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    Alla ricerca di una

    spiritualità per educatori

    Introduzione e prima parte

     

    Giovanni Battista Bosco, Crescere come animatori della fede. Una spiritualità per educatori di ragazzi e adolescenti, Elledici 1994


    «G
    esù è venuto per dare risposta definitiva all'anelito di vita e di infinito, che il Padre celeste creandoci ha inscritto nel nostro essere. Al culmine della rivelazione il Verbo incarnato proclama: "Io sono la vita", ed ancora: "Io sono venuto perché abbiamo la vita". Quale vita? L'intenzione di Gesù è chiara: la vita stessa di Dio, che sorpassa tutte le aspirazioni che possono nascere nel cuore umano».

    (Giovanni Paolo II, VIII Giornata Mondiale della Gioventù, 1993)


    PRESENTAZIONE

    Un nuovo libro sulla spiritualità! Ma non ce ne sono già troppi? L'obiezione forse è appropriata, può suonare a proposito.
    Eppure mai come oggi, mi pare, si avverte la necessità di riflettere su questo tema, di presentare proposte, di approfondire modelli percorribili.
    La domanda è in crescendo, non sembra accennare ad esaurirsi. E lo è ancor più tra i giovani, affermano gli esperti.
    Magari si tratta solo di nostalgia di religiosità, forse non si sa chiaramente ciò che si vuole, o anche ci troviamo di fronte a tentativi di riempire i vuoti del cuore.
    Oppure è ricerca sincera di vivere in profondità, di scoprire le ricchezze della proposta evangelica, o, perché no, la voglia di camminare sulla via della santità.
    Rimane comunque indubbio che l'esigenza resta e rincorre una risposta che sia soddisfacente.
    Hanno ragione i giovani che ci rimproverano: «Ci riempite di tutto, ma ci private dell'essenziale; ma non vi accorgete che il giovane di oggi fa tutto senza gioia: e perché?». Oppure ci incoraggiano: «Siate uomini autentici, persone spirituali. Abbiamo bisogno di testimoni dei valori dello spirito».
    E noi, come educatori, intendiamo raccogliere la sfida.
    Questo volume rappresenta un tentativo di risposta alle attese. Si colloca tra i tanti con una sua singolarità.
    Non è un trattato di spiritualità e neppure un libro di formazione spirituale. Non si rivolge direttamente agli adolescenti, anche se si riferisce continuamente a loro. Bensì agli aducatori, che vengono costantemente interpellati e provocati a misurarsi sul profondo desiderio di Dio che ogni giovane porta in cuore.
    Si tratta piuttosto di una conversazione da educatore a educatori, condotti per mano dall'esperienza educativa di don Bosco, che viene codificata in una autentica pedagogia spirituale. È un intrattenersi da uomini spirituali sul cammino percorso da testimoni santi per intuirne le tracce e seguirne le orme.
    Un'espressione tratta dal vangelo di Luca ha ispirato e accompagnato il lavoro di stesura di questo volume. I discepoli di Emmaus «si dissero l'un l'altro: non sentivamo come un fuoco nel cuore, quando Gesù ci parlava lungo la via?» (Lc 24,32).
    La pretesa del nostro conversare sta appunto qui: assumere l'atteggiamento educativo di Gesù che accompagna lungo il cammino, avvertire insieme quel fuoco nel cuore che ha animato i discepoli, proseguire con coraggio sulla strada della vera Vita.
    L'intento è quindi quello di prefigurare un itinerario educativo da percorrere insieme per giungere a far sì che, con noi, anchei giovani possano essere compagni di viaggio in una originale avventura spirituale sulla scia di don Bosco e dei suoi ragazzi. La spiritualità in pienezza è una mèta che ci arride davanti. Per noi e per i giovani occorre preparare la pista perché il cammino diventi agevole e possibile ai più. È quanto ha creato don Bosco sotto l'azione dello Spirito. Noi siamo ben lieti di riproporre il progetto di vita cristiana nel suo stile: è una santità per definizione giovanile e popolare, una santità quotidiana realizzabile da tutti, una santità dal volto sorridente e simpatico.
    II testo si articola nel modo seguente.
    Dopo il proemio sul senso della proposta, si apre con una prima parte: «Alla ricerca di una spiritualità per educatori». In essa si afferma che la spiritualità ha radici nel cuore dell'uomo e si conforma in uno stile di vita. Si pone allora in una primo momento questo stile spirituale sotto i riflettori per illuminarne i quattro punti cardinali su cui si basa la spiritualità di don Bosco: la sollecitudine di guadagnare i giovani a Dio, il binomio don Bosco e i giovani, la ricchezza del sistema preventivo e la peculiarità di una scuola di spiritualità.
    In un secondo momento viene illustrata la proposta di vita spirituale sotto due profili fondamentali: l'ispirazione mistica e l'impegno ascetico. Sono due facce di un'unica realtà che si concentra nella carità educativa. L'una evidenzia maggiormente l'attrattiva mistica dell'amore che salva e l'altro pone in rilievo l'indispensabilità di un amore esigente che si dona ai giovani. Per ambedue ci si ispira allo stile di vita di don Bosco.
    La seconda parte dal titolo: «Alla ricerca della spiritualità vissuta in modelli» descrive la santità giovanile, letta alla luce delle biografie di don Bosco su tre suoi ragazzi. Si cerca di cogliere l'animo giovanile nella sua disponibilità spirituale, si delinea poi la forza del patto educativo per costruire personalità, e infine vengono svolte alcune considerazioni sulla vita teologale proponibile a giovani comuni.
    «Proposta di vita in abbondanza» è la titolazione della terza parte. Una caratteristica tipica dello stile di vita proposto sta nella sua quotidianità. La vita di ogni giorno è il luogo della propria santificazione. Il quotidiano è dunque la trama della vita, in cui si rende possibile l'esperienza di Dio, anzi è il luogo dell'incontro con Dio.
    Nella quarta parte viene collocata la spiritualità all'interno del cammino di Chiesa attuale. La vita spirituale si incultura in un contesto ecclesiale: oggi è quello della nuova evangelizzazione. La novità dei tempi richiede novità di prospettive, che si chiamano sfida della nuova educazione, evangelimwione della cultura, sviluppo di una nuova comunicazione. Ma esige anche novità di impegno che si traduce in un cammino nuovo nel suo ardore, nei suoi metodi e nella sua espressione.
    La conversazione si conclude con la quinta parte: «In dialogo con il Signore nella vita quotidiana». Non poteva mancare qualche riflessione sulla preghiera, parlando di spiritualità. È una preghiera nello stile quotidiano e apostolico, caratteristiche dell'unione con Dio di don Bosco. Un cenno a Maria del Magnificat fa da epilogo al nostro scambio spirituale.
    Al volume presentato sottendono le intenzioni migliori. Non sempre però sono sufficienti a soddisfare legittime attese. Sono certo tuttavia che ciascuno di noi è ben conscio che al di là delle risposte esiste una domanda che merita attenzione. Mi auguro di essere riuscito a suscitare la voglia di viverla.


    PROEMIO

    Caro educatore, mi metto in cammino con te. So che la tua strada non è sempre agevole: si frappongono intralci o emergono remore. È il mio stesso vissuto!
    Avvertiamo spesso l'esigenza di sostare lungo la via per riprendere fiato, o meglio per fare il pieno d'aria nei polmoni. Si riprende poi il cammino con maggior slancio e vigore.
    La sosta che ti propongo però non invita a guardarsi attorno, per godere o rammaricarsi di ciò che avviene. Assai più intende stimolare a guardarsi dentro, per scoprire «come un fuoco nel cuore», ciò che sentirono i due discepoli di Emmaus dopo aver riconosciuto il Signore (Lc 24,31-32).
    So che sei impegnato su tanti fronti come educatore: a interpretare la domanda giovanile, procedere con un progetto, interrogarti suoi nuovi valori, a riconoscere i punti educativi nodali, occuparti di animazione, districarti tra le proposte di itinerari. Non manca anche il tuo interesse per le nuove tecniche comunicative e la sussidiazione multimediale, come per i linguaggi che ci sorprendono sempre più per la loro forza persuasiva.
    L'attenzione tua verte pure su come accogliere con consapevolezza l'appello del Papa alla nuova evangeli77azione per educare con efficacia alla fede; così ti addentri nel vasto campo della cultura odierna e dell'impegno etico e civile nella società.
    Come educatore sei consapevole di non poterti permettere di stare alla finestra di fronte a un mondo che cambia vorticosamente. Anzi, vuoi viverci dentro da protagonista, scommettendo sull'educazione e sulla sua rilevanza sociale e culturale.
    È un compito grande il tuo. Lo asserisce anche il Papa: «Forse, mai come oggi, educare è diventato un imperativo vitale e sociale insieme... Forse, mai come oggi, il mondo ha bisogno di chi faccia dell'educazione la propria ragion d'essere e ad essa si dedichi come a finalità prioritaria». Diviene sempre più indispensabile impegnare senza riserve le proprie energie per rinnovare con creatività e responsabilità i processi educativi. In verità «essere educatore oggi comporta una vera e propria scelta di vita» (JP 17). Del resto, e lo sappiamo, la posta in gioco è alta: la piena dignità dell'uomo. Ce lo conferma ancora il Papa: «Il fatto culturale primo e fondamentale è l'uomo spiritualmente maturo, cioè l'uomo pienamente educato».
    La questione decisiva sta appunto qui: «che l'uomo diventi sempre più uomo, che possa essere di più..., che sappia sempre più pienamente essere uomo» (JP 1).
    Se tale è il compito, non può stupire o sorprendere che all'educatore venga richiesto molto. I mille atti del fare educazione ne sono parte rilevante e indispensabili sono i tanti strumenti educativi di cui servirsi. La mediazione culturale e la relazione educativa non possono sottrarsi alla ricchezza del patrimonio umano di chi intende accompagnare verso la maturità. Contenuti di valore e metodi pedagogici rappresentano il pane quotidiano per un educatore, come la disponibilità all'incontro e la sapienza della vita indicano la via maestra da percorrere.
    Da ciascuno di noi educatori si richiede l'intelligenza della mente, l'ardore del cuore e l'efficacia del gesto. È richiesto in particolare il vigore dello spirito, senza di cui il resto diviene fallace. Il nostro agire educativo rischia di essere un semplice agitarsi, se non è sorretto da un supplemento d'anima, di interiorità, da spiritualità che scaturisce dalla sorgente della Vita.
    A questa pausa ti invito, per dissetarci alle fonti d'acqua fresca, per penetrare nella profondità del tuo essere educatore, in modo da evocarne il senso nascosto e accoglierne l'intensità e lo spessore.
    Solo una simile sosta, immerso nella spiritualità, ti farà riprendere il cammino, consapevole della tua degna missione e della chiamata a generare sempre più vita, perché tutti «abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).

    PARTE PRIMA
    ALLA RICERCA DI UNA SPIRITUALITA PER EDUCATORI

    Di spiritualità dunque intendo discorrere con te: la ritengo essenziale e indifferibile al compito educativo che svolgi.
    Ma mi si impone di sgombrare il campo, sin dall'inizio, da eventuali equivoci e possibili fraintendimenti. Senza dubbio il tema, oggi ritenuto attuale, si presta ad ambiguità.

    1. Un problema che ha radici nell'uomo

    Spiritualità è un termine che provoca oggi risonanze ambivalenti, se non addirittura contrastanti. Da una parte cioè può suscitare l'immagine di un giardino nel deserto, una raffinatezza di qualità di vita per pochi; oppure anche far pensare a una realtà evanescente, come nuvole al vento in un cielo terso, lontana dal marasma quotidiano della vita. Dall'altra si può investire su di essa la mitica attesa di soluzioni definitive di fronte alle questioni vitali di ogni giorno, credendo di potervi fare ricorso per colmare in qualsiasi modo negligenze e incompetenze.
    Un dato appare comunque incontrovertibile: una soffocata ansia «spirituale» emerge inusitata tra le pieghe del nostro tempo. Il pullulare nella società di movimenti a carattere «religioso», l'attenzione ricuperata per la dimensione «invisibile» dell'esistenza, il ricorso di ideali nella generale condizione di mediocrità sono tutti sintomi di un risveglio che reclama risposte soddisfacenti al «mistero» dell'uomo.
    C'è oggi voglia di sfida verso la società a una dimensione, anche se di frequente si tratta di voglia rimossa, talora indolente. Inesorabilmente però si reagisce alle ragioni formali, ci si sottrae alla tirannia di ciò che è funzionale, si dubita del progresso a tutti i costi, si guarda con sospetto a una mente senza cuore. Ridurre l'uomo a giocare al demiurgo, al possesso delle cose, a macchina da produzione, non provoca che prevedibili reazioni.
    Allora si va alla ricerca di vie che accostino al mistero delle cose che ci attorniano e degli eventi che ci coinvolgono. Si reclama un'etica di condotta quale risposta di autenticità e responsabilità nei confronti degli uomini e della stessa natura. Non si abdica sino in fondo alla propria dignità, anzi ci si ribella con gesti emblematici e si scoprono nuovi riti per celebrare il senso della vita.
    L'urgenza irrompente di novità dice dunque richiesta di vita nuova, di qualità dell'esistere, esigenza di trasparenza spirituale. È un accorato appello alla profonda esigenza di genuina interiorità e di ricerca di pienezza di vita.
    Peraltro, e ne siamo tutti convinti almeno a livello teorico, tale anelito di «spiritualità» non deve essere confuso con una sorta di «spiritualismo di evasione» o interpretato come «ascetismo di pratica formale». Nelle sue espressioni migliori, il ricupero di spiritualità non rappresenta una specie di riflusso nostalgico tra le macerie attuali, come neppure un tipo di ripiegamento di fronte agli ostacoli del quotidiano. È piuttosto la carta costituzionale su cui misurare i propri impegni storici e riconoscere l'iniziativa del Dio vivente che percorre le strade dell'uomo per salvarlo.
    Ma che si intende allora per spiritualità, o meglio per spiritualità cristiana?

    2. Uno stile di vita nello Spirito

    No, caro educatore, non intendo disquisire sulle definizioni. Non è quanto ti può aiutare e quindi neppure ciò che mi propongo.
    Si tratta solo di accordarci su taluni punti di riferimento per comprenderci veramente e continuare insieme il nostro cammino di ricerca. Il resto può essere valido, ma rimane fuori dalle nostre prospettive.
    Parlare di spiritualità significa, come hai già intuito, puntare l'attenzione sulla «vita spirituale», la «vita secondo lo Spirito». In altre parole è «l'esistenza cristiana orientata alla perfezione della carità». Come ben noti, l'accento viene posto sul «vissuto», inteso come insieme di ispirazioni e di convinzioni che ci animano interiormente, e al contempo anche come insieme di reazioni ed impressioni che manifestano nella vita concreta quanto è vissuto nell'invisibile.
    I punti di riferimento di tale vissuto rimangono sostanzialmente due: l'esperienza cristiana, con ciò che la caratterizza come vita di discepoli di Cristo; e la perfezione della carità, che è cammino in progressione verso la pienezza di spiritualità, ossia verso il suo culmine, la santità.
    Spiritualità e santità sono quindi due termini che si richiamano a vicenda, sono realtà in stretta connessione.
    Ma allora, se la situazione sta in questi termini, non esiste che «una» spiritualità cristiana e ciascuno di noi è chiamato a tale santità. Beh, originariamente e sostanzialmente sì! E tuttavia una simile impostazione non darebbe ragione della storicità dell'uomo e del suo vissuto inculturato, come anche misconoscerebbe che l'incarnazione di Cristo è reale e l'evangelo attraversa e fermenta il tessuto umano nello scorrere della storia.
    I cristiani, quali uomini collocati nel tempo e nello spazio, non possono certo arrogarsi la capacità di accogliere e vivere il vangelo nella sua ampiezza totale. Inoltre come esseri che conoscono il limite personale e le diversità culturali, vivono di fatto la loro fedeltà all'essenziale con mentalità e modalità differenti. I molteplici stili di vita spirituale hanno perciò la loro ragion d'essere, anche se si rifanno necessariamente tutti all'unica matrice, la spiritualità cristiana.
    Del resto una tipica spiritualità è segno dell'inesauribile ricchezza del mistero di Dio: esprime lo stile pecuriale di vivere una chiamata, di svolgere una missione; manifesta la sua maniera caratteristica di affrontare la vita cristiana come sintesi vitale dei valori evangelici; indica la sua forma speciale di seguire il Signore, come apostolo del Padre; realizza un progetto singolare di vita cristiana.

    3. Spiritualità apostolica e santità educativa

    Credo abbia intuito dove intendo condurti. No, non ho dimenticato che sto conversando con un educatore. Solo mi premeva prendere l'avvio con il piede giusto, per non incamminarti su una strada senza perlomeno comunicartene il perché. Anche se le note precedenti sono assai essenziali, ti hanno fatto cogliere che ci muoviamo all'interno di una realtà assai più grande di noi e che i doni dello Spirito sono molteplici e vengono affidati a singoli per l'edificazione comune e solidale del Regno di Dio.
    E ora riprendiamo il filo del discorso interrotto.
    Esiste dunque una pluralità di espressioni della spiritualità nella Chiesa: vengono classificate nei modi più differenti, a seconda dei criteri usati e delle prospettive assunte.
    Giova al nostro scopo richiamare una distinzione classica e consueta, oggi: le spiritualità della contemplazione e dell'azione. Ci permette di riconoscere i vari stili di vita spirituale e le loro caratteristiche.
    Ordinariamente si è soliti identificare una certa spiritualità con «una sola» categoria interpretativa, come ad esempio la contemplazione o l'azione. Questo però non rende ragione del vissuto reale, che rimane sempre più complesso e articolato. E tuttavia intuiamo che differenti espressioni spirituali possono trovare molte somiglianze, se non addirittura riconoscersi in un denominatore comune, distinguendole da altre.
    La considerazione suona molto formale, penserai. Eppure è di rilievo, perché non si tratta di una semplice aggregazione di esperienze similari, bensì, assai spesso, ci si trova di fronte a tipiche espressioni del dinamismo spirituale ed evangelico, che meritano una loro configurazione. È pur vero che sottolineare un aspetto non annulla gli altri: si opererebbe una forzatura. Ma il mettere in evidenza la «dominante» di una spiritualità, aiuta a percepire la sua peculiarità, attorno a cui tutto il resto viene integrato o si fa sintesi. È come dare volto a una famiglia in tutto ciò che la qualifica.
    La nostra esperienza di educatori ci avverte subito che la cosa ci riguarda da vicino. Serve un modello per raffigurarci la realtà e penetrare nel vissuto: don Bosco, un santo educatore e un educatore santo, «iniziatore di una vera scuola di nuova e attraente spiritualità apostolica» (JP 5). La sua esperienza spirituale ed educativa è emblematica per molti, specie per educatori. Con ragione ci si riferisce alla sua esperienza, declinandola come «spiritualità apostolica» (Giovanni Paolo II), «carità educativa» (C. M. Martini), «santità apostolica» (A. Ballestrero), «santità educativa» (E. Viganò). Don Bosco, cioè, rivela una singolare testimonianza di esistenza nello Spirito e di agire apostolico: è costituito particolare segno della potenza salvatrice di Dio «che previene ogni creatura con la sua provvidenza, l'accompagna con la sua presenza e la salva donando la vita» (C 20). Egli può essere riferimento ideale di un cammino spirituale per chi si impegna a prevenire, animare, orientare la gioventù nel quotidiano dell'esistenza; e si è assunto sino in fondo la scelta dell'educazione, spendendosi per conquistare il cuore dei giovani al Signore della vita.

    I. UNO STILE DI VITA SOTTO I RIFLETTORI

    Ho letto di recente: «Rincorrere un modello ideale, fa venire il fiato grosso; ma senza la compagnia di modelli si rischia di rimanere fermi». È una massima che, come le più, manifesta del vero. Interroghiamoci sul perché.
    Nella società attuale nessuno ama imitare altri: ciascuno vuol essere se stesso e costruirsi in autonomia. E per l'appunto, tanti appaiono come fotocopie, senza che essi stessi se ne rendano conto. La legge del contrappasso funziona, e miete vittime. Più saggio è invece imparare da chi ci può essere maestro. Del resto la nostra vita viene intessuta sulle esperienze altrui. E anche se oggi privilegiamo il presente guardando all'orizzonte, ciò che ci sta alle spalle resta o a nostra utilità o a stoltezza.
    È strano: talora si agisce come chi prima solleva la polvere e poi dice di non poter vedere. Mostra certamente più senno chi sa osservare gli eventi e scrutare gli esempi, per poter poi discernere il meglio. A simile ricerca ci apprestiamo, guardando a don Bosco.
    Un'esistenza ruota attorno ad alcuni punti fermi, che la tengono agganciata alla roccia del suo senso vitale. Senza di essi non è pensabile una vita «riuscita». Davanti ai nostri occhi potremmo far scorrere a lungo la «filastrocca recitata» degli innumerevoli fotogrammi della nostra esistenza, o anche far ammirare qualche sequenza di successo, ma non per questo ne scaturirebbe un film d'autore, un intreccio di vicende che sanno vincere il tempo. Un'opera d'arte possiede i suoi canoni essenziali, senza di cui non lo è per nulla, al di là dei gusti differenti. Anche la vita spirituale è sostenuta da cardini che ne rivelano il segreto, emette segnali che ce la configurano. Ci raffiguriamo allora l'esperienza di don Bosco come una emittente, i cui segnali sono indirizzati ai quattro punti cardinali, che ora consideriamo.

    1. «Qui si fa commercio di anime!»

    Immaginiamo che don Bosco invii un primo segnale sulla propria esperienza spirituale. Non si tratta di una emissione qualunque, bensì di un autentico punto cardinale della sua esistenza. Si tratta di una frase densa di significato, che ci aiuta a capire: «Qui si fa commercio di anime!».
    Rievochiamo l'episodio: è contrassegnato da «un incontro», che svela il segreto che stiamo cercando.
    Ci affidiamo al racconto di don Bosco, rivisitato da T. Bosco.
    «Giunto nella casa dell'oratorio, Domenico salì nel mio ufficio per mettersi, come diceva, interamente nelle mani dei suoi superiori. Lo sguardo fu attirato da un cartello che porta a grandi lettere una frase che San Francesco di Sales ripeteva sovente: Da mihi animas, coetera tolle. Lesse attentamente. Io desideravo che ne capisse il significato, perciò lo invitai, anzi lo aiutai a tradurre quelle parole latine: O Signore, datemi le anime, e prendetevi tutte le altre cose. Egli riflette un momento, poi disse: Ho capito. Qui non si cerca di guadagnare denaro, ma di guadagnare anime per il Signore».
    Quella frase così incisiva del testo originale: «Ah! Qui si fa commercio di anime», coglie d'intuito nel segno quanto animava profondamente don Bosco nella azione educativa e sociale. In questo si manifestano «i suoi genuini intendimenti, a ciò mirava con tutto il cuore ed ogni sua energia».
    Del resto la passione salvifica verso la gioventù coincide con la sua intera vita, dal sogno dei nove anni sino alla vecchiaia. Ne dà convincente testimonianza don Rua, che gli è stato accanto sin dagli inizi: il nostro padre «non diede passo, non pronunciò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù. Realmente non ebbe a cuore altro che le anime» (L.c. 24.9.1894). Lo stesso don Bosco giunse persino a dichiarare che «nelle cose che tornano a vantaggio della pericolante gioventù o servono a guadagnare anime a Dio, io corro avanti fino alla temerità» (MB XIV, 662). Dalle sue parole comprendiamo dove intende arrivare: «Lo scopo a cui miriamo torna ben viso a tutti. La civile istruzione, la morale educazione della gioventù o abbandonata o pericolante..., ecco a che mira la nostra opera... No davvero, con la nostra opera noi non facciamo della politica... Tiriamo avanti domandando solo che ci lascino fare del bene alla povera gioventù e salvare anime... Se si vuole, questa è la nostra politica» (MB XVI, 290-291).
    Ai suoi figli spirituali lascia come motto la massima citata: «Dammi le anime...»: la sua famiglia spirituale si deve distinguere nella sollecitudine salvifica verso la gioventù.

    2. Don Bosco e la gioventù: un binomio

    Un secondo segnale lanciato da don Bosco rappresenta un altro punto cardinale della sua esperienza. Un binomio ne esprime le sintesi: Don Bosco e la gioventù!
    Non so con esattezza come mai, ma le statue dei santi non mi soddisfano che raramente. E non è certo per mania iconoclasta, peraltro oggi inconsulta, bensì perché esse, troppo spesso, non pare esprimano un gran che. Per esempio, un don Bosco rappresentato da solo lascia perlomeno dispiaciuti: è un controsenso! Lo stridore con la sua vita, popolata di gioventù e impastata di giovinezza, balza agli occhi di tutti.
    Quale spontanea simpatia suscita invece don Bosco attorniato da ragazzi: ci parla dal vivo della sua storia. Il perché è noto.
    I termini del binomio si attraggono a vicenda, un ponte collega le due realtà, sintonizzano a meraviglia. I giovani rappresentano l'asse portante di una intera vita, per cui don Bosco non può essere pensato senza di loro, estraniato dal suo impegno educativo. C'è un legame vitale che li unisce: l'appassionata sollecitudine per la salvezza lungo un'intera storia di vita.
    «Ecco il tuo campo...» è il mandato inequivocabile del primo sogno rivelatore (MO 24). E novello sacerdote ne rinnova il proposito: «La mia delizia è fare il catechismo ai fanciulli, trattenermi con loro, parlare con loro» (MO 117). Così, richiesto di un impegno pastorale dalla marchesa Barolo, non esita a ribattere: «La mia vita è consacrata al bene della gioventù. Non posso allontanarmi dalla via che la Divina Provvidenza mi ha tracciato» (MO 163). Persino sul letto di morte pensava ai suoi giovani: «Di' ai giovani che li attendo tutti in paradiso» (MB XVII, 533) e li affidava ai suoi: «In modo affatto particolare vi raccomando la cura dei giovinetti poveri e abbandonati, che furono sempre la porzione più cara al mio cuore» (BS 1888/1).
    La sua piena disponibilità attrae i giovani: è la gioia profonda di stare con loro e di vivere per loro. Egli confessava: «Con voi mi trovo bene. È proprio la mia vita stare con voi»; o addirittura confidava: «Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono disposto anche a dare la vita» (MB XVIII,457). E con intensità di sentimenti ripeteva: «Ho promesso a Dio che fin l'ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani» (MB XVIII, 258).
    Si può ben asserire che don Bosco ha avuto una vita radicalmente segnata dalla missione verso i giovani. Anzi una radicata persuasione domina la sua esistenza: sentirsi un inviato, un mandato.
    La predilezione sua per i giovani risalta così come uno speciale dono di Dio che lo impegna in totale dedizione a guadagnare il loro cuore per il Signore. A questo unico scopo si vota la sua instancabile operosità, prodigandosi con ciò che meglio possiede di mente e di cuore. No, la sua non è semplice sensibilità di filantropo o ricercata capacità di educatore. Il sistema suo non è solo frutto del suo genio, del cuore generoso, della ricca disposizione educativa. Il suo segreto si spiega in una chiamata e un mandato. «La persuasione - scrive P. Stella - di essere stato sotto una pressione singolarissima del divino domina la vita di don Bosco, sta alla radice delle sue rivoluzioni più audaci... La fede di essere strumento nelle mani del Signore per una missione singolarissima fu in lui profonda e salda... Ciò creava in lui l'atteggiamento caratteristico ... del profeta che non può sottrarsi ai voleri divini».

    3. ll sistema preventivo

    Un ulteriore segnale che ci proviene dalla esperienza di don Bosco e che rappresenta il terzo punto cardinale, riguarda un tema assai noto. Accendiamo un riflettore su di esso poiché ne marchia a fondo la vita spirituale: è il sistema preventivo!
    Dire don Bosco è evocare il sistema preventivo. Per questo egli è molto conosciuto nella società di ieri come d'oggi: è il pensatore geniale dell'educazione preventiva. Al di là delle testimonianze di noti personaggi, anche laici (G. Lombardo Radice, P. Duvalet, M. Chenu, U. Eco, P. Scoppola...), per la ricerca storica «don Bosco riduce a sintesi la molteplicità degli elementi preventivi diffusi nella cultura del tempo, nella secolare esperienza educativa cattolica ed enunciati teoricamente soprattutto da alcuni educatori suoi contemporanei». L'intera sua esperienza di pensiero e di azione è attraversata dalla preventività, ne organizza gli elementi in un sistema educativo integrale, anzi lo erige come «un sistema universale di educazione della gioventù» (P. Braido).
    Del resto la grande simpatia suscitata da don Bosco scaturisce dalla rivisitazione organica di criteri educativi largamente condivisi: le fasi di sviluppo non sono un evento transitorio, bensì un'esperienza di vita valida in sé e che incide sul futuro; i ragazzi sono e devono farsi non solo collaboratori nella loro educazione, ma rendersi autentici protagonisti di educazione; la gioia e la fatica di progettare non può essere un semplice compito o un dovere, assai più è slancio, inventiva, passione per la vita; il rapporto educativo dice coinvolgimento di amicizia, costruzione di comunità, presenza propositiva carica di valori e ideali... E tuttavia alla radice di queste evidenze educative sta un denominatore comune a caratterizzare questo originale sistema, la peculiare «esperienza spirituale ed educativa» di un grande educatore santo (C 20).
    Con ragione si è affermato che il sistema preventivo «è insieme pedagogia, pastorale, spiritualità, che associa in un'unica esperienza dinamica educatori e destinatari, contenuti e metodi» (CG 21,96). Esso «ci riporta direttamente al cuore oratoriano di don Bosco, alla sua maniera tipica di concepire l'evangelizzazione come salvezza totale... Troviamo in esso il contributo originale di sapienza apportato da don Bosco alla Chiesa e al mondo, il suo ripensamento del vangelo in chiave di carità educativa, la sintesi che traduce la sua esperienza di educare e la sua spiritualità» (RM CG 21, 569-570).
    Per questo don Bosco esortava a rivolgere «ogni studio e ogni sforzo» per introdurre a praticare il sistema preventivo, poiché «i vantaggi che ne verranno sono incalcolabili» (MB XVII, 197).
    E così veniva riconosciuto dai suoi: «Il sistema preventivo sia proprio di noi» (E. Ceria). È una «magna charta» (P. Albera) che rappresenta la più preziosa eredità lasciataci da don Bosco.
    Ha senso allora un significativo appello dell'apostolo della rieducazione, P. Duvalet: «Voi, salesiani, avete opere, collegi, oratori, case per giovani, ma non avete che un solo tesoro: la pedagogia di don Bosco. In un mondo in cui i ragazzi sono traditi, disseccati, triturati, strumentalizzati, psicanalizzati, il Signore vi ha affidato una pedagogia in cui trionfa il rispetto del ragazzo, della sua grandezza e della sua fragilità, della sua dignità di figlio di Dio. Conservatela, rinnovatela, rinvigoritela, arricchitela di tutte le scoperte moderne, adattatela a queste creature del ventesimo secolo, ai loro drammi che don Bosco non ha potuto conoscere. Ma per carità, conservatela! Cambiate tutto; perdete se è il caso le vostre case, ma conservate questo tesoro, costruendo in migliaia di cuori la maniera di amare e di salvare i ragazzi che è l'eredità di don Bosco».
    Per approfondire un poco la portata del sistema preventivo nella prospettiva spirituale, verremo commentando tre parole chiavi: un emblema, un'ispirazione, una persona.

    3.1. Un emblema: l'oratorio di Valdocco!

    Il semiologo contemporaneo Umberto Eco, cogliendo la singolare intuizione educativa di don Bosco, non esita a definire l'oratorio «un modo nuovo di stare insieme», una vera «rivoluzione». Esso «è una macchina perfetta in cui ogni canale di comunicazione, dal gioco alla musica, dal teatro alla stampa, è gestito in proprio...; è un progetto che investe tutta la società italiana dell'èra industriale».
    E in verità l'oratorio si dimostra una realtà assai complessa, che ha richiesto tutta la fantasia e la tenacia del paziente costruttore. «Uomo di azione, ma anche di grandi progetti, teso ad assicurare la massima efficacia alle sue iniziative, don Bosco sottopone ad osservazione ininterrotta e sistematica la sua opera». La tipologia delle sue istituzioni giovanili si definisce nel corso di un ventennio (1844-1864). Ne rimane matrice l'oratorio di Valdocco e sul suo modello si sviluppano le varie forme di attività assistenziale-educativa: l'oratorio festivo e quotidiano per giovani operai e poi per studenti, le scuole domenicali e serali, il pensionato per apprendisti e studenti e anche per seminaristi, il collegio con laboratori artigiani e la scuola per studenti, piccoli seminari per vocazioni ecclesiastiche... In contemporanea si sviluppa sempre nell'oratorio un'articolata rete «associativa»: le compagnie religiose, le società di mutuo soccorso, le conferenze giovanili di San Vincenzo; i gruppi filodrammatici, bandistici, corali, ginnici; attività editoriali e librarie... (P. Braido).
    Tale confluenza di attività e interessi formano il volto operativo dell'oratorio. Ma al di dentro cresceva l'esperienza educativa e maturava la missione apostolica.
    Da quell'incontro con un ragazzo, Bartolomeo Garelli, nel giorno storico dell'Immacolata, considerato da don Bosco «il primordio del nostro oratorio» (MO 127), si giunge in crescendo a considerare quest'opera come la cellula madre di tutta la sua azione educativa, sintesi vissuta della sua densa esperienza apostolica.
    Da qui la consapevolezza matura di considerare l'oratorio la sua risposta alla missione affidatagli e il modello riassuntivo delle sue creazioni educative.
    L'oratorio rappresenta così il paradigma o criterio permanente di ogni sua opera: don Bosco visse una tipica esperienza, «che fu per i giovani casa che accoglie, parrocchia che evangelizza, scuola che avvia alla vita e cortile per incontrarsi da amici e vivere in allegria» (C 40).
    Egli si sente in missione aperta sul continente giovanile. Di conseguenza sceglie di rivolgersi ai giovani «che non avevano parrocchia o non sapevano a quale parrocchia appartenessero», si sente in tutto un autentico missionario dei giovani. A tale scopo è indispensabile una casa che accoglie, che si fa punto di incontro giovanile; un luogo di convocazione in cui ogni giovane si sente a proprio agio, come a casa sua. Ma certo un centro per giovani non può limitarsi a questo: deve essere una palestra di vita, una scuola che avvia alla vita. Si crea così spazio di confronto e di proposta, di formazione e di impegno. Le sfide culturali dell'ambiente non vengono ignorate, anzi sono assunte come provocazioni di crescita e di comune maturazione nella convivenza civile.
    Ma il suo modello di educazione non si conclude qui: egli conosce troppo bene l'animo giovanile. Sa «che il cortile attira più della chiesa» e offre libertà di espressione nei più diversi campi e interessi giovanili. «Si dia ampia libertà, scrive nel regolamento, di saltare, correre, schiamazzare a piacimento. La ginnastica, la musica, la declamazione, il teatrino, le passeggiate sono mezzi efficacissimi nell'educazione» (SP II, 3). Peraltro il cortile è territorio di incontro spontaneo, spazio per l'amicizia, tempo di rapporto sereno e accogliente: tutto terreno assai fertile per seminare a piene mani e per farsi reali compagni di viaggio. Ma tutto ciò per prosperare con vigore ha bisogno di venire lievitato dal Vangelo. Parrocchia che evangelizza dice fermento evangelico nella pasta. Essa è segno di richiamo alla vita dello Spirito, proposta di impegno nell'amicizia con il Signore. «Ti voglio mostrare un cammino per essere felice: la vita di grazia».

    3.2. Una attenzione: l'incontro tra Dio e giovane!

    Una pagina delle Memorie Biografiche (XVIII, 126) soddisfa la nostra sana curiosità di sapere di più circa il metodo educativo di don Bosco.
    Il Superiore del seminario di Montpellier aveva tanto sentito parlare del sistema preventivo e nutriva perciò un gran desiderio di interrogare don Bosco sul metodo da lui usato per portare le anime a Dio. Già aveva chiesto come facesse con uno scarso numero di collaboratori a educare tanti giovani; e don Bosco gli aveva risposto che tutto il segreto stava nell'infondere loro il santo timor di Dio. Ma di questa risposta il superiore non era ancora pago. Voleva conoscere con precisione quale era il metodo per guidare le anime alla somma sapienza, che è l'amor di Dio, dal momento che il timore è solo il principio della sapienza.
    A simile richiesta don Bosco esclamò: «Il mio metodo si vuole che io esponga: Mah! ... Non lo so neppure io. Sono sempre andato avanti come il Signore mi ispirava e le circostanze esigevano» (MB XVIII, 127).
    Forse senza avvedersene compiutamente, don Bosco esprimeva così alla buona uno dei criteri di base del suo metodo. Da educatore genuino, immerso nella concretezza della prassi e dei suoi pericoli, avverte l'esigenza di non irrigidirsi in un sistema educativo che rischi la stereotipia: perciò intende avvalersi sempre della libertà di movimento nell'arte di educare. Ma d'altra parte, da uomo d'azione com'era, sa bene che si procede con difficoltà quando non esiste chiarezza d'intenti. Per il suo progetto operativo, don Bosco si rifà a questo criterio ispiratore di sintesi: andare avanti come il Signore ispirava e le circostanze esigevano. Espressione questa non di due sollecitudini diverse, ma sintesi di un'unica disponibilità di cuore e di spirito, ossia di premurosa attenzione all'incontro tra Dio e l'uomo, tra il Signore che ispira e le esigenze dei giovani.
    Del resto «un metodo veramente don Bosco fa suo - commenta il biografo - il così detto metodo preventivo, traendone gli elementi dalla tradizione umana e cristiana, e dallo studio sull'animo dei giovani». Ne scaturisce una proposta unitaria e organica. Così il metodo di don Bosco appare sempre come una ricca sintesi di contenuti e metodi; di processi di promozione umana e insieme di annuncio evangelico e approfondimento della vita cristiana. Nelle sue mète, nei suoi contenuti, nei momenti di attuazione concreta si richiama fortemente all'insieme dell'espressione classica usata da don Bosco per configurarlo: «Il sistema preventivo appoggia tutto sopra la ragione, la religione, e sopra l'amorevolezza» (MB XIII, 919).

    3.3. Una persona: è don Bosco!

    In realtà il sistema preventivo può essere considerato «la sintesi di quanto don Bosco ha voluto essere» (CG 21, 80) a servizio della gioventù. La storia personale è la rivelazione più completa del suo modo di educare. Poiché non si tratta di capire primariamente un insieme di idee e di principi pedagogici, bensì di accostare e scrutare un'esperienza di vita, di penetrare una vocazione e missione educative.
    Pur mantenendosi sempre aperto ai segni dei tempi, don Bosco dà unità organica alle sue iniziative e agli interventi educativi, cammina secondo un progetto operativo intenzionale contro ogni possibile apparenza di provvisorietà e pressapochismo. Anche se la stesura del trattatello sul sistema preventivo appare come una semplice appendice a un discorso, in attesa di scrivere una operetta, non ci consente di considerarla una improvvisazione. La lucidità d'impostazione e la proprietà del linguaggio suppongono esperienze e idee maturate a lungo, come un patrimonio prezioso. D'altra parte la stesura (1877), situata nel pieno della maturità della prassi di don Bosco, è senza dubbio il frutto manifesto della sua ricca esperienza di educatore.
    Paziente tessitore di esperienze, ha realizzato nella prassi una geniale sintesi educativa. In quanto sistema educativo generale non è peraltro nuovo: si rifà alla grande tradizione cristiana.
    Il suo stile però è inconfondibile: è lo stile peculiare in cui l'insieme viene rivissuto e attuato con originalità. Ci troviamo di fronte allo stile del grande educatore che, attingendo a criteri educativi comuni e diffusi, sa creare ciò che è esclusivamente suo, del tutto singolare. Non per nulla si asserisce con ragione che il sistema preventivo è la persona stessa di don Bosco, il suo stile educativo è l'uomo (P. Braido).
    In effetti la sua esperienza costituisce nell'insieme uno stile pedagogico con un'impostazione unitaria dai precisi contenuti e obiettivi chiave, esigenze permanenti e interventi sperimentati, che organizza tutto in un'espressione d'arte educativa, fusa con la persona di chi l'ha vissuta. Nel suo essere sistema, la pedagogia di don Bosco è prima di tutto vita vissuta, passione educativa, trasparenza personale. Alla sorgente limpida e fresca della sua esperienza spirituale acquista rilievo e significato ogni esposizione della sua visione pedagogica. «Nel campo pratico dell'arte educativa e dell'opera di educatore ... don Bosco fu veramente maestro. La sua personalità spicca netta e intera, lì stampò l'orma sua propria» (B. Fascie).

    4. Scuola di spiritualità

    «Mediocri di tutto il mondo, io vi assolvo»: ha lasciato scritto un musicista viennese. E avrebbe forse avuto ragione, se lui non avesse dato il meglio di sé, divenendo un grande. La mediocrità è di questa terra, ma non alberga tranquilla nell'animo umano.
    Comprendiamo allora come uomini e donne abbiano osato tanto, nel nascondimento o nell'apparenza. In tutti suscita fascino la trasparenza dello spirito. La santità attrae e coinvolge.
    Il quarto punto cardinale dell'esperienza spirituale di don Bosco riguarda appunto questo tema. Il segnale emesso risulta assai terso: «Don Bosco è, profeticamente, un nuovo modello di santità» (P. Chenu).
    La sua statura di santo lo colloca tra i grandi fondatori, che hanno lasciato dietro di sé schiere di seguaci, «una vera scuola di nuova e attraente spiritualità» (JP 5). Su questo dirige la sua luce l'ultimo riflettore in una triplice fascia di colori: l'educatore santo, la santità giovanile, un santo ispiratore.

    4.1. Una simpatica testimonianza: l'educatore santo

    Don Bosco si è sentito direttamente interpellato dalla domanda educativa dei giovani. La predilezione per la gioventù è la via che percorre nel compimento della sua missione. «Il Signore mi ha mandato per i giovani», affermava spesso. E i giovani lo invocano ora quale «padre, maestro e amico»: è l'apostolo della gioventù.
    Ma tale missione giovanile non dice solo impegno appassionato; l'azione apostolica non viene portata avanti come semplice attività educativa. Assai più e meglio, don Bosco si è sì occupato dei giovani, ma soprattutto «è diventato santo occupandosi dei giovani» (J. Aubry). Egli si è lasciato accompagnare da una singolare iniziativa dello Spirito in lui, per cui, spendendosi per i giovani da infaticabile apostolo, ha percorso un cammino di santificazione, e lo Spirito del Signore l'ha cresciuto santo, e grande educatore santo.
    Mediante l'impegno educativo vissuto con zelo e cuore apostolico, egli realizza la sua personale santità, e al contempo sa proporre ai suoi la santità quale mèta concreta della sua pedagogia: appunto tale compenetrazione tra educazione e santità è tipica della sua figura (JP 5). È «un'estasi dell'azione», espressione di una profonda interiorità che prorompe in un intenso impegno d'azione educativa. Così l'educatore aderì al progetto di Dio su di lui: santificarsi e santificare.
    «La sua santità - intuisce mirabilmente don Caviglia - è forgiata come santità educatrice». Proprio per questo la testimonianza di santità, ossia di pienezza di spiritualità, è in verità il «dono più prezioso che possiamo offrire ai giovani» (C 25).

    4.2. Una proposta sconvolgente: la santità giovanile

    Il Vaticano II ha proclamato con forza «la vocazione universale alla santità». Ma ancora non è, come non lo era nell'800, una avvertenza usuale per i credenti adulti. La chiamata alla santità rimane nella convinzione comune una prerogativa di pochi.
    Così suona davvero proposta sconvolgente che il prete di Valdocco potesse parlare di santità a dei ragazzi. Eppure la verità sta in questi termini. Non che don Bosco ne facesse una bandiera quale vessillo di vittoria. Era piuttosto la sua visione educativa che portava serenamente a tale conseguenza.
    «L'originalità e l'audacia della proposta di una "santità giovanile" è intrinseca all'arte educativa» di don Bosco. «Il suo particolare segreto fu quello di non deludere le aspirazioni profonde dei giovani (bisogno di vita, di amore, di espansione, di gioia, di libertà, di futuro), e insieme di portarli gradualmente e realisticamente a sperimentare che solo nella "vita di grazia", cioè nell'amicizia con Cristo, si attuano in pieno gli ideali più autentici» (JP 16).
    Don Bosco conosce troppo bene l'animo giovanile per proporre un alto ideale, quale quello della santità, senza farsi compagno di viaggio nel cammino. La sua visione educativa integrale si traduce in «pedagogia realistica della santità», che segue l'itinerario di crescita umana e cristiana di ciascun giovane. Ne sono prova convincente le biografie scritte da lui su tre suoi ragazzi: Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco. L'ideale della perfezione della carità viene indicato a tutti, ma con ciascuno viene percorsa una sua propria via per conquistarlo. Il suo grande intuito educativo e spirituale sta del resto in questo camminare insieme verso la mèta comune.
    Don Bosco punta a toccare i cuori, a guadagnarsi gli animi per condurli al Signore. Fa vivere immersi in un ambiente carico di valori e di ideali evangelici proponendo con semplicità e simpatia la santità, come mèta concreta della sua pedagogia. Formatore di cuori giovanili, è un vero «maestro di spiritualità giovanile», come lo definisce Giovanni Paolo II.

    4.3. Una simpatica origine: l'umanesimo «spirituale»

    La spiritualità di don Bosco non è da pensare come un bell'albero dalle lievi radici; al contrario essa appare assai più come una quercia che si radica profondamente nel terreno della tradizione ecclesiale. Nella sua singolarità e originalità, don Bosco non è un isolato e tanto meno un solitario: «è un educatore santo, che si ispira a un modello di santo, san Francesco di Sales; è discepolo di un maestro spirituale santo, Giuseppe Cafasso; e sa formare tra i suoi giovani un educando santo, Domenico Savio» (JP 5).
    Il suo è «un progetto originale di vita cristiana», la cui «fonte carismatica risale alla corrente spirituale dell'umanesimo di san Francesco di Sales, ritradotto da don Bosco nella sua esperienza» (CG 23 158). Don Bosco si è rifatto esplicitamente a «una delle più alte figure della spiritualità cristiana», tanto da chiamare la sua Congregazione «Società di san Francesco di Sales» e applicare il termine «salesiano» al suo impegno spirituale e missione educativa. Evocando i grandi valori dell'umanesimo «devoto», «intende rilanciare tra i giovani il gusto di Dio, la festa della vita, l'impegno per la storia, la responsabilità per il creato e una generosa responsabilità ecclesiale».
    Intraprendere il cammino spirituale insieme a don Bosco significa allora entrare, con un titolo di identificazione evangelica, «nell'orbita di una scelta spirituale collaudata e ampia nella Chiesa». È un lasciarsi coinvolgere in una corrente spirituale, a cui San Francesco di Sales «ha impresso, in forma dinamica e incarnata, il sigillo supremo dell'amore peculiare della carità apostolica» (E. Viganò ACG 334).
    È nota a tutti la passione missionaria di san Francesco di Sales. Celebre è al riguardo un passo del discorso rivolto ai preti per riconquistare Ginevra: «Non vi propongo né ferro, né polvere, né zolfo; ma con la carità soltanto bisogna scuotere i muri della città, con la carità sola bisogna invaderla, con la carità bisogna recuperarla» (VII, 107). Le sue parole erano come «tante frecce infuocate che infiammavano», anzi per la verità, «tutte le sue azioni già erano di per se stesse veri e propri sermoni»; in una parola «egli era un vangelo vivente» per la gente, in vista della salvezza. Tali testimonianze interpretano assai bene il significato del sintagma «spiritualità apostolica».
    Come sappiamo, l'attività generatrice di salvezza nella Chiesa viene solitamente denominata «pastorale» o «apostolato»: è un'azione peculiare di grazia, che nel sacramento fa vivere il mistero. Il suo agire per l'uomo non si riduce allora a semplice attività, ma risulta essere «testimonianza di servizio», che fluisce dall'intima unione con il Signore. Chi si incammina a vivere la spiritualità apostolica realizza in radice e con operosità la realtà «sacramentale» della Chiesa, «segno universale per la vita del mondo» (GS 40-42).
    Il dissidio tanto attuale oggi tra essere e agire, tra contemplazione e azione, tra testimonianza e servizio viene superato, dissolto in un'unica energia dello Spirito, fonte delle varie espressioni della vita. L'impegno di carità, affidato dalla Chiesa ed esercitato in suo nome, fluisce dall'intima comunione con il Signore. Nel santuario più intimo della persona, la coscienza, vibra la «grazia di unità fra interiorità e operosità». Il segreto del suo vigore sta in questo: immettersi nel vortice della carità di Dio perché l'uomo possa vivere nella pienezza, agire in comunione con il Dio che opera e salva. Dalla carità apostolica riceve il suo potente dinamismo l'agire per l'uomo: è l'estasi dell'azione, è l'interiorità apostolica.
    Molto giustamente ha lasciato scritto Mario Pomilio: «Non si può vivere senza una faccia. A ciascuna generazione spetta scrivere un suo vangelo». In questi termini don Bosco aderì al progetto di Dio su di lui in novità: servire i giovani rendendo trasparente la bontà del Padre, segno e portatore dell'amore di Dio per loro (C 2).
    Appunto in questo, con tutto ciò che ne consegue, consisteva il suo vangelo per la salvezza della gioventù.
    E tale era la convinzione di svolgere la cosa più santa del mondo, da esortare altri a seguirlo: «Volete fare una cosa buona? Educate la gioventù. Volete fare una cosa divina? Educate la gioventù. Anzi questa, tra le cose divine, è divinissima» (MB XIII, 629).
    Il suo sistema infatti si basa interamente su una visione evangelica della vita, e non su schemi ideologici: uno spirito di profonda fiducia in Dio, una sconfinata carità educativa e una squisita ragionevolezza promanano dalla sua pedagogia.
    L'esperienza educativa e apostolica di don Bosco coinvolge talmente in profondità l'educatore da divenire anche modello di spiritualità.

    II. SPIRITUALITÀ: ISPIRAZIONE MISTICA E IMPEGNO ASCETICO

    Dopo aver messo sotto i riflettori uno stile di vita che illumina il mistero di un uomo di Dio in quattro aspetti essenziali, intendiamo ora approfondire il progetto di spiritualità che egli propone a te, educatore.
    Lo faremo utilizzando due categorie usuali per leggere e interpretare la vita dello spirito: il mistico e l'ascetico.
    La frase del sociologo F. Alberoni, scritta nel suo libro L'amicizia (1984) mi fa riflettere ancora molto: «La società moderna trasforma le virtù in prestazioni e gli ideali in servizi». Essa interpreta una mentalità assai diffusa, oggi. La soluzione delle questioni umane non sta negli idealismi, ma in risposte pragmatiche. Solitamente si ritiene infatti che chi soffre di malattie non ha bisogno di compassione, ma di un buon medico, possibilmente di uno specialista di valore; e se qualcuno rimane senza lavoro, non necessita di carità, bensì della solidarietà efficace di un sindacato. In effetti rincorriamo più che mai prestazioni competenti, servizi qualificati, tecniche sofisticate. Pensiamo che l'odierna civiltà ha realizzato tanti desideri un tempo agognati e numerosi sogni hanno trovato attuazione concreta per merito della scienza e della tecnica, dell'organizzazione sociale e dello sviluppo del progresso.
    E tuttavia avvertiamo che un grosso inghippo permane: abbiamo molto a disposizione, anzi tantissimo, ma tutto sotto forma di cose. Disponiamo dei mezzi più diversi per soddisfare i nostri bisogni materiali. Possediamo ad esempio computers di precisione ineguagliabile per far funzionare una centrale nucleare e di un'inesauribile pazienza per cercare un posto in aereo a un passeggero in attesa. Il mondo è stato mutato in un reale «villaggio globale»: ci trasferiamo in tempi rapidissimi da un punto all'altro della terra.
    Gli strumenti odierni di informatica e telematica sono un paradigma di quanto possa la scienza e la tecnica nel nostro tempo. Ma la manifesta delusione di essere riusciti a trasformare virtù e ideali in prestazioni e servizi competenti, credendo di risolvere definitivamente i problemi, ci scotta ora tra le mani e ci mette in ansia, se non in angoscia.
    Stiamo scoprendo con evidenza che la verità è altra. Più che mai si avverte l'esigenza di incontrare l'uomo nella sua umanità, di riconoscerlo nella propria dignità, di dar voce al suo spirito.
    Poiché sta divenendo ormai convinzione corale che l'uomo reale lo trovi al di là dello sportello di servizio, non essendo egli un utente o una variabile, ma appunto un uomo. Ed allora lo incontri nella sua genuinità là dove emerge il gratuito, dove il mondo dei valori offre le gioie più profonde e i dolori più amari. Dove esiste la scelta morale, dove la virtù è conquista e l'ideale un traguardo, lì c'è l'uomo e la sua verità.
    Nell'educazione una simile visione sta alla base di qualsiasi avventura di crescita. I valori esistenziali rappresentano la sostanza e il tessuto dell'educazione. Non è possibile pensare l'azione pedagogica al di fuori di scelte etiche e di visioni ideali. Ne sarebbe la condanna a morte.
    Del resto l'educatore può essere attrezzato delle tecniche pedagogiche più avanzate e delle metodiche più verificate, può possedere fine abilità comunicativa, conoscere a fondo le dinamiche della maturazione umana, può essere riconosciuto come competente, ma se gli manca un cuore educativo, se al di dentro della persona fallisce lo slancio dello spirito, a ben poca cosa serviranno i suoi sforzi. In definitiva è la profondità dell'uomo a incontrare il mistero di un altro uomo.
    La pedagogia di don Bosco si pone in tale contesto: promana uno spirito di profonda interiorità, che si effonde in una sconfinata carità pastorale sulla base della ragionevolezza educativa.
    Come ogni spiritualità, presenta due aspetti: l'ispirazione mistica e l'impegno ascetico. Sono facce di una stessa realtà, che si richiamano a vicenda e si completano interagendo.
    La mistica infatti, che è vita di comunione con Cristo nella fede, speranza e carità, ispira e fermenta l'esistenza quotidiana nella sua realtà teologale. L'ascesi invece, quale impegno di risposta al dono di Dio, accompagna la crescita spirituale, la quale richiede vigilanza e fatica nel cammino. La mistica propone motivazioni all'impegno ascetico, e l'ascesi manifesta la disponibilità ad accogliere l'ispirazione mistica. Separare i due aspetti è letale, poiché una mistica senza ascesi degenera in evanescenza spirituale e un'ascetica senza mistica si riduce a uno sterile sforzo volontaristico.
    Nella nostra prospettiva spirituale la mistica rappresenta la fonte ispiratrice quotidiana della carità pastorale nell'azione educativa e l'impegno ascetico la traduce nella vita in costante bontà pedagogica.
    In tal modo l'ispirazione e l'impegno creano un atteggiamento spirituale nell'educatore e assicurano un criterio che guida l'azione, caratterizzando tutta l'esistenza: ne scaturisce una autentica spiritualità dell'azione apostolica, uno stile peculiare di tendere alla pienezza della carità evangelica.
    Ma passiamo in rassegna la ricchezza e l'originalità della spiritualità di don Bosco esaminata sotto il duplice profilo.

    1. L'ispirazione mistica

    «Non con le percosse ma con la mansuetudine e con la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici» (MO 23): è la proposta rivolta a Giovannino Bosco nel sogno dei nove anni. E nel trattatello sul sistema preventivo viene affermato che «la pratica di questo sistema è tutta poggiata sopra la parola di San Paolo che dice: Charitas patiens est... la carità è benigna e paziente; soffre tutto ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo» (MB XIII, 920).
    La carità pastorale è così posta a fondamento della pedagogia, ma costituisce insieme la prospettiva della sua mistica. L'amore redentore è l'ispirazione riconoscibile di tutta l'azione. Di questa luce è illuminata tutta la sua vita di educatore. La straordinaria sua esperienza di paternità anzitutto esprime in modo vivo e affascinante la paternità di Dio, che è amore infinitamente paziente e misericordioso, e vuole che tutti gli uomini siano salvi. La sua azione apostolica poi si riconosce solo alla luce della figura di Cristo, il buon Pastore, che conosce le sue pecorelle, le chiama per nome, si fa ascoltare da esse, le raccoglie e le conduce ai buoni pascoli, cerca le pericolanti e le difende, dà la vita per loro. Inoltre la presenza singolare di Maria come «maestra di saggezza» ispira l'azione educativa e come «madre della Chiesa e aiuto dei cristiani» coopera alla crescita dei suoi figli. La ricchezza e la forza dell'amore di don Bosco per i giovani scaturiscono da queste tre ispirazioni: sentirsi chiamato ad essere un padre che si ispira alla Paternità divina, un buon pastore che imita i gesti di Cristo pastore, e un educatore che si rifà alla bontà materna di Maria. Il movimento che ne caratterizza la spiritualità è la carità che salva, fulcro della sua mistica. Ne consideriamo taluni aspetti illuminanti, così come appaiono nel pensiero e nell'esperienza di don Bosco.

    1.1. L'amore che salva è l'anima della spiritualità

    Al centro del vissuto spirituale di don Bosco sta l'eccezionale e umanissima carica di bontà educativa. Essa sgorga da una esplosione di valori umani 'ed evangelici in grado di suscitare il gusto del vivere autentico e totale. La carità pastorale si rivela così l'elemento catalizzante e propulsore: è uno slancio apostolico che fa cercare le anime e servire solo Dio, e che si esprime in amore di predilezione verso la gioventù.
    Don Bosco intraprende un cammino verso Dio, che si realizza nell'amore concreto ai suoi ragazzi, presenti, vocianti, imprevedibili. La sua è una santità che si attua nelle urgenze dei giovani, nei problemi assillanti e concreti che nascono dal voler bene alla gente. Il suo è un amore che cerca pane e mestiere, ma ciò che desidera di più è la salvezza dell'anima, massima sollecitudine nella sua vita.
    La forza di lavorare senza stancarsi don Bosco la trova nell'amore di Dio e nell'amore dei giovani: in questo coglie la spinta a santificarsi, a diventare più uomo di Dio. È quanto ha insegnato tante volte: «Vuoi fare del bene ai tuoi giovani? Prega di più per loro, fai sacrifici per loro. Vuoi farli più buoni? Diventa tu più santo».
    Questa dedizione di carità si trasforma nella prassi in comunicazione educativa, in corrispondenza d'amore: interiormente proteso verso i giovani, egli offre il proprio cuore e chiede il loro nel rispetto, con delicatezza e per confidenza.
    Del resto la vera originalità della spiritualità sua, l'impronta singolare di mente e di cuore di «tale genio del bene», sta in una sintesi creativa, ossia nell'idea per cui visse e che fu vissuta da lui, venuta dal cuore e radicata nella bontà. Il sistema di don Bosco è il sistema della bontà o, per dir meglio, la «bontà eretta a sistema». Naturalmente è bontà sentita da un cuore santo, e perciò ispirata a concezioni e sentimenti non solo umani. L'uomo di cuore dà forma visibile e pratica a ciò che detta l'ideale supremo della carità, che è la salvezza dei giovani (A. Caviglia).
    Don Bosco intesse la sua santità in una pedagogia, al di là delle teorie e oltre le angustie della metodica, a livello di saggezza che poggia su carismi e doni speciali dello Spirito Santo (E. Viganò). La carità del buon Pastore trova la sua espressione educativa nella bontà, ossia nell'amore visibile e familiare che sa suscitare una risposta d'amore, e crea un clima e un ambiente che apre il cuore alla vita e alla sua pienezza nel Signore.
    Questa carità incarnata diviene segno distintivo della sua spiritualità. Ogni santo è contrassegnato da una maniera tipica di vivere il Vangelo. Il marchio particolare che segna il cuore di don Bosco è «un amore che sa farsi amare», «un amore che suscita amore», «un amore dimostrato che libera e salva».
    Il Cristo buon Pastore, sollecito della salvezza dell'uomo, è certamente la sua percezione più viva e profonda. Il retroterra peculiare della personalità di don Bosco sta in questo amore salvatore che si esprime in benevolenza e amorevolezza, definito «supremo principio del suo metodo educativo», «elemento caratteristico e distintivo della sua concezione e azione educativa», «anima del sistema preventivo» (P. Braido).
    Nella famosa lettera da Roma del 1884, don Bosco ne richiama tutta la rilevanza e ne rivela il significato mistico: «Come si possono rianimare questi miei cari giovani? ... Con la carità ...». E aggiunge: «Gesù Cristo si fece piccolo coi piccoli e portò le nostre infermità. Ecco il maestro della familiarità! ... Gesù Cristo non spezzò la canna già fessa; né spense il lucignolo che fumigava. Ecco il vostro modello» (MB XVII, 109).
    La radice spirituale del suo sistema sta dunque in un amore che si dona gratuitamente, ispirandosi alla carità di Dio che «previene ogni creatura con la sua provvidenza, l'accompagna con la sua presenza e la salva donando la vita» (C 28). In definitiva è l'esplosione della carità di Dio nella educazione preventiva, di un amore che è venuto a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito.
    La mistica del «Da mihi animas» dice allora profonda comunione con Dio che salva. Si contempla l'amore pasquale del Redentore verso i giovani, che si dà tutto a loro, completamente. È la carità di Dio a forgiare il cuore dell'educatore. In modo suggestivo afferma un testimone (don Caviglia): «Chi non ha visto lui tra i giovani all'Oratorio (ed io lo vidi) non si farà mai un'idea adeguata di quel che fosse la sua presenza e la compenetrazione del suo spirito con quello dei suoi figlioli. Dire che era il padre sembra già molto, ma nel mondo dello spirito non giunge a dir tutto».
    Ed è appunto in Cristo che si comprende che non c'è amore più grande di Colui che dà la vita per i propri amici. «Ecco: concentrare l'attenzione del proprio cuore su Dio, su questo Redentore dell'uomo, in quest'aspetto dell'Amore infinito. Ecco l'ottica della nostra mistica: imparare da Dio, partecipare all'amore di Cristo avendo un cuore apostolico che si dà totalmente per salvare la gioventù» (E. Viganò).
    Papa Pio XI esprime con efficacia questa ispirazione, quando dice: «Don Bosco insegna il primo segreto che è l'amore a Gesù Cristo, a Gesù Cristo Redentore. Si direbbe persino che questo è stato uno dei pensieri, uno dei sentimenti dominanti di tutta la sua vita. Egli lo ha rivelato con quella parola d'ordine: Da mihi animas... Questa è un'espressione dell'amore suo per il Redentore; espressione nella quale, per felicissima necessità di cose, l'amore del prossimo diventa amore del divino Redentore, e l'amore del Redentore diventa amore delle anime redente» (ACS 66).
    «Dammi un cuore grande per amare e salvare la gioventù a qualunque costo»: dovrebbe essere la nostra preghiera quotidiana a Cristo Redentore. Questa invocazione del profondo dell'animo considera il giovane in una visione di fede, alla cui base si trova la convinzione intima della grandezza della persona dei giovani che sono «la delizia di Gesù e di Maria» (MB XVIII, 482).
    Il «lasciate che i fanciulli vengano a me» è segno dell'amore preferenziale di Gesù per i piccoli. E Dio ha colmato don Bosco del dono della predilezione. «Bisogna dire che don Bosco ci prediligeva in modo unico... Egli ci attirava a sé per la pienezza dell'amore soprannaturale che gli divampava in cuore» (P. Albera). Troviamo scritto nel Giovane Provveduto: «I giovanetti sono grandemente amati da Dio... Anche se Dio ama tutti gli uomini come opere delle sue mani, tuttavia porta una particolare affezione ai giovanetti... Voi siete la delizia e l'amore di quel Dio che vi creò».

    1.2. La mèta: onesto cittadino e buon cristiano

    Sotto il profilo educativo, l'amore di predilezione verso i giovani è motivato in don Bosco dal momento delicato e decisivo dell'età, in cui si fanno importanti scelte di vita, e dalla convinzione che i giovani preparano il futuro della società e della Chiesa. Avvertendo l'estrema importanza di proporre un progetto di vita, egli ne offre una formulazione che rimane storica: diventare «onesto cittadino nella civile società, buon cristiano nella Chiesa e un giorno fortunato abitatore del cielo» (RC).
    Peraltro don Bosco amava riassumere la proposta educativa in semplici formule, dense di contenuto: «sanità, sapienza e santità»; «allegria, studio, pietà»; «la civile, morale, scientifica educazione»; «la moralità, la scienza e la religione», che tradotte in linguaggio moderno possono suonare «promozione integrale cristiana» ed «educazione liberatrice cristiana».
    Per don Bosco però l'utopia cristiana si realizza senza dubbio, nella sua forma definitiva, nella «città celeste», riconoscendo così semplicemente «il primato dello spirituale, della salvezza». Ne suggerisce anche la motivazione teologica: «Il Salvatore ha faticato, ha sudato, ha vissuto povero, ha patito, è morto per le anime» (BS 1884, 5). Certamente la prospettiva salvifica è dominante nel suo pensiero. La rende esplicita soprattutto nelle lettere missionarie in cui esorta a «predicare I 'evangelio di Dio», a «diffondere la luce del vangelo», a «guadagnare anime a Dio». Di conseguenza diventa impellente educare alla fede e far vivere in grazia di Dio. Il pane materiale, il lavoro e lo studio, come il pane spirituale, la gloria di Dio e la salute delle anime, esprimono con efficacia l'intenzionalità dell'azione educativa e popolare di don Bosco: è il binomio inscindibile della promozione umana e dell'evangelizzazione.
    L'ideale cristiano infatti supera ogni forma di neutralismo pedagogico o di relativismo etico. Lo intuisce con chiarezza L. Lombardo Radice riflettendo sulla scuola laica: «Don Bosco? Il segreto è lì: un'idea! La nostra scuola: molte idee. Molte idee può averle anche un imbecille, prete o non prete, maestro o non maestro. Un'idea è difficile. Un'idea vuol dire un'anima»; è evidentemente l'idea cristiana.
    Don Bosco gioca decisamente il suo modello di uomo attorno all'assoluta centralità della fede nella vita quotidiana e alla seria considerazione delle realtà temporali: dalla loro sintesi scaturisce una proposta originale di spiritualità che feconda tutta l'esistenza.
    Parlando agli exallievi di Valdocco nel 1880 (BS 9), don Bosco stesso traccia la sua sintesi spirituale semplicissima e alla portata di tutti: «Dovunque vi troviate mostratevi sempre buoni cristiani e uomini probi».
    All'apice della coscienza e dell'impegno di vita il cristiano maturo pone la chiamata alla salvezza: per questo collabora attivamente con la grazia di Dio. Così la mèta suprema per tutti è la santità della vita, la chiamata universale alla santità, come la denomina il Concilio. L'amore filiale fa percepire insieme il Dio che scruta l'intimo del cuore e il Padre misericordioso e buono. Ciò è motivo di lotta contro il peccato e di cura dell'amicizia con Dio, e quindi esigenza di riconciliazione e desiderio di comunione eucaristica.
    Evidentemente questa mistica dello stare con il Signore non porta a chiudersi in sé, bensì a discernere il proprio posto nella Chiesa e nella società, per viverne la missione e la storia.
    La scelta vocazionale è «il punto più importante della vita», ha dichiarato più volte don Bosco. A ciascuno tocca «unirsi nel campo dell'azione ed operare» (BS 1880, 8), partecipando attivamente con senso apostolico alla missione della Chiesa nel mondo. La spiritualità di don Bosco è operosa, non sta a guardare: «Siamo in tempi in cui bisogna operare... Il mondo attuale vuole vedere le opere... E questo è l'unico mezzo per salvare la povera gioventù istruendola nella religione, e quindi di cristianizzare la società» (MB XIII, 126).
    E aggiunge con forza, quasi a nostra meraviglia: «Ora i tempi sono cangiati, e quindi oltre al fervente pregare, conviene lavorare ed indefessamente lavorare, se non vogliamo assistere alla intera rovina della presente generazione»; «una volta poteva bastare unirsi insieme nella preghiera; ma oggidì è mestieri unirsi nel campo dell'azione ed operare» per aprirsi alle più ardite imprese apostoliche (BS 1880, 7-8).
    L'ideale del «buon cristiano e onesto cittadino» come immagine dell'uomo da costruire rimane la mèta dell'educazione preventiva nella molteplicità e varietà di contenuti, processi e mezzi. L'azione educativa si estende «al corpo e all'anima, alla società e alla religione, al tempo e all'eternità» (BS 1881, 12). L'orizzonte delle realtà ultime è indubbiamente presente: «Il giovane - ripeteva don Bosco - ama più che altri non creda che si entri a parlargli de' suoi interessi eterni, e capisce da ciò chi gli vuole e chi non gli vuole veramente bene. Fatevi adunque vedere interessati per la salute eterna» (MB VI, 385). Da qui scaturisce l'invito al massimo impegno nel quotidiano per la vita che dura per sempre.

    1.3. La comunità come famiglia di Dio

    Il trinomio «ragione, religione, amorevolezza» compendia eccellentemente il contenuto del messaggio spirituale ed educativo di don Bosco, peraltro in consonanza con la tradizionale educazione cattolica. Altrettanto però costituisce l'ispirazione e il fondamento della metodologia pedagogica e della prassi spirituale.
    La spiritualità di don Bosco non si caratterizza solo nella ricerca di sintesi rinnovata dei valori in vista della promozione integrale del giovane e di tutti i giovani, ma in modo eminente si qualifica per un'azione educativa organica con cui accompagnare il giovane ad aderire alla proposta.
    L'educatore infatti deve operare sulla base di rapporti ragionevoli e in clima di famiglia. L'amorevolezza, espressione educativa della carità, non è debolezza o sentimentalismo, poiché è sostenuta dalla forza della fede e della ragione. E d'altro canto, la ragionevolezza di una normativa di convivenza riceve sostegno e motivazione dalla proposta religiosa. L'elemento unificante resta sempre l'amore, che costituisce il supremo principio del metodo, come la religione è il principio primo dei valori.
    Così la pedagogia preventiva della carità si delinea in don Bosco per la particolare tonalità dell'amore cristiano e umano, percepito e dimostrato al giovane nelle espressioni di umanità e familiarità, di amorevolezza.
    Luogo di confluenza di tali vissuti è la comunità-famiglia, in cui ci si impegna a far vivere il coinvolgimento di amicizia tra le persone e quindi la vera comunione dei cuori e degli intenti.
    L'idea della grande famiglia dei figli di Dio, in cui Egli è Padre, si manifesta qui in modo eminente, poiché al centro è posto l'amore.
    Si comprende allora perché viene richiesto agli educatori che «come padri amorosi parlino, servendo di guida ad ogni evento, diano consigli ed amorevolmente correggano». L'amorevolezza, anima della comunità realizzata in stile di famiglia, assume l'aspetto di una realtà ricca e complessa. Fondata sulla carità, ossia su un profondo amore spirituale che è dono di Dio, essa scaturisce da una vigile coscienza di credenti e apostoli. «La mia affezione - confessa con semplicità don Bosco - è fondata sul desiderio che ho di salvare le vostre anime, che furono tutte redente dal sangue di Gesù Cristo, e voi mi amate perché cerco di condurvi per la strada della salvezza eterna. Dunque il bene delle anime nostre è il fondamento della nostra affezione» (Ep II, 339). Così poteva assicurare di vivere totalmente per i suoi figli: «Fate conto che quanto io sono, sono tutto per voi, giorno e notte, mattino e sera, in qualunque momento. Io non ho altra mira che di procurare un vostro vantaggio morale, intellettuale e fisico. Ma per riuscire in questo ho bisogno del vostro aiuto. Io non voglio che mi consideriate tanto come vostro superiore, quanto come vostro amico» (MB VII, 503).
    Modello ispiratore è il Dio con noi, amico presente tra i suoi. Per questo l'educatore «sia tutto a tutti, pronto ad ascoltar sempre ogni dubbio o lamentela dei giovani, tutto occhio per sorvegliare fraternamente la loro condotta, tutto cuore per cercare il bene spirituale e temporale di coloro che la Provvidenza gli ha affidati» (Ep IV, 265).
    Nella casa-famiglia viene attribuito speciale rilievo alla partecipazione attiva alla vita comune. I gruppi d'interesse e d'impegno, le «Compagnie», rappresentano un valido strumento che permette di attuare su piano pratico la collaborazione e solidarietà, senza di cui sarebbe illusorio parlare di educazione in stile di famiglia.
    Don Bosco ne sottolinea il valore, quando afferma che le Compagnie sono «chiave della pietà, conservatorio della moralità, sostegno delle vocazioni ecclesiali e religiose»; da esse dipende «lo spirito e il profitto morale delle nostre Case» (Ep III, 8).
    Espressione dello spirito di famiglia è la gioia. L'allegoria è costitutiva della pedagogia di don Bosco: è frutto di religiosità interiore e spontanea, che ha la sua sorgente ultima nell'amicizia con Dio, nella vita di Grazia. Viene così superato come semplice artificio di metodo, per configurarsi in un modo di vivere, che trova giustificazione nella psicologia del giovane e nello spirito di famiglia. Don Bosco comprende che il ragazzo è ragazzo, che la sua esigenza più profonda si chiama gioia, libertà, gioco, allegria.
    E d'altra parte è convinto che il cristianesimo è la più sicura e duratura sorgente di felicità, essendo lieto annuncio, evangelo: dalla religione dell'amore, della salvezza, della Grazia non possono che scaturire la gioia e l'ottimismo (P. Braido).
    Il motto di san Filippo Neri: «Quando è tempo, correte, saltate, divertitevi pure finché volete, ma per carità non fate peccati» (MB VII, 169) diviene perciò anche la sua massima.
    All'allegria viene così consegnato un significato compiutamente mistico, tanto da farne un comandamento. «Don Bosco seppe vedere la funzione della gioia nella formazione e nella vita della santità, e volle diffusa tra i suoi la gaiezza e il buon umore. Servite Domino in laetitia poteva dirsi in casa di don Bosco l'undicesimo comandamento» (A. Caviglia).
    Del resto Domenico Savio l'aveva ben capito, quando confidava a Gavio Camillo: «Te lo dirò io in poche parole: sappi che noi qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri».

    1.4. Dio solo possiede le chiavi del cuore dei giovani

    Da quanto abbiamo considerato in precedenza, emerge che la casa di don Bosco non è certamente né un collettivo né un collegio: è una comunità di intensa comunione, di vita teologale fatta di fede, speranza e carità. Egli creava un ambiente, ricco e vario umanamente, ma denso di spiritualità. L'appello alla grazia di Dio e alle risorse personali è motivo di speranza autentica nel suo lavoro apostolico. Don Bosco sa che non ci sono tecniche infallibili per conquistare il cuore del giovane; bisogna seminare nella ferma speranza che il Signore farà fruttificare.
    «Ricordatevi - dichiarava - che l'educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna se Dio non ce ne insegna l'arte e non ce ne dà in mano le chiavi» (Ep IV, 209).
    La sua infinita pazienza e l'umile coraggio di bussare alla porta del cuore dei giovani con le uniche forze dell'amore e della ragione dimostrano che il suo cuore era pieno della speranza di Dio. Proprio questo convincimento gli faceva affermare: «In ogni giovane, anche il più disgraziato, havvi un punto accessibile al bene: dovere primo dell'educatore è cercare questo punto, questa corda sensibile e trarne profitto» (MB V, 367).
    Anche nelle situazioni più difficili don Bosco non perde la speranza, che anzi si fa ingegnosa e inventiva. Senza mai forzare, promuove la maturazione umana e cristiana, riproponendo con perseveranza la parola di Dio, il ministero della riconciliazione e della guida spirituale, le due grandi devozioni a Gesù in sacramento e a Maria Ausiliatrice.
    Sollecito nel creare un ambiente intensamente evangelico, fa vivere ai giovani la «Chiesa domestica», quella comunità ecclesiale in cui si respira la vita di grazia e diviene naturale camminare insieme secondo i valori evangelici. L'Oratorio di Valdocco ne è la testimonianza più chiara: esso è una scuola stupenda di apostolato in cui don Bosco, maestro geniale di fede, crea iniziative per formare all'impegno apostolico; è una efficace scuola vocazionale, in cui la testimonianza sua affascina i ragazzi che si sentono trascinati ad essere come lui, a stare con lui; è una fervida scuola missionaria, in cui risalta che la sua ragion d'essere è solo la salvezza delle anime; è in definitiva una autentica scuola di spiritualità, in cui la santità spicca come ideale educativo affascinante e realizzabile.

    2. L'impegno ascetico

    Ogni esistenza vissuta nella mistica suppone un impegno ascetico: senza di esso non si realizza un autentico cammino spirituale. L'ascesi è una dimensione obbligata della vita cristiana, di ogni itinerario di santificazione. Accogliere il dono della salvezza esige una risposta quotidiana che prepari la via al Signore, spiani i suoi sentieri; richiede conversione del cuore, cammino ascetico.
    Don Bosco rivela spesso, anche con estrema semplicità di linguaggio ed essenzialità di tratti, le esigenze ascetiche della sua vita e missione.
    «Quando mi sono dato a questa parte del sacro ministero, intesi di consacrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime, intesi di adoperarmi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi degni abitanti del cielo. Dio mi aiuti a poter così continuare fino all'ultimo respiro di mia vita» (MO 626).
    «Consacrare ogni mia fatica», «adoperarmi per fare» sono espressioni familiari che tracciano l'itinerario di semplicità ed equilibrio dell'impegno ascetico. Si legge nel trattatello sul sistema preventivo: «L'educatore è un individuo consacrato al bene dei suoi allievi, perciò deve essere provato ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica per conseguire il suo fine che è la civile, morale, scientifica educazione dei suoi allievi» (SC 297).
    L'ascesi di don Bosco si colloca perciò in una precisa prospettiva di missione da svolgere e di servizio educativo da attuare.
    Essa è in sostanza partecipazione fattiva alla carità salvatrice di Cristo; e la carità, divenuta pastorale ed educativa nell'ascesi, mira a suscitare con disponibilità una risposta di libera fedeltà all'amore ricevuto. Essa è un amore che si propone alla libera risposta di ogni uomo e invita a una risposta sempre più completa.
    L'impegno ascetico nello stile di don Bosco assume così alcune tipiche connotazioni, che intendiamo esaminare e approfondire.

    2.1. L'amore esigente è centro dell'ascesi

    Il nucleo centrale dell'ascesi di don Bosco è l'amore stesso sotto l'aspetto esigente, poiché non c'è amore senza sacrificio. Non è dissimile dall'amore impegnato del padre e della madre, il quale non è altro che amore dedicato ai figli, con tutte le fatiche e le rinunce che comporta quotidianamente. A tutto si è pronti, pur di crescere bene i figli e dare loro quanto necessitano nel corpo e nello spirito.
    Don Bosco ha della vita «una concezione austera», non già nei comportamenti esteriori richiesti, quanto piuttosto nell'essenzialità delle esigenze e nell'adesione sincera del cuore. Una vita impegnata nella missione di salvezza della gioventù deve essere accompagnata da infaticabile operosità, poiché si tratta di una grande impresa: educare i giovani alla fede, testimoniandola con la vita e operando nella carità.
    Lo stesso don Bosco ebbe la chiara percezione delle dure esigenze ascetiche della sua missione: il sogno del pergolato di rose ne rivela tutta la suggestione, ma al contempo ne vieta la facile illusione.
    La missione dell'educatore è bella e grande, da affrontare con entusiasmo, ma con scarpe robuste. «Le rose infatti sono simbolo della carità ardente che deve distinguere gli educatori... Le spine significano gli ostacoli, i patimenti, i dispiaceri che ad essi toccheranno» (MB III,95).
    Nel percorrere l'attraente pergolato, don Bosco si pungeva e sanguinava «non solo nelle mani, ma in tutta la persona», quasi a richiamo della passione di Cristo Salvatore e della ammonizione della Lettera agli Ebrei: «Senza effusione del sangue non vi è redenzione» (9,22). Non devono trarre in inganno la semplicità e l'allegria di don Bosco, se fanno apparire facile e naturale ciò che in realtà è arduo e trascendente. Il cammino ascetico vissuto nel quotidiano dice infatti accettazione degli eventi come strada concreta e ardita per la speranza; intuizione delle persone con i loro doni e con i loro limiti per formare comunità; senso acuto e pratico del bene nell'intima convinzione che esso è più forte del male; dono di predilezione verso l'età giovanile che apre il cuore e la fantasia al futuro e infonde duttilità inventiva per saper assumere con equilibrio i valori dei tempi nuovi; simpatia dell'amico che si fa amare per costruire pedagogicamente il clima di fiducia e di dialogo che porta a Cristo. È in definitiva un pergolato di rose che si percorre cantando e sorridendo, anche se ben muniti di scarponi e di difese contro le numerose spine (E. Viganò).
    Il binario su cui viaggia l'ascetica del sistema preventivo è questo: la carità pastorale, tradotta in un instancabile lavoro apostolico, e la bontà del farsi amare, sostenuta da una intelligente e permanente temperanza, che implica mansuetudine e purezza, equilibrio e santa furbizia, sobrietà e gioiosa austerità.
    L'ideale del «non basta amare, occorre farsi amare», indica con efficacia sin dove deve giungere la proposta di don Bosco. Riemerge sempre il suo principio pedagogico: «L'educazione è cosa del cuore; tutto il lavoro parte di qui, e se il cuore non c'è, il lavoro è difficile e l'esito incerto» (A. Caviglia). Perciò la sintesi di amabile e rigorosa dolcezza, di umanità fatta a misura del ragazzo e di genuina cordialità che non cade in frivolezze, rappresenta l'itinerario ascetico che viene proposto.
    Nella lettera del 10 maggio 1884 don Bosco si interroga sulle richieste esigenti di questa strada stretta dell'evangelo: «Ma i miei giovani non sono amati abbastanza? Tu lo sai se io li amo. Tu sai quanto per essi ho sofferto e tollerato pel corso di ben quarant'anni, e quanto tollero e soffro ancora adesso. Quanti stenti, quante umiliazioni, quante opposizioni, quante persecuzioni per dare ad essi pane, casa, maestri e specialmente far procurare la salute delle loro anime. Ho fatto quanto ho saputo e potuto per coloro che formano l'affetto di tutta la mia vita... Che cosa ci vuole dunque? -si chiede e si risponde -. Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati», ossia che si vada loro incontro con autentica carità educativa. «Se non si fa attenzione infatti, gli educatori trascurano il meno, perdono il "più" e questo "più" sono le loro fatiche. Amino ciò che piace ai giovani e i giovani ameranno ciò che piace agli educatori. E a questo modo sarà facile la loro fatica».

    2.2. L'amorevolezza conduce al cuore del giovane

    Da una simile impostazione di ascetica pedagogica consegue la richiesta agli educatori, «tutti consacrati ai loro educandi» (don Bosco), di una presenza preventiva e propositiva tra i giovani per giungere al loro cuore. L'amorevolezza si esterna in parole e gesti quotidiani, e perfino nella espressione del volto; è dolcezza, simboleggiata nel sogno delle «confetture» con lo «zucchero ingommato», da mantenere a costo di ogni fatica, persino a prezzo di sangue (MB XIII, 302).
    «Senza familiarità non si dimostra l'affetto e senza questa dimostrazione non vi può essere confidenza. Chi vuol essere amato bisogna che faccia vedere che ama» (Lettera 1884). È l'impegno costante di ogni giorno.
    Ma l'ascesi dell'amore espresso nel dono di sé a servizio dei giovani esige un cuore libero da passioni per amare con totale purezza interiore. La disponibilità di cuore deve essere veramente grande, se si vuol perseguire la mèta. A don Bosco infatti interessa giungere al cuore del giovane. Per questo tutto deve essere sopportato pur di arrivare ad esso, ogni sforzo deve essere convogliato a questo scopo. Del resto quando parla di «amorevolezza», egli intende avanzare la maniera di ricercare la via del cuore.
    Non si tratta allora di seguire pulsioni emotive o esprimere semplice affettività, ma di percorrere la strada che giunge al mondo interiore, al «cuore del ragazzo».
    Una questione di fondo si pone per «guadagnare il cuore»: non ci si può presentare ai giovani con l'autorità dei princìpi, bensì ci si avvicina con l'autorevolezza della persona credibile che ispira fiducia e suscita corrispondenza d'amore.
    Questa attenzione educativa richiede di vivere in mezzo ai giovani e per i giovani; di «farceli amici», e «sentirne l'attrattiva, esserne soggiogati, avvertirne il ruolo insostituibile nella propria vita». Confidava amabilmente don Bosco ai suoi ragazzi: «Miei cari, io vi amo tutti di cuore, e basta che siate giovani, perché vi ami assai. Vi do tutto me stesso: nulla riserbo per me» (GP 7). Anche nel rimprovero o nel richiamo, il ragazzo deve percepire che «vi è sempre un avviso amichevole e preventivo che lo ragiona, e per lo più riesce a guadagnare un cuore». Il sistema preventivo infatti «rende amico l'allievo», lo «rende avvisato in modo che l'educatore potrà tuttora parlare col linguaggio del cuore». Per questo don Bosco suggerisce: «Lasciati guidar sempre dalla ragione e non dalla passione» (MB X, 1023). «Per riuscire bene con i giovanetti fatevi un grande studio di usare con essi belle maniere; fatevi amare e non temere» (MB XIV, 413).
    Insomma, l'esito dell'incontro è affidato al cuore dell'educatore che deve avere equilibrio, tratto squisitamente umano, sensibilità di amico, schietta comunicatività, incontro personale.
    «La parolina all'orecchio» di don Bosco è l'espressione più simpatica della presenza amichevole e propositiva dell'educatore.
    Un'amorevolezza che porti al cuore non può che percorrere le vie della persuasione ragionevole e del dialogo fondato su motivi di fede. Don Bosco è pienamente cosciente dell'ambivalenza dell'animo giovanile, ma non vi si lascia trascinare o coinvolgere. Anzi, egli prende le briglie della ragione e preme sul morso della religione per poter guidare «il focoso destriero» della gioventù nelle vie del Signore (MB VII, 726). Per ragionevolezza l'educatore si comporta con la semplicità dell'ascesi scevra di complicazioni o formalismi, enfasi o esasperazioni. Il «mantenersi nel ragionevole» è la regola che rende accessibile a tutti un cammino spirituale, poiché rivela il buon senso dell'amore.
    Per giungere al cuore del giovane il metodo di don Bosco esige inoltre massima attenzione alla sensibilità giovanile e alle sue genuine esigenze e potenzialità. Con fine intuito educativo viene codificato: «Si dia ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento. La ginnastica, la musica, la declamazione, il teatrino, le passeggiate sono mezzi efficacissimi per giovare alla moralità e alla sanità»; «Non mai obbligare i giovanetti alla frequenza dei Santi Sacramenti, ma soltanto incoraggiarli e porgere loro comodità di approfittarne» (SP 2,3-4).
    Eppure don Bosco «fa di tutto pur di infondere nei cuori il santo timor di Dio..., cioè radicarlo in modo che vi resti sempre, anche in mezzo all'infuriare delle tempeste e bufere delle passioni e delle vicende umane» (P. Albera). Nella sua esperienza educativa l'ascesi della lotta contro il male è evidentissima. Se è vero che da un lato la sua spiritualità è caratterizzata da amorevolezza e buon senso, dall'altro è viva la necessità di «evitare il peccato, come ciò che mette in pericolo la salvezza temporale ed eterna». Siamo sulla linea dell'umanesimo liberante. Il sacramento della Penitenza è infatti una colonna portante della spiritualità pedagogica di don Bosco. Aiuta la liberazione del cuore e provoca la trasformazione interiore; risana dal peccato e infonde vigoroso slancio di carità.
    Non per nulla la singolarità della prassi penitenziale instaurata da don Bosco a Valdocco sta precisamente nel particolare rapporto che sa realizzare con i giovani: come confessore egli si manifesta quale padre, amico, confidente, guida nella vita di ogni giorno. Don Bosco intende essere l'amico dei loro cuori per avvicinarli a Dio. Anche nell'incoraggiamento insistente a ricevere la comunione si nota la stessa sollecitudine. Egli se ne fa promotore per dichiarare guerra al peccato. È convinto che il male può farsi strada nell'animo giovanile assai prima di quanto si possa sospettare: è necessario perciò prevenire, irrobustire, accompagnare contro il grande nemico della vita.

    2.3. La pedagogia ascetica come cammino di «autenticità»

    Ormai è chiaro: l'amorevolezza che don Bosco propone è una richiesta esigente, perché ricerca autenticità di rapporto e indica la strada della verità.
    «C'è un mezzo per antivenire ogni dispiacere mio e vostro - confida don Bosco ai suoi ragazzi -. Formiamo tutti un solo cuore! Io son qui pronto per aiutarvi in ogni circostanza. Voi abbiate buona volontà. Siate franchi, siate schietti come io lo sono con voi» (MB VII, 503).
    La dinamica dell'amorevolezza nell'autenticità fa superare l'antinomia autorità-libertà, elementi coessenziali nel cammino educativo e spirituale; e la linea pedagogica di cooperare insieme al bene comune è ritenuta risolutiva. Don Bosco sa che per costruire la comunità è necessaria la partecipazione di tutti; è però convinto che solo nell'intimo della coscienza avvengono le decisioni più radicali e le disponibilità più durature. Per questo non appoggia la sua autorevolezza educativa in primo luogo sulla validità di argomentazioni religiose circa l'autorità; si rifà invece in particolare alla testimonianza incarnata di persona amica che come tale è riconosciuta e accolta. Davanti ai suoi ragazzi egli è per eccellenza «l'autorità, il tipo della bontà e della cristiana perfezione» (MB V, 737), perché in lui brilla squisitamente l'autorevolezza dell'autenticità.
    Il riferimento sicuro è dunque l'autenticità cristiana. I discorsi privati e pubblici, e le confidenziali buone notti fungono da mezzi educativi che permeano tutti i momenti dell'azione di don Bosco. Il modo di procedere è solo uno: accostare con pazienza, carità e dolcezza; non agire d'impulso, ma con pacatezza; far comprendere la via da seguire con la testimonianza della vita.
    È intuibile allora che don Bosco asserisca: «Io ve lo dico schiettamente, aborrisco i castighi, non mi piace dare un avviso con l'intimare punizioni a chi mancherà: non è il mio sistema» (Ep. IV, 201). La sua scelta sta al contrario nell'indirizzare positivamente 'sulla via del bene, nell'indicare la bellezza della verità e della virtù.
    La severità dell'educatore, quando è necessaria, si giustifica solo per preservare dal male. «Don Bosco è il più gran buonuomo che vi sia sulla terra; rovinate, rompete, fate biricchinate, saprà compatirvi; ma non state a rovinar le anime, perché allora egli diventa inesorabile» (MB VIII, 40).
    Come si può constatare, l'ascesi proposta è tutta educativa, impegnata a far crescere in maturità e pienezza di vita.
    È l'ascesi dell'amore verso i giovani che si sostanzia di presenza amichevole nella vita del giovane; di presenza animatrice del progresso culturale, morale, spirituale; di presenza stimolatrice del progressivo impegnarsi per la gioventù.
    Don Bosco «era sempre in mezzo ai giovani. Aggiravasi qua e là, si accostava or all'uno, ora all'altro, e, senza che se ne avvedessero, li interrogava per conoscerne l'indole ed i bisogni. Parlava in confidenza a questo e a quello; fermavasi a consolare o a far stare allegri con qualche lepidezza i malinconici. Egli poi era lieto e sorridente, ma nulla di quanto accadeva sfuggiva alla sua attenta osservazione» (MB III, 119). Era un compagno di viaggio per condurre al bene nell'autenticità della vita secondo il Signore.

    2.4. La presenza educativa coinvolge interiormente

    Una simile prassi ascetica, apparentemente facile ma in realtà assai esigente, richiede che si sia completamente presenti all'altro e pienamente con lui, che si partecipi alla sua esistenza personale, perché ci si interessa di lui. Don Bosco ne è interamente cosciente.
    Da buon realista conosceva la fragilità dei suoi giovani e nella vicinanza empatica riscontrava la necessità dell'«assistenza», di accompagnamento. Il suo fine intuito educativo gli suggeriva che è più salutare evitare esperienze negative che doversi poi sforzare per eliminarne le amare conseguenze. Anche oggi si riconosce, al di là dei tentennamenti, l'importanza determinante della prevenzione nei vari campi: l'ecosistema di vita è la situazione ideale per crescere verso la maturazione dell'intera persona.
    La convinzione di una necessaria presenza vigilante e preventiva, eretta a principio di metodo, non gli impedisce di lasciare i giovani nella libertà d'azione e soprattutto di cuore, poiché sa che nessuno può violare il sacrario della coscienza. La sua asserzione che «vigilando si previene sufficientemente il male e non c'è bisogno di reprimere» (MB XVI, 168), potrebbe suonare segno di sfiducia, di sospetto o pessimismo, ma l'affermazione va collocata opportunamente in quel clima di cordialità, confidenza e amorevolezza, senza di cui la vigilanza degenera in coartazione inammissibile e inaccettata.
    Per questo ripeteva: «Io non voglio che mi consideriate come vostro superiore, quanto vostro amico... Abbiate molta confidenza, che è quello che io desidero, che vi domando, come m'aspetto da veri amici» (MB VII, 503). Del resto don Bosco possiede una radicale fiducia nei suoi ragazzi, tanto da intravedere in essi «una naturale intelligenza per conoscere il bene che viene loro fatto personalmente, e insieme sono pure dotati di un cuore sensibile, facilmente aperto alla riconoscenza» (MB VII, 761).
    L'impegno ascetico di carità educativa porta don Bosco a esortare: «Vigila... pur mostrando sempre buona stima di tutti e senza mai scoraggiare nessuno; ma non stancarti di vigilare, di osservare, di comprendere, di soccorrere, di compatire. Lasciati guidare sempre dalla ragione e non dalla passione» (MB X, 1022).
    Lo sforzo metodico di presenza personale e amichevole tra i giovani stimola e guida la loro maturazione: è una presenza che, attuata in un clima di piena libertà, diventa coinvolgimento personale. L'educatore si trova totalmente sfidato dalla situazione dei giovani e immerso nel loro cammino di crescita.
    Egli infatti non può nascondersi dietro lo schermo del «ruolo» o della «funzione», oppure del «personaggio»; può solo presentarsi senza maschere, per quello che è, come adulto amico tra amici. Di conseguenza in questo modo la sua presenza sincera e disponibile stimola allo sviluppo di sé e alla sua manifestazione più vera. Essa suscita energia positiva, assicura la base per scelte libere, apre la strada al processo di liberazione, contribuisce a costruire la personalità. Carica di messaggi positivi, la presenza dell'educatore fa evitare lo scoglio della repressione condizionante e al contempo le sabbie mobili del facile permissivismo. Essa però esige chiaramente la rinuncia a qualsiasi forma di manipolazione o di comunicazione autoritaria, come il superamento del semplice intervento esortativo e incoraggiante, per esplicarsi in animazione carica di valori da proporre alla coscienza del giovane. Così la presenza preventiva si integra mirabilmente con la sua proposta di bene.
    La loro coniugazione avviene nel gesto coerente che si pone in sintonia con un sentimento profondo: il giovane è degno di fiducia e d'amore, poiché Dio ne è la garanzia. L'assumere o abbandonare un ruolo non modificherà la situazione: è solo l'autenticità interiore, ossia la congruenza tra la nostra esperienza profonda e il messaggio da comunicare, che non tradisce. In fondo l'essenziale del rapporto educativo, al di là di forme contingenti, sta nell'amore autentico, che educa perché segno efficace dell'amore di Dio.

    2.5. Asceti nel quotidiano per operare evangelicamente

    Don Bosco non ha amato a parole, ma con i fatti. Ispirandosi a Gesù che ha sacrificato la vita, lavora instancabilmente per i suoi giovani. Davvero padre e amico, accetta fatiche, preoccupazioni, ogni sorta di difficoltà. La sua ascesi giunge al culmine nel «coetera tolle», pur di possedere la piena disponibilità a operare per l'evangelo.
    «Lavoro e temperanza» è il binomio che compendia l'impegno a servire con operosità e nella sobrietà.
    L'operosità infatti fa uscire da sé per aprirsi alle necessità altrui. Chi lavora poco, gira attorno alla sua vita, preoccupato di sé; chi invece lavora senza sosta per il bene della gioventù non ha tempo da perdere in banalità o inconcludenze.
    È vero, «il lavorare intensamente per gli altri diviene una metodologia ascetica che ci fa dimenticare il nostro io... Se nel cuore c'è un profondo senso di Cristo Redentore, ci si dà agli altri e si traduce in maniera pratica l'amore di carità sempre attento alle esigenze della missione..., senza vivere ripiegati su se stessi. Così l'estasi del lavoro appare un concreto esercizio ascetico per allontanarci dall'egocentrismo; non con una ginnastica artificiale, ma con un fare quotidiano e normale che è utile agli altri» (E. Viganò).
    In questo senso don Bosco vive e propone una spiritualità operosa. I suoi educatori li vuole «in maniche di camicia». Per lui la vita è un impegno serio: è «lavoro».
    «Mediante il lavoro - dice ai suoi ragazzi - potete rendervi benemeriti della società, della Religione e far del bene all'anima vostra, specialmente se offrirete a Dio le quotidiane vostre preoccupazioni» (RC 5).
    Egli aborrisce l'ozio, «il laccio principale che il demonio tende alla gioventù, sorgente funesta di tutti i vizi» (GP 20), e quindi da considerare «il più grande nemico, che si deve continuamente combattere» (MB X, 1032).
    I suoi giovani vengono formati a lavorare, perché «chi non si abitua al lavoro in tempo di gioventù, per lo più sarà sempre un poltrone fino alla vecchiaia» (MB IV, 748). Don Bosco fa del lavoro e dell'impegno un'autentica ergonomia spirituale. Ed è proprio perché vuole preparare i suoi giovani alla vita che non è per nulla incline al disimpegno e tanto meno al lassismo.
    Persino nel tempo della distensione sollecita a impegnarsi in compiti utili, anche se l'insistenza non va dissociata o esasperata. Infatti la «santificazione del dovere ben compiuto» non deve attenuare la «santificazione della gioia di vivere». Don Bosco sa molto bene che la giusta distensione rafforza la tensione dell'impegno nel dovere. Quanto prospetta ai giovani è la vita come impegno, come tensione morale e spirituale, vissuta secondo la propria condizione di vita. A lui sta a cuore che venga ricercato con costanza ciò che edifica la propria esistenza in qualsiasi momento, anche distensivo o di tempo libero.
    Questo modo di presentare l'esistenza impegnata è soprattutto motivato dalla fede. «L'adempimento dei doveri del proprio stato, sia di studio, sia di arte o mestiere» (MB IV, 748) corrisponde alla vocazione di ciascuno, è il servizio a cui Dio chiama non solo per affrontare le esigenze della vita o per rendersi socialmente corresponsabili, ma appunto per compiere la missione affidata a ognuno di noi. E indicativo che don Bosco, rivelando a Domenico Savio la formula magica della santità, lo consigli di «essere perseverante nell'adempimento dei suoi doveri di pietà e di studio» (SD 51).
    Secondo don Bosco il «lavoro», il compimento del «dovere» è realizzazione di una missione ricevuta da Dio, è collaborare all'opera della redenzione, è mettersi in sintonia con la sua incessante azione nel mondo. «Infiammato dal suo zelo... non riposava mai e non lasciava riposare», testimonia don Cena di lui; una preoccupazione non lo abbandona neppure sul letto di morte: «Lavoro, lavoro, lavoro» (A I, 722), una consegna della sua spiritualità.

    2.6. Una disponibilità totale radicata nella «pietà»

    L'ascesi di don Bosco è radicata nello svolgimento semplice e quotidiano delle proprie occupazioni con totale disponibilità. «Ciascuno sia disposto a fare grandi sacrifici... non di sanità, non di denaro, non di macerazioni e penitenze, non di astinenza straordinaria nel cibo, ma di volontà» (MB VII, 47).
    La massima disponibilità deve essere patrimonio dell'educatore che, nel condividere la vita dei giovani, è pronto ad affrontare ogni disturbo e ogni fatica. Un atteggiamento che non si improvvisa, ma che scaturisce dalla gioia di vivere nel «Servite Domino in laetitia».
    La gioia si compone così armonicamente con l'austerità, poiché questa consiste nella volontà del servizio e non nel tono della vita: si lavora allegramente, perché in tutto c'entra l'amore.
    In questo modo si attua con naturalezza l'eroico nel quotidiano. Questa visione è motivata e ispirata dalla «pietà», ossia dal senso di Dio nella vita propria. La sua autenticità sta nel «compiere i doveri a tempo e luogo e solo per amore di Dio» (A. Caviglia), e non in formalità.
    Il pietismo, il verbalismo e il formalismo non fanno per don Bosco. Per lui pietà è purezza di intenzione, disponibilità al sacrificio, decisa volontà di verificare se stessi in vista del bene. L'eroicità del dovere quotidiano esige una intensa pietà, ossia un costante sentirsi come inviati e un operare abitualmente per il Regno di Dio.
    Don Bosco ce ne dà testimonianza. Egli «era presente a tutto, affaccendato in una ressa continua, assillante di affanni, ma al tempo stesso aveva lo spirito sempre altrove, sempre in alto, dove il sereno era imperturbato sempre» asserisce don Rua (DI 1927).
    Il «da mihi animas» è in don Bosco «una perenne aspirazione, una costante invocazione, anzi una continua preghiera; la pietà che si esprimeva in azione infaticabile» (DI 1933).
    Nel prodigarsi senza risparmio ha amato intensamente Dio: «Sembrava che interrompesse i suoi colloqui con Dio per dare udienza, e che da Dio gli fossero ispirati i pensieri e gli incoraggiamenti che regalava» (M. Rua).
    Solo una profonda pietà può ispirare un lavoro indefesso, disinteressato, dimentico di sé, e far superare la tentazione ricorrente di una esistenza quotidiana senza clamori. «Lo spirito di codesta vita quotidiana vissuta nel pensiero di Dio è un pensiero e uno spirito di amore. Nel suo sistema educativo l'amore è tutto. E ognuno vede come il vivere amorosamente la vita del dovere, ossia il far bene le cose per amore e con amore, che è il principio animatore della vita pratica, riesca a dare al tutto un tono non solo più sereno e una scioltezza di spirito che trascende le inevitabili gravitudini del vivere quotidiano; ma insieme induca quella letizia che è propria del contentamento dell'anima e quell'impulso che porta a far sempre più e sempre meglio. Ed è dunque l'anima del suo sistema la santificazione per mezzo dell'amore nella pratica della vita quotidiana» (A. Caviglia).
    Appunto a conclusione del sogno del pergolato di rose la Madonna rivela a don Bosco il segreto del suo impegno educativo: «Sappi che la via da te percorsa tra le rose e le spine significa la cura che tu hai da prenderti della gioventù; tu devi camminare con le scarpe della mortificazione. Le rose sono simbolo della carità ardente che deve distinguere te e tutti i tuoi collaboratori. Le spine significano gli ostacoli, i patimenti, i dispiaceri che vi toccheranno. Ma non vi perdete di coraggio: con la carità e la mortificazione tutto supererete e giungerete alle rose senza spine» (MB IR, 34).

    3. Don Bosco, un maestro di mistica e di ascesi

    «Don Bosco è un mistero!». È l'esclamazione attribuita a don Cafasso. Anche considerando questo sentire come una dilatazione dell'enfasi storica, rimane pur sempre vera la grandezza della sua personalità: «Lo vedo semplice e straordinario, umile e grande, povero ed occupato in disegni vastissimi ed in apparenza non attuabili, e tuttavia, benché avversato e direi incapace, riesce splendidamente nelle sue imprese. Per me don Bosco è un mistero! Sono certo però che egli lavora per la gloria di Dio, che Dio solo lo guida, che Dio solo è lo scopo di tutte le sue azioni» (MB IV, 588).
    Da questo cuore immerso in Dio scaturisce la ricchezza della sua spiritualità, inconfondibilmente appassionata della salvezza della gioventù. Leggendo la pagina lasciataci da don Bosco stesso nei suoi scritti, ne cogliamo lo spirito che l'anima: al di là della vita operosa che viene descritta, c'è un cuore che palpita, uno spirito che vive.
    «Crediamo cosa pubblicamente conosciuta come il sac. Bosco Giovanni, nel desiderio di promuovere il vantaggio morale della gioventù abbandonata, si adoperò che fossero aperti tre oratori maschili in tre principali lati di questa città, ove nei giorni festivi sono raccolti, nel maggior numero che si può, quei giovani pericolanti della città e dei paesi di provincia, che intervengono a questa capitale. In questi oratori avvi cappella per le funzioni religiose, alcune camere per la scuola ed un giardino per ricreazione. Ivi sono allettati con premi; e trattenuti con un po' di ginnastica o con altra onesta ricreazione, dopoché hanno assistito alle sacre funzioni. Il numero di quelli che intervengono eccede talvolta i tremila. Quando le stagioni dell'anno lo comportino, vi è scuola di lettura, scrittura, canto e suono.
    Un ragguardevole numero di pii signori sono sollecitati a prestare l'opera loro col fare catechismo e con l'adoperarsi che i giovani disoccupati vengano collocati al lavoro presso ad onesto padrone, continuando loro quell'amorevole assistenza che ad un buon padre conviene.
    Nell'oratorio poi di Valdocco vi sono anche le scuole feriali di giorno e di sera, specialmente per quei ragazzi che o per l'umiltà delle lacere vesti o per la loro indisciplina non possono essere accolti nelle pubbliche scuole. Le scuole serali sono assai frequentate. Ivi è parimenti insegnata la lettura, scrittura, musica vocale e strumentale, e ciò tutto per allontanarli dalle cattive compagnie, ove di certo correrebbero il rischio di perdere lo scarso guadagno del lavoro, la moralità e la religione.
    Tra questi giovani, siano della città siano dei paesi di provincia, se ne riscontrano alcuni (per lo più orfani), i quali sono talmente poveri ed abbandonati, che non si potrebbero avviare ad un'arte o mestiere senza dar loro alloggio, vitto e vestito, e a tal bisogno si è provveduto con una casa annessa all'oratorio di Valdocco, ove sono accolti in numero di oltre centocinquanta: loro è somministrato quanto occorre per farsi buoni cristiani ed onesti cittadini».
    Don Bosco è «un uomo d'azione», dunque!
    «Fortunatamente, e qui la storia diventa prodigiosa ... quest'uomo d'azione è insieme un mistico a cui si spalanca il cielo. Tutta la sua vita è come punteggiata di visioni che egli stesso raccontava con una semplicità incantevole... Poco asceta in apparenza; e tuttavia, anche nei momenti di maggior gioia, un'espressione di raccoglimento si imponeva... Tutto è umano in lui, e nello stesso tempo irraggia misteriosamente una luce suprema» (D. Rops).
    Don Bosco sarebbe davvero un enigma colossale, se non si potesse scovarne il segreto nella sua intensa vita di unione con Dio.
    A chi, impressionato dal suo indaffararsi per le questioni più diverse, si chiedeva quando don Bosco poteva trovare il modo di raccogliersi con Dio, il papa Pio XI rispose con arguzia che bisognava piuttosto cercare non quando pregasse, bensì quando non pregasse. Questa è la chiave vera del mistero: la sua perenne aspirazione a Dio, la sua incessante e intima conversazione con Dio, per quanto molteplici fossero le sue occupazioni e preoccupazioni (E. Ceria).
    Don Rua, vicinissimo a don Bosco, dichiara che quanto poté continuamente scorgere in lui fu «la sua continua unione con Dio: e questi sentimenti d'amore manifestava con tanta spontaneità che si vedeva che sgorgavano da una mente e da un cuore sempre immersi nella contemplazione».
    La sua fortezza d'animo nelle difficoltà ne rivelava il vigore mistico e ascetico. Era proverbiale la calma inalterata in tutte le situazioni, anche le più drammatiche. Era abituale un sussurrare tra i suoi: «Oggi don Bosco deve essere in qualche imbarazzo ben serio, giacché si mostra più lieto dell'ordinario».
    È ben vero, testimonia ancora don Rua, che «il dolore, nei cuori elevati alla contemplazione, si trasforma misticamente in amore, e l'amore è quello che dilata i cuori».
    Per questo la gioia era in lui il segno manifesto della sua vita continua in Dio. Del resto ricordava con il Marmion che «la tristezza è un soffio che viene dall'inferno, la letizia è l'eco della vita di Dio in noi». In lui, dall'animo pieno di Dio, traspariva l'abituale ottimismo, l'allegrezza del cuore, il sorriso imperituro, era il sorriso della santità (E. Ceria).



     


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