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    Vivere di fede nella vita quotidiana /1

    Fede è possedere

    ragioni per vivere

    Riccardo Tonelli


    L
    a stragrande maggioranza degli uomini vive di fede: affidano infatti a cose, persone, sogni e progetti un pezzo della loro esistenza. Chi crede in Gesù Cristo, condivide questo atteggiamento comune, lo orienta verso orizzonti nuovi, lo fonda su una radice che afferma insperabilmente sicura. Come fanno tutti, consegna la sua vita e la sua speranza a qualcosa che, in qualche modo, lo supera.

    La diversità tra la fede cristiana e la fede con cui ci diamo ragioni per vivere, provocati dai problemi che la vita di tutti i giorni ci lancia, è tanto importante e qualificante che i cristiani pretendono, proprio sulla forza della loro fede, di essere gente che vive in questo mondo come se fosse di un altro mondo.
    I punti di contatto sono però tanti che solo chi condivide il significato del sostantivo «fede», può dire in termini seri la novità che proviene dall'aggettivo «cristiana».
    Per questa ragione propongo di incominciare la nostra ricerca sulla fede cristiana mettendoci sinceramente alla scuola degli uomini che sanno vivere di fede in modo maturo. La mia fede in Gesù Cristo, a cui non posso rinunciare per una falsa pretesa di neutralità, ispira la riflessione e la orienta verso direzioni che altrimenti potrebbero sfuggirmi.

    1. IL SIGNIFICATO

    L'espressione «vivere di fede» viene utilizzata in differenti contesti. Si parla di fede politica, di fede in una persona o in una istituzione; qualche tifoso scatenato dichiara persino la sua fede in una squadra di calcio.
    In questi modelli esiste un denominatore comune: fede è un complesso di ideali, capaci di guidare gli orientamenti di una persona, fino a sollecitare un impegno coerente di vita.
    Nella declinazione religiosa la fede riferisce a Dio il fondamento di questi ideali e l'orizzonte ultimo della vita.
    La fede cristiana assume e condivide questo atteggiamento. Lo radica sulla rivelazione che Dio ha fatto di sé nella creazione e nella storia. E si esprime come risposta personale alla Parola ascoltata. Si differenzia dalle altre fedi religiose perché riconosce in Gesù di Nazaret il testimone definitivo del Padre.

    1.1. Un complesso di ideali assunti per «identificazione»

    Il complesso di ideali, in cui una persona si riconosce e a cui ispira la sua esistenza (da quelli politici a quelli sportivi, fino a quelli che investono le dimensioni più radicali della vita e chiamano direttamente in causa Gesù Cristo), sono assunti attraverso un processo di identificazione.
    L'identificazione è un processo formativo molto originale, diverso da quello di cui abitualmente ci serviamo per apprendere nuove informazioni o per acquisire nuove competenze.
    Nell'insegnamento, chi sa comunica la sua scienza agli altri. Essi ascoltano, valutano e assimilano le proposte. Per abilitarci a competenze che non avevamo (la guida di un automobile, l'uso del computer, una disciplina sportiva...), la via normale è quella della ripetizione dei gesti adeguati: provando e riprovando, diventiamo competenti.
    In tutti i casi, al centro c'è uno specialista che fa la sua proposta e ne giustifica la correttezza sul filo della logica.
    Nei processi di identificazione le cose procedono in modo assai diverso. Riconosciamo qualcuno significativo e importante per noi per quello che è. All'esperto viene sostituito il testimone; alla logica subentra l'esperienza. Decidiamo così di aprire a lui il santuario intimissimo della nostra vita, per affidargli la gestione delle ragioni decisive dell'esistenza.
    Qualche volta si tratta di ragioni oggettivamente piccole e povere. La persona che le condivide le valuta però così importanti da fondare in esse un pezzo della sua passione e del suo entusiasmo.
    Altre volte si tratta di ragioni grandi e impegnative, per cui vale davvero la spesa giocare tutta la vita.
    L'identificazione scatta nei confronti di una persona, singola e concreta, nei confronti di un gruppo sociale di appartenenza, e, qualche volta, anche nei confronti di una istituzione.
    L'operazione è delicata e un po' pericolosa, soprattutto quando non ci sono di mezzo solo aspetti parziali dell'esistenza, ma tutta la vita ne viene afferrata. Non esistono però alternative. Gli «ideali», quelli che danno ragioni per vivere, sporgono sempre verso l'ignoto e il non posseduto. Non diventano significativi perché sono pienamente verificati; lo diventano solo perché sono resi significativi dalla testimonianza di alcune persone. Siamo disposti ad accettare il rischio di giocare la nostra esistenza su un fondamento che non riusciamo a possedere in modo pieno e verificabile, perché stimiamo «degni di fiducia» questi nostri interlocutori.

    1.2. Dare vita e dare ragioni per vivere

    Questo fatto merita un'attenzione speciale: ci introduce nel mistero della generazione della vita.
    Esiste una persona, una comunità, un gruppo di credenti, che è portatore di un insieme di ragioni per credere alla vita e sperare in essa dentro la morte. Questo soggetto consegna ad altri l'ideale in cui si riconosce.
    Lo fa come gesto d'amore. Non ha nessun altro scopo recondito. Non vuole diffondere nuovi modelli culturali; non ha prodotti raffinati da immettere sul mercato. Non cerca proseliti per la sua causa. Non gli interessa produrre strumenti di pressione, magari a fin di bene.
    Ha una sola intensa passione: la vita. E si lascia inquietare profondamente dalla diffusa domanda di vita. Ha vissuto un'esperienza che ha rassicurato la sua incertezza e ha confortato la sua paura. E vuole offrire ad altri il dono di cui è stato fatto ricco.
    L'intenzione e i gesti che accompagnano e verificano la sua testimonianza sono le uniche prove che la rendono «credibile», in una compagnia che sostiene e rende forte la sua povera voce e i suoi gesti incerti.
    Sulla provocazione della sua testimonianza, altri ritrovano ragioni per vivere e per sperare. Nasce la fede. Qualcuno può ora dire: «Adesso anch'io credo alla vita».
    Dare la vita sul piano fisico, nella generazione della carne, è un avvenimento misteriosamente grande e impegnativo. Continua l'impresa divina della creazione. Non è però sufficiente: dà la vita veramente solo chi dà ragioni per vivere. Senza ragioni per vivere, la vita è una disperazione: molto meglio la morte.
    Nella fede, che ci scambiamo da persona a persona, si realizza il livello più alto di generazione. Sostenendo la fede di una persona, noi le diamo la vita.
    Vivere di fede è possedere ragioni per vivere; donare la fede, suscitando ideali per cui vivere, è dare pienamente la vita.

    2. LA QUALITÀ DI UNA FEDE «ADULTA»

    Ho già avanzato una punta di sospetto sull'identificazione, perché questo processo ha sempre il rischio di diventare manipolatorio. Ci sentiamo tanto in crisi, alla ricerca affannosa di ragioni per vivere, che diventiamo disposti a svendere la nostra libertà e ci fidiamo ciecamente di colui che ci fa proposte.
    La zona di rischio è tanto più larga, quanto è intensa la ricerca di speranza o quanto le proposte sono offerte con toni solenni e seducenti.
    L'ho già detto: non ci sono alternative. Gli ideali che danno fondamento alla nostra speranza si accettano per scommessa, rinunciando alle fredde procedure razionali.
    Questa condizione fa problema a chi vuole giocare la sua umanità in piena responsabilità.
    Di qui l'interrogativo: quando posso considerarmi adulto nel vortice del processo di identificazione?
    Quali condizioni personali indicano che è diventata fede «adulta» l'atteggiamento vitale di chi affida a un fondamento le sue ragioni per vivere e per sperare?
    Il bambino affida la sua speranza alla mano sicura della mamma. Lo fa senza chiedersi il perché di questo suo atteggiamento e senza pretendere motivi che lo giustifichino.
    Non è certo questo lo stile di una fede «adulta». Possiamo però considerare «fede» adulta l'atteggiamento di chi vuole rendersi conto di tutto e non decide nulla della sua vita se non quando tutti i conti gli tornano con sicurezza? Certamente no. La fede ha sempre una dose alta di rischio personale. Non possiamo mai dire: «è così, e solo così», come quando ci mettiamo a dimostrare un teorema di matematica.

    La fede adulta non assomiglia all'atteggiamento
    critico dello scienziato, ma neppure a quello del bambino nelle braccia della madre. Quando, allora, divento adulto nella fede?
    Lo stretto rapporto esistente tra fede e vita giustifica una risposta che può suonare un po' strana: la qualità della fede, come la qualità della vita, si misura dalla sfida della morte.
    La fede è «adulta» quando sa possedere anche la morte. Lo esprimo mettendo in risalto due caratteristiche di questo difficile confronto.

    2.1. Ricostruire l'identità dall'interiorità

    Ci chiediamo spesso chi siamo, anche per riuscire a dire a noi stessi chi vogliamo essere. Ce lo chiediamo provocati nel confronto con gli altri e nel frastuono di mille seducenti proposte.
    Di risposte ne abbiamo tantissime, tutte pronte all'uso. Dalla parte della morte, in quel silenzio impietoso che essa provoca, le scopriamo spesso troppo fragili per bastare a saziare un'inquietudine mai spenta.
    Una cosa è certa: l'identità è l'esito di una lunga faticosa marcia di conquista. Solo a fine percorso sappiamo chi siamo veramente. Non possiamo pretendere di dircelo una volta per sempre, attingendo poi a questa definizione con la stessa presunzione con cui trattiamo il nostro conto in banca.
    Il momento della morte è quello in cui in modo definitivo possiamo finalmente affermare la nostra identità. Ma, a quel punto, non ci serve più. Siamo come quegli studenti a cui balena la soluzione intelligente del problema qualche istante dopo aver concluso l'esame.
    L'identità non è utile a fine percorso; serve il lento procedere della nostra giornata, tappa dopo tappa.
    Possiamo sognare un tipo di identità conclusiva, nel momento solenne della morte, solo se l'abbiamo costruita così giorno dopo giorno.

    Quale identità?
    Non voglio dare una risposta sul piano dei contenuti. Questo è, in ultima analisi, un problema strettamente personale. Nelle pagine che seguono darò qualche suggerimento di merito. Non è la soluzione dei problemi; rappresenta solo un punto su cui confrontare la soluzione che personalmente ci diamo.
    Chiedo invece di verificare subito il modo con cui decidiamo la nostra identità. Su questo modello procedurale la fede diventa «adulta».
    Possiamo costruire la nostra identità solo dal silenzio della nostra interiorità. Ci diciamo «chi sia- mo» e «chi ci sogniamo» in quello spazio intimissimo e personale dove siamo sempre inesorabilmente soli e poveri. Lì ci ritroviamo senza le cose, i titoli, le sicurezze e gli idoli che ci danno conforto e sembrano tanto preziosi per dire a tutti chi siamo.
    Anche se ci affannassimo ad accumulare tesori di questo tipo, la morte ce li strapperebbe tutti, inesorabile come un ladro.
    La morte ci lascia senza le cose: dunque senza identità, se l'abbiamo costruita sulle cose. Un'identità dall'interiorità resiste invece al vento della morte. Nasce nel distacco quotidiano e progressivo, che anticipa quello della morte. Ci diciamo «chi siamo a», re fra- stando da soli, anche in mezzo a una compagnia fragorosa di amici e di testimoni.
    Questa è la fede adulta: una fede che viene dal silenzio dell'interiorità, dove tutte le voci risuonano interessanti, ma dove nessuna può pretendere di darci quella ragione per vivere e per sperare di cui abbiamo ardente bisogno.
    La fede ci costringe al coraggio solitario che assomiglia tantissimo a quello dei martiri d'un tempo passato e del nostro tempo: la fede trova forza e sostegno in se stessa e non cerca l'appoggio del consenso e dell'applauso.
    Vivere di fede è quindi evento di libertà, un gestoche irrompe nel centro più intimo dell'esistenza. Spesso non siamo in grado di oggettivare in modo adeguato questa esperienza. Ma essa resta, come una decisione ultima di coscienza non più applaudita da alcuno, in una speranza illimitata che supera le delusioni della vita e l'impotenza di fronte alla morte.

    2.2. Fiducia nella vita

    La morte produce un distacco obbligato e irrevocabile dalle cose e dalle persone. Recide, in ultima analisi, la trama quotidiana della vita.
    Ci sono ragioni da vendere per disperarsi. Che senso ha un'esistenza che si conclude in una costrizione senza appelli ad abbandonare tutto quello che è stato amato, costruito, realizzato?
    Possiamo amare una vita protesa verso un esito tanto triste e ingiusto?
    Gesù, a parole e a fatti, ha insegnato che possiede la vita solo chi la sa offrire totalmente, la possiamo amare solo se impariamo a consegnarla (Mt 16, 21; Lc 17, 33; Gv 12, 25). Molti uomini hanno preso sul serio queste idee, persino senza riconoscerlo in modo diretto.
    La fede genera vita e ragioni per vivere perché sollecita continuamente a possedere «consegnando» tutto. Così ha fatto Gesù, secondo il racconto di Luca: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Detto questo, spirò» (Lc 23,46).
    La fede è matura quando la fiducia piena nella vita diventa amore appassionato che sa condividere.

    2.2.1. Distacco dalle cose
    Il distacco dalle cose è irrimediabile. Non c'è scampo e non ci sono alternative: o impariamo a vivere imparando a morire, oppure viviamo «contro» la logica della morte, arraffando e accumulando in attesa di perdere tutto.
    Il distacco non è l'atteggiamento manicheo di chi disprezza tutto per un principio superiore. Distacco vuol dire invece consapevolezza crescente di una solidarietà che diventa responsabilità. Le cose sono per la vita di tutti.
    E tutti hanno il diritto di goderne, soprattutto hanno questo diritto coloro a cui sono sottratte più violentemente e ingiustamente.
    Il povero, l'essere-di-bisogno, è la ragione del mio distacco. Mi privo delle cose, giorno dopo giorno, proprio mentre le possiedo gioiosamente, per permettere ad altri di goderne un po' .
    L'esito è strano e assurdo nella logica in cui siamo abituati a lavorare: condividendo, tutti abbiamo tutto a sazietà.
    La parabola della moltiplicazione dei pani lo insegna senza mezzi termini: solo condividendo i pochi pani che qualcuno previdente aveva portato con sé, tutti si sono tolti la fame e ne sono rimaste sette sporte traboccanti (Lc 9, 12-16).
    Qui passa la linea di demarcazione tra due modi di vivere la vita: fidarsi tanto della vita da saper «partire in solitudine», distaccandosi dalle cose perché possano servire ad altri; oppure imprecare contro l'esistenza che ci strappa da quello che abbiamo cercato di afferrare a tutti i costi.

    2.2.2. Distacco dalle persone
    La morte ci strappa violentemente anche dalle persone con cui abbiamo condiviso un piccolo frammento di tempo, tanta passione ed esperienze originalissime di amore. Non le possiamo portare con noi, nonostante l'affetto intenso che ci lega. Le dobbiamo abbandonare alla loro solitudine e al loro dolore.
    L'abbiamo già sperimentato personalmente. Papà o mamma ci hanno lasciato, e sono scomparsi molti di coloro che ci hanno generato alla vita, dandoci ragioni per vivere. E se per fortuna sono ancora con noi, sentiamo incombente la minaccia della loro scomparsa.
    Lo sappiamo e ne soffriamo. Basta davvero poco per toccare dal vivo lo strappo violento e insanabile della morte. Parliamo tanto di amore, di solidarietà, dell'ebbrezza dello stare in compagnia. E poi... all'improvviso la luce si spegne: per noi e per gli altri. Di fronte a questa minaccia rispunta, più inquietante che mai, l'interrogativo: possiamo fidarci di questa vita che ci costringe a restare da soli e ci chiede di partire in solitudine?
    Fiducia nella vita significa, anche in questo caso, anticipare nel ritmo dell'esistenza quotidiana il distacco prodotto dalla morte, per non essere colti di sorpresa, quando verrà improvvisa e inesorabile.
    Verso le persone siamo chiamati a vivere un distacco simile e molto diverso da quello che realizziamo nei confronti delle cose.
    Non voglio giocare sulle parole. Non è certo questo il contesto per farlo.
    Per dire in modo concreto la qualità del distacco a cui dobbiamo allenarci, penso ai doni preziosi che ci hanno fatto amici che non sono più fisicamente in nostra compagnia.
    I cristiani proclamano, con forza e con fierezza, che Gesù di Nazaret è il Vivente. È vissuto duemila anni fa, in una regione lontana dalla nostra. Trascinato sulla croce dalla malvagità dei suoi nemici, ha vinto la morte e ha superato i confini del tempo. Vive oggi con noi.
    Lo stesso si dice di Maria, dei grandi credenti che hanno segnato la storia della loro presenza operosa.
    Io chiamo don Bosco «padre» perché mi ha dato, in modo specialissimo, ragioni per vivere e per sperare. Con tanti amici e con tanti giovani, diciamo che è ancora vivo in mezzo a noi, anche se la passione per i giovani l'ha consumato come una lampada che brucia l'ultima goccia di olio e poi si spegne.
    Certo, non è esattamente la stessa cosa riconoscere che Gesù è il Vivente e dire che Maria, don Bosco, i santi sono ancora vivi. È diversa la persistenza nella vita ed è differente il dono che la loro esistenza ci ha offerto.
    Gesù di Nazaret è veramente vivo in mezzo a noi, fondamento della nostra vita e della nostra speranza. Lo testimonia Pietro davanti al tribunale del sommo sacerdote e dei maestri della legge, irritati per la guarigione dello zoppo alla porta del Tempio: «Capi del popolo e anziani di questo tribunale, ascoltatemi. Voi oggi ci domandate conto del bene che abbiamo fatto ad un povero malato e per di più volete sapere come mai quest'uomo ha potuto essere guarito. Ebbene, una cosa dovete sapere voi e tutto il popolo d'Israele: quest'uomo sta davanti a voi, guarito, perché abbiamo invocato Gesù Cristo, il Nazareno, quel Gesù che voi avete messo in croce e che Dio ha fatto risorgere dai morti. [...] Gesù Cristo, e nessun altro, può darci la salvezza: infatti non esiste altro uomo al mondo al quale Dio abbia dato il potere di salvarci» (At 4,8-13).
    I santi e i nostri amici sono vivi in mezzo a noi perché ci siamo amati intensamente e perché la loro esistenza ha costruito la nostra. Quando la morte ce li strappa dal contatto fisico, resta il ricordo intenso della loro presenza. Li pensiamo con nostalgia, li avvertiamo ancora vicini perché la loro esistenza è stata un dono impagabile per la nostra vita.
    Ci hanno amato e hanno servito la nostra crescita nella libertà e nella responsabilità. Hanno generato in noi una qualità nuova di esistenza.
    Tutto ciò che ci parla di loro è per noi gradito e prezioso. Ci sentiamo soli e, nonostante tutto, non ne soffriamo, perché grazie a loro siamo diventati «adulti», capaci di vivere in solitudine.
    Molto diverso è il rapporto con persone di cui abbiamo un ricordo triste. Si arriva persino a dire: per fortuna, non ci sono più; ci hanno succhiato il sangue e ci hanno amareggiato l'esistenza... ma anche per loro la festa è finita. La loro partenza è salutata come una grande liberazione.
    Ho suggerito due situazioni opposte.
    A confronto con quello che altri sono stati per noi, è più facile dirci cosa significa imparare a vivere nel distacco verso le persone.
    Il distacco non spegne il ricordo e non brucia la capacità di generare ancora ragioni per vivere solo se, nell'avventura con gli altri, ho saputo costruire amore e libertà, servendo spassionatamente la loro gioia di vivere, la loro capacità di sperare, la responsabilità di crescere come protagonisti della storia personale e collettiva.
    Quando la mia presenza si fa ossessiva, quando cerco a tutti i costi di dominare la mano che mi chiede un aiuto, quando faccio prevalere il mio interesse su quello degli amici... non vivo nel distacco. Cerco di afferrare qualcosa che poi la morte mi strapperà violentemente. Resterò così senza quello che ho cercato di possedere e la mia partenza sarà accolta come una liberazione.
    Quando invece mi perdo nell'amore che si fa servizio, fino alla disponibilità a «dare la vita perché tutti ne abbiano in abbondanza», anticipo nel quotidiano quel distacco a cui la morte mi costringerà, presto o tardi. Il mio ricordo «resta», forte come l' amore .
    La nostra fede è diventata adulta perché abbiamo vinto anche la morte, anticipando, attraverso gesti pieni di vita, le sue richieste dolorose.

    3. IL PROCESSO VERSO LA FEDE «ADULTA»

    Non diventiamo adulti tutto d'un colpo. La nostra fede non diventa adulta con un tocco improvviso di bacchetta magica.
    Il cammino è lungo e impegnativo. La méta è luminosa e, da lontano, giudica il processo.
    La fede che fa credere alla vita resta un atto strettamente personale, giocato nella solitudine della propria interiorità. Lì, nel silenzio e nella sofferenza della solitudine, le ragioni di vita che altri hanno offerto diventano le «mie» ragioni di vita. Diventa quindi fede adulta solo quando ciò che è stato ricevuto, nello scambio di una testimonianza di vita, viene riconquistato personalmente.
    Questa è la condizione irrinunciabile. Solo quando la fede raggiunge questo indice di autenticità essa è capace di generare, nella libertà, vita d'attorno, dando ad altri quelle ragioni per vivere e sperare che sono state offerte a noi.
    Se questa condizione viene disattesa, siamo costretti a seminare di idoli i sentieri della nostra vita. Ci inquieta tanto la ricerca di ragioni per vivere che corriamo a spegnere la nostra sete alle cisterne piene di fango, e diventiamo tanto affamati di speranza da affidarla ciecamente al primo venuto.


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