta fede quanto un granello di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, e il monte si sposterà. Niente sarà impossibile per voi» (Mt 17,14-20).
    Questa pagina dà da pensare.
    C'è di mezzo la vita: quel povero ragazzo ammalato è come se fosse morto.
    Gesù si irrita con i suoi discepoli perché li vede impotenti e rassegnati di fronte alla morte. Non sopporta la vittoria della morte sulla vita.
    Riconosce che l'impresa non è certo facile. Per questo sollecita la fede: chiede di immergere il problema nel mistero grande di Dio. Qui l'impossibile diventa subito possibile.
    E la vita trionfa.
    Quello che ho raccontato non è un episodio isolato. Il Vangelo è pieno di racconti simili, dove la fede fa diventare possibile l'impossibile.
    La donna cananea crede che Gesù può restituire la salute alla figlia. E la figlia guarisce (Mt 15,21-28).
    Il centurione romano crede che Gesù può vincere la morte che ormai ha ghermito il servo. E il servo torna alla vita (Mt 8,5-13).
    La peccatrice che gli bagna i piedi con le lacrime e glieli asciuga con i capelli, crede di poter ritrovare la dignità perduta. E Gesù la restituisce alla pienezza dell'amore (Lc 7,36-50).
    Il lebbroso, la donna che soffriva di perdite di sangue, Zaccheo e Pietro dopo il tradimento credono alla vita nel nome di Gesù. E tornano tutti, in modo diverso, alla pienezza di vita.
    Gesù non l'ha solo detto e fatto per gli altri. Ha creduto alla vittoria della vita e della libertà, nel nome del Padre, anche quando la morte si è affacciata violenta nella sua esistenza. Come tutti noi, ha sofferto e pianto. Poi ha gridato tutta la sua fede. E ha vinto la morte, definitivamente e per tutti noi.
    L'impossibile è diventato possibile per lui, per tanti amici suoi, per noi, perché ha creduto nella vita e ha costruito, nel piccolo, i segni della grande promessa.
    La storia dell'avventura dell'uomo non è solo piena di guerre, di intrighi, di soprusi e di violenze. Molti uomini coraggiosi hanno creduto nell'impossibile: e l'hanno fatto diventare possibile.
    Molti l'hanno fatto con forza, nel nome di Gesù.
    Altri l'hanno compiuto solo sulla grande passione per la vita che ha riempito le loro esistenze. La loro fede è stata grande, anche se il riferimento al fondamento che tutto fonda è rimasto ancora incerto, per mille differenti ragioni.
    Chi confessa Gesù come il Signore continua la sua esperienza di fede. È lucido davanti alle situazioni di morte, per un appassionato amore alla vita. Lotta per superarle, fino a perdere la propria vita. Pone gesti concreti, anche se piccoli e incerti. Crede intensamente. Per questo agisce, inventa, trasgredisce, spera contro ogni speranza. E non si arrende.
    Un po' alla volta, quello che sembrava impossibile nella logica corrente diventa davvero esperienza gioiosa e diffusa.


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