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    La grazia è dono, ma anche compito (cap. 7 di: Il dono della grazia)


    Luis A. Gallo: IL DONO DELLA GRAZIA. Vita che sconfigge la morte, Elledici 1995



    «Grazia» significa «dono». Ma si tratta di un dono che Dio fa a persone libere, non ad automi o a burattini. Cosa comporta ciò nella concretezza della sua realizzazione? Ci interessa chiarirlo, nella misura in cui è possibile, perché ne va di mezzo la dignità umana e la stessa dignità di Dio.

    1. Un dono che non annulla bensì coinvolge la libertà umana

    Un dato emerge con chiarezza dalla Bibbia, tanto dall'Antico quanto dal Nuovo Testamento: la vittoria sulla Morte in tutte le sue molteplici sfaccettature è effetto di una iniziativa assolutamente libera dell'amore di Dio. È infatti il Dio Vivente a voler fare degli esseri umani, sempre in qualche misura in preda alla Morte, dei viventi in pienezza a immagine del Primogenito, Gesù Cristo (Rm 8,29-30), sul quale la Morte non ha più alcun potere (Rm 6,9). Perciò Egli interviene, mosso dal suo infinito e indefettibile amore, per strapparli dalla Morte e portarli verso la Vita. La grazia è, quindi, in questo senso e secondo l'etimologia stessa del termine (chāris), un dono che Dio, secondo una sua libera ed eterna decisione, fa agli uomini, che ha predestinati sin dall'eternità ad essere suoi figli nel Figlio (Ef 1,4-5).
    Ma c'è pure un secondo dato che emerge con non minore chiarezza dalla Bibbia: questo Dio Vivente, proprio perché ha creati gli esseri umani liberi, vuole che essi stessi diventino soggetti del trionfo sulla Morte.
    I due dati si possono facilmente ravvisare nei due interventi di grazia per eccellenza, l'esodo e la Pasqua.

    L'esodo, un avvenimento teandrico

    Nell'avvenimento dell'esodo, infatti, l'iniziativa che scatena tutto il processo grazie al quale la sorte dei discendenti di Abramo schiavi in Egitto viene rovesciata, è palesemente del Dio Jahvè. Egli, mosso a compassione dai clamori che salgono verso di Lui, scende per liberarli e portarli verso la terra che stilla latte e miele (Es 3,7-8). Come si legge nel libro del Deuteronomio, quest'iniziativa non ha altra motivazione che l'amore sovranamente libero dello stesso Dio: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli [.. .], ma perché vi ama» (Dt 7,7-8). È dono gratuito. La stessa affermazione è presente, apertamente o implicitamente, in ogni pagina della narrazione.
    Ma, allo stesso tempo, appare chiaro che il Dio Jahvè agisce coinvolgendo le mediazioni umane: Mosè, anzitutto, e poi l'intero popolo, i quali, fondandosi sulla certezza del volere del loro Dio, s'impegnano nello sforzo di aprirsi una strada verso la libertà e la vita. Infatti, stando sempre alla narrazione biblica, non appena Jahvè finisce di dire a Mosè che ha ascoltato il grido degli Israeliti, aggiunge: «Ora va'! Io ti mando dal faraone. Fa' uscire il mio popolo, gli Israeliti!» (Es 3,10). Egli affida alla responsabilità e allo sforzo di quell'uomo la realizzazione della liberazione del popolo.
    Si può quindi parlare con ragione di un avvenimento teandrico, in quanto vi sono strettamente coinvolti e Dio e l'uomo.

    La Pasqua: Dio e l'uomo Gesù all'opera in favore della Vita

    Nella Pasqua del Nuovo Testamento l'autore primo della risurrezione di Gesù di Nazaret è indubbiamente il Padre, che fa entrare il suo Figlio nella pienezza della Vita mediante la potenza del suo Spirito. Ogni volta che gli scritti neotestamentari proclamano la risurrezione, l'attribuiscono a Dio, intendendo per Dio il Padre (At 2,24.32, ecc.). Ma lasciano capire anche che lo stesso Gesù non vi prende parte in maniera meramente passiva, ma attivamente e responsabilmente.
    Lo mettono in risalto tanti testi (per es. Gv 10,14), ma lo troviamo in forma particolarmente palese nell'inno cristologico della lettera paolina ai Filippesi. In esso l'Apostolo, prima di passare a esaltare l'intervento glorificatore del Padre grazie al quale a Gesù viene dato «il nome che è al di sopra di ogni altro nome», ossia il titolo glorioso di «Signore», rammenta la tappa terrena della sua esistenza e l'atteggiamento di fondo con cui egli la visse: «Il quale - afferma - pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato» (Fil 2,6-11). Il «per questo» del testo è molto denso e significativo. Permette di capire che Gesù non visse l'avvenimento pasquale passivamente, che egli non fu soltanto oggetto dell'intervento divino, ma che collaborò attivamente e responsabilmente in esso. La sua responsabilità lo portò perfino a morire sulla croce. Il suo fu un agire nel quale si giocò tutta la sua libertà di uomo. Il dono di Dio non lo ridusse perciò a un automa, ma gli offrì l'opportunità di essere veramente responsabile nei confronti del grande progetto di salvezza del Padre per l'umanità.

    2. Le difficoltà di un'armonizzazione

    Quanto abbiamo finora esposto equivale a dire che Dio mette nelle mani dello stesso uomo la vittoria della Vita sulla Morte, senza per questo ritirarsi e pur rimanendo sempre presente e attivo. Perciò la grazia diventa compito, impegno. È sempre una realtà teandrica, risultato di un'alleanza di cui l'iniziativa prima è tuttavia sempre di Dio e del suo amore compassionevole.
    Certo, l'armonizzazione di questi due poli - quello divino e quello umano - non è facile. Lo dimostra l'esperienza storica della Chiesa, e in particolare quella della riflessione teologica. Più di una volta attraverso i secoli, infatti, c'è stato chi ha annullato o indebolito uno dei due a beneficio dell'altro. Oppure si è arrampicato sugli specchi nel tentativo di trovare il modo di farli stare insieme. Non risulterà inutile, agli scopi della nostra riflessione, una breve rivisitazione di questa storia.

    Le antiche polarizzazioni

    Abbiamo già accennato, nel capitolo terzo, alle discussioni scatenate dal monaco Pelagio e dai suoi seguaci, verso la fine del secolo quarto e gli inizi del quinto, come anche alle reazioni del «Dottore della grazia», sant'Agostino, nei confronti delle loro affermazioni. Essi sbilanciavano totalmente (o quasi) l'equilibrio tra i due poli integranti la grazia in favore del polo umano, riducendo lo spazio di quello divino. Secondo loro l'uomo può procurarsi da sé (con le sue sole risorse naturali) la propria salvezza piena e definitiva; può da se stesso evitare ogni peccato, anche quello detto veniale, e presentarsi giusto e santo davanti a Dio. Che cos'è allora la grazia divina secondo i pelagiani? È la possibilità naturale di fare il bene data sin dalle origini da Dio all'uomo, la capacità di decidere liberamente per il bene avuta da Lui con la creazione. Invece il voler realizzare di fatto il bene e il passare di fatto a realizzarlo, sono completamente in mano all'uomo. Tutt'al più la grazia è, nella loro opinione, uno speciale aiuto di Dio solo per fare il bene più facilmente, aiuto esterno che viene all'uomo soprattutto attraverso la dottrina e l'esempio di Cristo (grazia esteriore).
    In sostanza, Pelagio e i suoi negavano l'esistenza di un influsso interiore di Dio sull'agire salvifico dell'uomo, perché ciò avrebbe appannato la libertà dell'uomo. L'unica vera grazia interiore che ammettevano era quella del perdono dei peccati conferita dal Battesimo a chi si convertiva dai peccati alla fede.
    Tutto ciò si collegava col fatto che essi negavano l'esistenza di quello che è stato chiamato il «peccato originale», effetto altamente negativo, in ogni uomo, della trasgressione commessa da Adamo ed Eva agli inizi della creazione (Gn 3,1-22). Questo peccato, secondo quanto mise in evidenza sant'Agostino in polemica con le affermazioni dei pelagiani, intacca profondamente la libertà dell'uomo fino a impedirgli di decidere per il bene. A causa di detto peccato - egli afferma - il libero arbitrio dell'uomo è profondamente ferito e non è capace di fare il bene; anzi, non può che peccare. Esso non può essere usato rettamente se non grazie a un aiuto particolare di Dio mediante Cristo, aiuto che egli chiama «delectatio victrix». Si tratta di un'attrattiva verso il bene che supera la concupiscenza o attrattiva verso il piacere peccaminoso. Solo con questo aiuto, che gli viene unicamente da Dio, l'uomo può scegliere il bene e anche perseverare in esso fino alla fine.
    Come si vede, Agostino, in reazione all'eccessivo ottimismo pelagiano circa le capacità umane, inclina la bilancia dalla parte opposta. Egli accentua fortemente l'intervento di Dio, ma lascia oscurato quello umano, che viene da lui visto in chiave notevolmente pessimista. Non nega certamente la necessità dell'azione umana nella ricerca della salvezza. Lo provano certe sue affermazioni molto conosciute, come quella in cui dice: «Colui che ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te». Sta di fatto tuttavia che l'ago della bilancia pende, nella sua concezione, dal lato dell'agire divino.
    Non si può non percepire in questa concezione agostiniana l'influsso della sua stessa esperienza personale, fatta di inutili e ripetuti tentativi di uscire dalla sua condizione di peccato fino al momento in cui si sentì liberato da essa per l'intervento divino. Non è da stupirsi che egli abbia proiettato su tutta la sua riflessione attorno al dono di Dio ciò che aveva vissuto con tanta intensità. E la sua impostazione lasciò profonde tracce sulla vita e sulla riflessione posteriore della Chiesa, soprattutto di quella occidentale.

    Ulteriori sviluppi

    Lo sbilanciamento tra i due poli della grazia -il dono divino e l'impegno umano - continuò a creare problemi nella storia della Chiesa. Ancora ai tempi di Agostino ci fu la reazione contro di lui dei «semipelagiani», già precedentemente ricordati, i quali in qualche misura tornarono a ridare, almeno parzialmente, il primato all'impegno libero dell'uomo nell'ambito della salvezza. Essi sottraevano all'intervento divino quello che chiamavano «l'inizio della fede», ossia i primi passi verso la conversione e il Battesimo, per lasciarlo interamente liberato alla sola iniziativa umana. Il Magistero della Chiesa, che sentì il bisogno di ribadire ancora la bipolarità della grazia nell'importante Concilio regionale di Orange (518), approvato poi anche da papa Bonifacio II, lo fece, tuttavia, dato il contesto polemico in cui si muoveva, con una certa tendenza a privilegiare il polo divino.
    Più vicino a noi nel tempo, Lutero riprese in forma esasperata le tesi agostiniane, sfociando in un pessimismo esacerbato. Per lui, l'uomo da se stesso non può fare assolutamente nulla in ordine alla propria salvezza; anzi, non può fare altro che peccare. E anche dopo aver ricevuto, con il Battesimo, il dono della grazia che lo fa passare dalla Morte alla Vita perché lo converte in figlio di Dio e in tempio dello Spirito, incorporandolo a Cristo, egli continua ad essere intrinsecamente corrotto. Il suo libero arbitrio, ma anche la sua ragione, sono solo fonte di male. Il dono di Dio ricopre, in chi crede fermamente in Cristo, questa sua corruzione e lo considera come se fosse innocente. Gli atti buoni che egli riesce così a fare sono, in pratica, solo opera di Dio in lui.
    Il Concilio di Trento che, come è stato detto nel capitolo terzo, si radunò per ribattere le prese di posizioni di Lutero e dei suoi seguaci, formulò proposizioni molto equilibrate da questo punto di vista. Mise più di una volta in evidenza il primato dell'iniziativa divina nell'opera della giustificazione, ma allo stesso tempo ribadì sia il fatto che il libero arbitrio non fosse estinto nell'uomo, ma soltanto attenuato e indebolito (ses. VII, can. 5), sia la necessità della libera collaborazione dell'uomo per la sua salvezza (ses. VII, can. 7.32). Ciò che non fece questo Concilio, perché era fuori dell'orizzonte delle sue intenzioni, fu lo spiegare come stavano insieme le due cose. Il che diede origine a ulteriori discussioni tra i teologi una volta finita la sua celebrazione.

    Un complicato groviglio di discussioni

    La tendenza accentuatamente speculativa della teologia del periodo postridentino portò i teologi a concentrare lo sforzo nel cercare di chiarire il modo in cui potevano stare insieme l'azione divina e l'azione umana nell'ambito della grazia. Ne nacquero scuole contrapposte. Tra esse, le più celebri sono quella «molinista» e quella «bagnesiana». Semplificando le cose, possiamo dire che la prima, ispirata al gesuita L. de Molina ( + 1600), sottolineava con forza il valore della libertà umana. Secondo i molinisti, infatti, la libertà dell'uomo, non essendo stata sostanzialmente corrotta dal peccato originale, agisce insieme alla grazia offerta da Dio, permettendole di raggiungere il suo scopo salvifico. La seconda scuola, con a capo il domenicano D. Báñez (+ 1604), elaborò un complesso e complicato sistema di pensiero per cercare di dare risposta alla questione proposta.
    Non è il caso di soffermarsi sui dettagli di queste discussioni, difficilmente afferrabili da una mentalità attuale. Ciò che interessa invece rilevare è che le discussioni divennero così sottili e così aggrovigliate e roventi, che a un certo punto ci volle l'autorità papale di Paolo V per stroncarle (1607), anche perché ne andava di mezzo più di una volta l'amore fraterno.
    Maggiori conseguenze pratiche provennero dalle prese di posizione della corrente giansenista. Il suo iniziatore, il vescovo olandese Giansenio ( + 1638), fu un grande studioso di sant'Agostino, del quale assimilò le principali tesi teologiche, esasperandone tuttavia gli aspetti pessimistici. Da esse lo stesso Giansenio, come anche i suoi seguaci, derivarono conseguenze di un rigorismo esasperato nella vita di fede, che ebbe molte ripercussioni nella vita dei credenti fino quasi agli inizi del nostro secolo. Perfino un grande pensatore cristiano quale fu B. Pascal ne fu profondamente intaccato, prendendo partito per esso nelle sue famose Lettere provinciali.

    Un vizio d'impostazione

    Cosa dire davanti a questo complicato quadro storico? che pensare dei tentativi fatti dalle diverse correnti teologiche? Possiamo affermare che, malgrado le rispettabili intenzioni dei loro fautori di aiutare la fede nella comprensione del mistero della grazia, esse hanno un vizio di fondo: quello di supporre una rivalità tra Dio e l'uomo, tra l'agire divino e quello umano, sicché ciò che viene attribuito all'uno sia sottratto all'altro e viceversa.
    Occorre invece tener chiaramente presente che i due protagonisti della grazia come vittoria della Vita sulla Morte non sono sullo stesso piano, dal momento che uno, Dio, agisce sul piano divino e l'altro, l'uomo, sul piano umano. Perciò essi non si escludono affatto; anzi, sono in costante e stretto rapporto tra di loro, anche se il senso profondo di questo rapporto ci sfugge, poiché non conosciamo pienamente la natura di uno dei termini, quello divino, che rimane sempre umanamente inaccessibile, misterioso.
    Una cosa possiamo concludere da quanto esposto, probabilmente un tantino arido e di difficile comprensione: che nell'ordine della grazia, tutto è opera di Dio e tutto è opera dell'uomo. Ognuno dei due protagonisti opera secondo il suo modo di essere:
    Dio, in modo divino; l'uomo, in modo umano. Il fatto che ci sfugga il modo divino di agire non oscura però l'affermazione della piena libertà dell'uomo.

    3. Una comprensione attuale dell'impegno

    Le discussioni che abbiamo voluto ricordare per offrire una panoramica più completa della riflessione storica sulla grazia, non possono farci perdere di vista un dato essenziale: la vittoria della Vita sulla Morte è certamente un dono del Dio che si è rivelato come Amore (1 Gv 4,8.16), ma è anche un impegno e un compito degli esseri umani. Quale? Rispondiamo, secondo la logica delle riflessioni che abbiamo portato avanti finora, dicendo che la grande grazia-impegno-compito dell'umanità è quella di «fare la Pasqua» del mondo. L'espressione «fare Pasqua» o «fare la Pasqua» ha acquistato lungo i secoli un senso riduttivo, poiché è stata intesa in maniera prevalentemente cultuale e sacramentale. Molti la intendono come il fatto di accostarsi ai sacramenti della Riconciliazione e dell'Eucaristia in occasione della festa pasquale annuale. «Fare la Pasqua», invece, stando a quanto possiamo ricavare dai dati biblici, ha un senso molto più ricco e denso che va al di là del meramente cultuale e liturgico. Significa impegnarsi a riprodurre nel mondo ciò che è avvenuto nella Pasqua di Gesù, ossia il trionfo della Vita sulla Morte. Significa, quindi e di conseguenza, lottare contro il trionfo della Morte sulla Vita, che è il peccato, in tutte le sue manifestazioni concrete.
    Responsabilità e impegno degli uomini, e naturalmente in primo luogo dei credenti in Cristo, è cercare che la Pasqua di Gesù germogli nel mondo. E, possiamo aggiungere, che germogli a modo di cerchi concentrici: nel piccolo mondo del proprio cuore, dove si annidano le forze di Morte che Gesù mise allo scoperto in più di un'occasione (Mc 7,20-23); nel mondo dei rapporti interpersonali, nel quale spesso la Morte prende il sopravvento sulla Vita in tante forme concrete, che vanno dall'orgoglio alla rivalità, dall'invidia alla sopraffazione, e in molte altre manifestazioni; nell'ambito sociale e perfino planetario, dove organizzazioni e strutture di diversa indole e grandezza generano Morte per milioni e milioni di persone.
    Vivere immersi in questi diversi mondi, collaborando, nella misura delle proprie capacità e possibilità, a far sì che la Vita trionfi sulla Morte: ecco il compito definitivo per il quale Dio stesso, Gesù risorto e lo Spirito Santo sono sempre con gli uomini. «Come il Padre risuscita i morti e dà loro la Vita, così anche il Figlio dà la Vita a chi vuole» (Gv 5,21). Perciò la grazia è anche «perdono dei peccati» (Gv 20,22-23; Lc 24,46-47), nel senso di rimozione di tutte quelle situazioni di anti-vita che trovano posto nella vita del mondo, e specialmente di quelle che dipendono dalla libera decisione singola o collettiva degli uomini.


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