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    L'eredità pastorale del Vaticano II /4

    Una nuova

    prospettiva ecclesiale

    Luis A Gallo


    N
    on è difficile, per chi legge con una certa attenzione i documenti del Vaticano II, rendersi conto che esso fu un Concilio eminentemente ecclesiologico. La Chiesa nella sua poliedrica realtà fu il suo tema centrale, il filo conduttore che gli diede unità. Risulta illuminante prendere in considerazione le diverse tappe che segnarono il suo approfondimento, cercando di cogliere la profonda svolta avvenuta, sotto la guida dello Spirito, durante la sua maturazione.

    Verso una nuova ottica ecclesiale

    Per molti secoli rimase in vigore nella mente, nella vita e nella prassi dei cristiani, una certa concezione di Chiesa che era originata nel lontano secolo IV, quando l’imperatore Costantino concesse al cristianesimo il diritto di esistere pubblicamente nell’impero romano. Si trattò di una decisione gravida di conseguenze, in parte senz’altro positive ma anche negative. Sostanzialmente: la comunità dei credenti in Gesù Cristo cominciò ad essere un’istituzione di ordine pubblico. Ciò vuol dire che certe sue componenti societarie, istituzionali, organizzative e giuridiche passarono in primo piano nella coscienza dei suoi membri, lasciando in secondo piano altre più decisamente evangeliche. Pur senza rinnegarle, naturalmente.
    Uno dei tratti più vistosi di questa Chiesa-istituzione fu la sua strutturazione piramidale. Essa, infatti, si modellò sull’organizzazione dell’impero – e poi delle altre società che gli succedettero –, la quale contemplava l’esistenza di un vertice, che accumulava in sé tutto il potere e tutta la dignità, e poi una serie di scalini discendenti dove potere e dignità andavano diminuendo gradualmente fino al punto più basso, dove essi scomparivano completamente. Una società così organizzata gerarchicamente, in cui ogni grado sottostava a quello superiore, rendeva più facile la stabilità e la sicurezza dell’insieme.
    Conseguenza di tale strutturazione fu la divisione tra coloro che occupavano i gradi della gerarchia (papa, vescovi, preti, chierici in genere), e quelli che invece costituivano la base totalmente spoglia di potere decisionale e dignità riconosciuta (laici). Questa divisione trovava espressione tanto nell’ambito del rapporto con la Parola di Dio, in cui alcuni erano tenuti ad insegnare e gli altri ad imparare, quanto in quelli del culto, in cui alcuni erano protagonisti e gli altri spettatori, e dell’organizzazione e governo, in cui alcuni erano soggetti delle decisioni e gli altri solo esecutori delle medesime.
    Disegnavano ancora il volto di questa Chiesa una serie di tratti molto caratteristici, che descriviamo brevemente, con la chiara consapevolezza che in realtà essi non si sono mai verificati allo stato puro, ma solo come linee di tendenza.
    Anzitutto il suo concepirsi come luogo esclusivo di salvezza per tutti e ognuno degli uomini. Il detto di S. Cipriano – «fuori dalla Chiesa non c’è salvezza» – serviva ad esprimere tale concezione. Con la conseguenza che per gli altri, quelli che non entravano a formar parte della Chiesa, non restava che la perdizione. Una concezione che trovava i suoi attenuanti nel battesimo di sangue e di desiderio.
    In secondo luogo, il pensarsi come l’attuazione del regno di Dio sulla terra, con la conseguente coscienza di essere l’unica a possedere la verità e la santità. Il resto dell’umanità, quella che non apparteneva alla Chiesa, era vista come il regno del diavolo, e quindi dell’errore, della corruzione, della menzogna e delle tenebre. Contro di esso la Chiesa doveva combattere senza tregua, per debellarlo e impiantare così il regno della luce e della santità.
    Terzo tratto caratteristico era di ritenersi l’unica a realizzare la volontà «fondazionale» di Cristo. Sola la Chiesa cattolica – si pensava – possedeva tutti i requisiti da lui voluti per essere la sua Chiesa. Tutte le altre confessioni cristiane, mancando di qualche componente, non potevano pretendere di esserlo. Una componente discriminatoria ultima era, specialmente nell’ultimo secolo, il primato di giurisdizione del papa, successore di Pietro e vicario di Cristo stesso sulla terra.
    Infine, un quarto tratto era quello di rapportarsi con le realtà cosiddette temporali in chiave di dominio. La scienza e la politica, soprattutto, sono state spesso costrette a sottostare alle sue decisioni, come modo di assicurare il loro adeguato orientamento verso il fine ultimo dell’uomo.
    Questa prospettiva ecclesiologica arrivò, praticamente, senza sostanziali modifiche, fino alle soglie del Vaticano II. Rinforzata dalle decisioni prese nel Concilio di Trento (1545-1563) per debellare gli errori di Lutero, e da quelle del Vaticano I (1869-1879) per consolidare l’autorità suprema del papa, continuò ad orientare il vissuto ecclesiale degli ultimi secoli. La crescente sensibilità verso i profondi cambiamenti in corso nel mondo attuale portarò tuttavia il Vaticano II ad abbandonarla. E, prendendo le distanze da essa, iniziò un lento ma deciso processo alla ricerca di modi differenti di pensare la Chiesa.

    Il passo verso una Chiesa-comunione

    In questa ricerca di una nuova maniera più consona con l’ispirazione iniziale del suo Fondatore e allo stesso tempo con le nuove sensibilità emergenti nel mondo, il Vaticano II fece sua inizialmente la prospettiva comunionale. Nei testi conciliari si coglie la sua presenza soprattutto nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium, ma permea anche, in maggior o minor misura, la maggioranza degli altri documenti che si ispirano ad essa.
    La Chiesa viene vista in essi non già dal di fuori bensì dal di dentro, ossia a partire dal suo mistero più intimo. E questo suo mistero, che la fede scopre come la sua realtà più profonda, viene a sua volta pensato in chiave di comunione.
    Cosa intendesse per «comunione» il Concilio non lo ha detto esplicitamente; lo si può desumere dall’insieme delle sue riflessioni. Comunione è il contrario di accaparramento, dell’avere qualcosa solo per se stessi. È condividere; condividere ciò che si è, come persona, e condividere ciò che si ha, in tutti gli aspetti della vita umana e credente.
    C’è Chiesa pertanto, secondo questa prospettiva conciliare, lì dove c’è comunione tra i credenti in Cristo. Una comunione nata dalla fede in lui e alimentata da essa. È questo indubbiamente il tratto più saliente e caratteristico della prima ecclesiologia conciliare, un tratto dal quale derivano o con il quale si ricollegano tutti gli altri che contribuiscono a delineare più nitidamente il suo volto. Uno di questi tratti derivati è quello del nuovo modo in cui sono impostati i rapporti tra i membri della Chiesa: si sottolineano decisamente gli aspetti di uguaglianza fraterna e di servizio vicendevole. L’abbandono della struttura piramidale e della divisione fra chierici e laici ha come logica conseguenza la rinnovata concezione dell’autorità come servizio (Lg 18a), e il riconoscimento del posto e del ruolo dei cristiani-laici (Lg cap. IV e AA). Questi ultimi non sono più pensati quali cristiani «di seconda categoria» o quali semplici «clienti» dei pastori, come è accaduto più di una volta in passato, ma quali membri della Chiesa a pieno titolo, con la loro responsabilità propria «nella Chiesa e nel mondo» (Lg 31a).
    In questa stessa linea acquistano rilievo altre tre tematiche caratteristiche: il sacerdozio comune o dei fedeli (Lg 10-11.34), che accomuna tutti i membri della Chiesa dal punto di vista cultuale prima di ogni ulteriore distinzione tra sacerdozio ordinato e non ordinato; il cosiddetto sensus fidelium (Lg 12a), che esprime l’uguaglianza radicale tra tutti, anteriore ad ogni diversificazione ulteriore, dal punto di vista profetico o di adesione alla Parola; e la pluralità dei carismi (Lg 12b), che costituisce la base comune a tutti, dal punto di vista regale o di partecipazione alla signoria di Cristo, prima di ogni ulteriore specificazione (pastori, religiosi, laici).
    Altri tratti tipici di questa Chiesa-comunione sono il suo non concepirsi più come luogo esclusivo della salvezza, ma piuttosto come suo sacramento nel mondo, con la responsabilità di esserne segno luminoso e fecondo strumento (Lg 1); il suo pensarsi non come il regno di Dio sulla terra, bensì come suo germe imperfetto e segnato dal peccato (Lg 5.8.48); il suo considerarsi vera Chiesa di Cristo (Lg 14), ma riconoscendo il valore ecclesiale delle altre confessioni cristiane (Lg 15; UR); e il suo rapportarsi con le realtà temporali nel rispetto della loro autonomia (Lg 36).

    Ancora un passo ulteriore

    La prospettiva ecclesiologica comunionale acquistò ampio spazio nella dinamica del Concilio e ispirò molti dei suoi documenti, ma all’interno dello stesso Concilio si andò aprendo lentamente strada un’altra prospettiva che, senza rinnegare le novità apportate dalla precedente, le superò aprendole in una nuova direzione.
    La genesi di questa nuova prospettiva è collegata alle inquietudini di alcuni dei partecipanti più sensibili ai più gravi problemi dell’umanità in quel momento. Essi trovavano inaccettabile che un concilio ecumenico della portata del Vaticano II, celebrato nella seconda metà del XX secolo e in un mondo fortemente segnato da profondi cambiamenti di ogni genere, si riducesse ad affrontare delle problematiche quasi esclusivamente intraecclesiali.
    Lo loro inquietudini trovarono sbocco in un primo momento nella formulazione del Messaggio iniziale del Concilio, ma fu soprattutto durante l’elaborazione della Costituzione pastorale Gaudium et Spes che si espressero compiutamente. Paolo VI, alla vigilia della chiusura del Concilio, sintetizzò magistralmente la nuova presa di posizione nella sua allocuzione del 7.12.1965. In essa affermò solennemente: «La Chiesa si dichiara quale serva dell’umanità».
    In questa nuova visione l’essere della Chiesa, ossia la sua natura, veniva fatta coincidere con la sua missione: la Chiesa di Gesù Cristo – si asseriva implicitamente – non solo ha una missione, ma è missione. E questa sua missione va intesa in chiave di servizio (Gs 3b). Un servizio che a sua volta è specificato dal suo destinatario, che non è né la Chiesa stessa né i suoi membri in quanto tali, bensì il mondo, visto per di più in una prospettiva dinamica ed evolutiva (Gs 5g); dal suo obiettivo, che è la realizzazione del mondo nella sua vocazione di umanità (Gs 3b); dalla modalità della sua attuazione, che è l’ispirazione evangelica, nella quale la Chiesa trova la sua propria identità e la propria originalità.
    In breve, in questa nuova impostazione la Chiesa si autodefinisce come servizio evangelico di salvezza all’umanità. Fu precisamente questa la «svolta copernicana» più profonda operata dal Concilio, la proposta di una ecclesiologia in cui la Chiesa definisce se stessa quale serva dell’umanità dell’uomo, a partire ovviamente dalla sua fede nel Vangelo di Gesù Cristo (Gs 3).
    Conseguenza logica di tale svolta fu l’accentuato orientamento transecclesiale della prospettiva in questione. Vale a dire che i grandi problemi del mondo attuale, quelli in cui è prevalentemente in gioco la vita e la crescita in umanità degli esseri umani, singolarmente e collettivamente presi, e che di conseguenza pervadono anche la comunità ecclesiale, devono passare in primo piano nell’attenzione e nella preoccupazione della Chiesa e dei suoi membri. I problemi intraecclesiali invece, pur senza venire ignorati o trascurati, devono restare in un secondo piano e essere ripensati e ridimensionati alla luce di ciò che costituisce la loro preoccupazione principale.
    Da quest’impostazione transecclesiale deriva pure una caratterizzazione che diventa realmente determinante in quest’ecclesiologia: l’importanza data alla dimensione profetica della vita di fede. Il testo di Gaudium et Spes 11 ne traccia un programma sostanziale: discernere, con lo Spirito di Dio, gli avvenimenti della storia per poter operare adeguatamente in ordine alla salvezza concreta dell’umanità nella storia, è condizione imprescindibile per poter agire in ordine alla sua salvezza. Per ciò che riguarda il rapporto tra i diversi membri della Chiesa, nell’impostazione della Gaudium et Spes non solo si presuppone l’uguaglianza fraterna e il servizio reciproco di tutti i membri della comunità ecclesiale (Gs 32b), come già nella Lumen Gentium, ma si riconosce inoltre espressamente ai laici un posto di avanguardia nella comunità ecclesiale (Gs 43). Ed è comprensibile che sia così, se essa è impegnata prioritariamente nei problemi transecclesiali.
    Nell’ambito del rapporto con gli altri cristiani, oltre ad auspicare una cooperazione fattiva ed efficace «con i fratelli separati che fanno pure professione di carità evangelica» nella ricerca della pace universale (Gs 90), nella conclusione della Costituzione pastorale si torna a ribadire che, nello sforzo della costruzione della fraternità universale, la Chiesa è unita a «i fratelli che non vivono in piena comunione con noi e alle loro comunità» (n. 91). Si tratta, come si vede, di un ecumenismo veramente transecclesiale, che punta prevalentemente a «cooperare fraternamente al servizio della famiglia umana che è chiamata a diventare in Cristo Gesù la famiglia dei figli di Dio» (ibid).
    Fino a questo punto arrivò il Vaticano II nel suo ripensamento ecclesiologico. Ma, dato che aveva assunto un andamento volutamente dinamico ed evolutivo, come dinamica ed evolutiva era la mentalità da esso rilevata nel mondo attuale (Gs 5), il suo operato ebbe ulteriori sviluppi nel periodo postconciliare.
    Non è il caso di soffermarsi su di essi, perché esulano dal nostro proposito. Basta ricordare che, specialmente nel mondo della povertà, oggi maggioritario nell’umanità, la Chiesa si pensò precisamente come una Chiesa al servizio della non-umanità, e cioè di coloro che le ingiuste strutture sociali, economiche e politiche del mondo, spogliano della loro dignità umana.


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