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    L'eredità pastorale del Vaticano II /2

    Un nuovo rapporto

    con la Parola di Dio

    Luis A Gallo


    L
    a fonte prima della fede è la Parola di Dio. La Chiesa, infatti, è nata dall’annuncio della Parola, e vive e si nutre costantemente di essa. Il Vaticano II costituì una vera svolta, da molti punti di vista, per quel che riguarda il suo rapporto con essa.

    Il ritorno della Bibbia nella Chiesa

    L’abbiamo già ricordato: uno degli effetti collaterali delle decisioni del Concilio di Trento (sec. XVI), nel suo tentativo di arginare la Riforma protestante, fu quello di allontanare sempre più sensibilmente i fedeli, soprattutto i fedeli laici, dal contatto diretto con la Bibbia. Con lo scorrere del tempo si giunse a una situazione paradossale. Mentre infatti i protestanti si vantavano di una grande familiarità con la S. Scrittura e di una sua conoscenza in genere molto vasta, i cattolici avevano quasi paura di tenerla fra le mani. Ordinariamente ne ascoltavano la lettura, molto frazionata, solo nelle celebrazioni liturgiche, e per di più in una lingua che non era la loro, il latino.
    Non pochi gruppi ecclesiali reagirono di fronte a tale situazione. Una ventata di fervore biblico fece sentire i suoi effetti nella Chiesa nei decenni che immediatamente precedettero il Vaticano II. Fervore che trovò uno sbocco ufficiale nella Costituzione conciliare Dei Verbum, sulla divina rivelazione, che più di una volta invita i credenti in genere, e le diverse categorie ecclesiali in particolare, a riprendere in mano la Bibbia. «È conveniente che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura», si afferma tassativamente al n. 22. E, nello stesso numero, introducendo l’invito a curare la sua traduzione, si ribadisce ancora: «La Parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo».
    Si è in tal modo lontani da quell’interdizione che, per ragioni di prudenza pastorale, era stata in vigore per parecchio tempo, producendo effetti veramente negativi tra i fedeli, che in effetti restavano privi di un nutrimento sostanziale per la loro fede. Nei testi conciliari citati, come si vede, senza tralasciare di raccomandare un corretto approccio alla Bibbia, si fa un accorato invito al ritorno ad essa, nella speranza che in tal modo «la Parola di Dio compia la sua corsa e sia glorificata» (2 Tes 3,1), e «il tesoro della rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre più il cuore degli uomini» (n. 26).
    Nel contesto del discorso sulla Parola scritta, di quella cioè contenuta nei libri della Sacra Scrittura (n.11a), e che la Chiesa ha sempre venerato come ha fatto con il Corpo stesso di Cristo (n.21a), la Costituzione Dei Verbum affrontò anche il tema della sua interpretazione. Essa accolse senza reticenze i progressi fatti in quest’ambito grazie allo sforzo di studiosi inizialmente non sempre ben visti, per via di un’inerzia di secoli che portava a letture di altro genere del testo biblico, ma poi a poco a poco riconosciuti nella loro competenza e serietà. Non si può ignorare, da questo punto di vista, l’influsso notevole esercitato anche da studiosi protestanti che precedettero quelli cattolici.
    In concreto, partendo dall’affermazione di S. Agostino secondo la quale nella Bibbia ha parlato Dio stesso, ma per mezzo di uomini e alla maniera umana (n. 12a), la Costituzione enuncia il principio fondamentale secondo il quale, per capire ciò che Dio volle comunicare attraverso gli scritti, bisogna cercare di cogliere ciò che gli scrittori stessi intesero significare (l. c.). E specifica ancora che, per riuscirci, occorre tener conto, tra l’altro, dei generi letterari da loro adoperati, «poiché la verità viene proposta e si esprime in maniere diverse, con svariati generi letterari: storico, profetico, poetico, e altri» (n. 12b). Il «tra l’altro» del testo fa velatamente riferimento a diversi altri accorgimenti che, nelle ricerche degli ultimi decenni, sono stati rilevati dai competenti in materia, e che costringono a superare una lettura fondamentalista o puramente letterale dei testi biblici. Dentro alle parole umane di questi ultimi, infatti, abita la Parola di Dio, quella che Egli ha detto e continua a dire per la vita del mondo. Ed è quella che bisogna cogliere e ricevere con fede.

    La Parola celebrata

    Ma oltre ad essere letta con assiduità personalmente o in gruppi, ma in maniera privata, da tutti i membri della Chiesa, la Parola di Dio va anche da essi celebrata. In questo contesto è stata soprattutto la Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla liturgia che ha incanalato in maniera nuova il pensiero e la prassi ecclesiale.
    Una sua prima affermazione importante è quella del n. 7, in cui la Costituzione asserisce che Cristo è presente in diversi modi nella celebrazione liturgica. Tra essi, uno è quello della Parola proclamata. Dice infatti testualmente: «Cristo è presente nella sua Parola, poiché quando si legge nella Chiesa la Sacra Scrittura, è Lui che parla». Paolo VI asserì, nella sua Enciclica Mysterium fidei pubblicata pochi mesi prima di chiudere il Concilio (3 settembre 1965), che questa presenza di Cristo nella Parola proclamata è reale, come è reale quella nell’Eucaristia, anche se a titolo diverso (n. 5). Un’affermazione non molto frequente nella Chiesa degli ultimi secoli, oscurata forse dall’insistenza sulla presenza reale di Cristo nel pane e nel vino consacrati. Quando quindi la comunità è radunata per celebrare, la Parola che ascolta è davvero Parola di Dio e di Cristo. La deve accogliere, di conseguenza, come tale.
    La Costituzione sulla liturgia ribadì, inoltre, la necessità di offrire ai fedeli la possibilità di un contatto assiduo con la Parola proclamata in comunità, e a questo scopo stabilì che, in un periodo determinato di anni, si leggessero al popolo le parti più significative della S. Scrittura (n. 51). Da quest’orientamento sono nati i tre cicli annuali che si succedono nelle celebrazioni domenicali, destinati appunto a far ascoltare con maggior ricchezza i testi biblici con cui forse mai prima erano venuti a contatto. Celebrando così la Parola, la comunità ecclesiale ha anche l’occasione di allargarne la conoscenza e di arricchirsi con l’abbondanza del suo nutrimento.
    Ma oltre a dare un rinnovato rilievo alla presenza della Bibbia nelle diverse celebrazioni sacramentali, e in particolare nella prima parte dell’Eucaristia – che si chiama appunto «liturgia della Parola» (n. 56) –, il Concilio volle fomentare le celebrazioni organizzate attorno alla Parola come tale: «Si favoriscano – dice – le celebrazioni sacre della Parola di Dio nelle vigilie delle feste più solenni, in alcune ferie di Avvento e Quaresima, e nelle Domeniche e giorni festivi» (n. 35,4). Sono i momenti più specificatamente dedicati a celebrare la Parola in se stessa, facendola oggetto di ascolto, di meditazione personale e comunitaria, di preghiera.

    La Parola vissuta

    Il ricupero della Bibbia, quale Parola di Dio trasmessa alla Chiesa per iscritto, non si esaurisce nella accresciuta frequentazione personale della medesima, o nella sua celebrazione nella liturgia: esso richiede anche un impegno costante nel farla diventare vita vissuta. Altrimenti potrebbe indurre nel grave errore denunciato dal Vangelo stesso: dire di sì, ma poi non fare (Mt 21,28-29).
    È tutto il tema della testimonianza da dare al Vangelo nella vita concreta, spesso raccomandata in diversi documenti del Concilio, e particolarmente nella Costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa. La si enuncia in essa nel parlare dei vescovi (n. 26), dei presbiteri (LG 28), e dei laici (LG 31.34.35). Di questi ultimi si dice espressamente che «il messaggio di Cristo, proclamato con la testimonianza della vita e della parola, acquista una nota specifica e una peculiare efficacia per il fatto che viene realizzata dentro le comuni condizioni della vita del mondo» (n. 35). Il fatto che questo testo abbia nominato prima la testimonianza della vita che quella della parola è molto significativo. L’accento viene posto, come è chiaro, sul vissuto conforme alla Parola e, per di più, su un vissuto «dentro le comuni condizioni della vita». Ad esso, contrariamente a quanto veniva fatto in altri tempi in cui si privilegiava la testimonianza data nei conventi o nei templi, viene ora attribuita «una peculiare efficacia».
    Il luogo privilegiato della testimonianza si sposta così dall’ambito sacro a quello profano, nella misura in cui queste categorie valgono ancora in contesto cristiano.
    È proprio in questo quadro di riferimento che la Costituzione pastorale Gaudium et Spes richiama fortemente l’attenzione sul bisogno di superare dualismi molto radicati nella mente di più di un cristiano. Essa sostiene infatti che «il divorzio tra la fede e la vita quotidiana di molti deve essere considerato come uno dei più gravi errori del nostro tempo» (n. 43).

    La Parola negli avvenimenti della storia

    Forse, oltre a quelle già rilevate in quest’ambito, la novità più rimarchevole del Concilio Vaticano II è di aver messo in evidenza che la Parola di Dio, oltre che letta e ascoltata con assiduità, celebrata liturgicamente e testimoniata nella vita di ogni giorno, va anche colta negli avvenimenti della storia.
    La Parola di Dio, infatti, «accade», continua ad «accadere». È vero che, come sostiene con ragione la Costituzione Dei Verbum, Dio ha detto tutto ciò che voleva dire di Sé e del destino umano nella persona e nella vicenda di suo Figlio Gesù Cristo (nn. 2-4); ma è anche vero, come afferma la stessa Costituzione, che Egli continua a parlare alla sua Chiesa (n. 8). E uno dei suoi modi di parlare è precisamente attraverso ciò che succede nella storia.
    L’idea è già presente in germe nella stessa Costituzione Dei Verbum. Quando infatti spiega come avvenne in passato la rivelazione di Dio, afferma che ebbe luogo «per mezzo di avvenimenti e di parole»; e precisa: «le parole traggono alla luce il mistero contenuto negli avvenimenti» (n. 2). È il legame tra avvenimenti storici e parole profetiche che, come si coglie in tutta la Bibbia, si intrecciano strettamente tra di loro. Non sono quindi solo le parole a svelare il mistero di Dio, ma anche i fatti della storia. L’esodo degli ebrei dall’Egitto, per esempio, fu la grande rivelazione di Dio e della sua volontà di salvezza nell’Antico Testamento; e Mosè, il Profeta per eccellenza, fu colui che condusse il popolo a prendere coscienza del mistero presente, anche se velatamente per molti, in esso.
    La Costituzione Gaudium et Spes fece un passo avanti di considerevole portata in questa tematica: sostenne che non solo gli avvenimenti del passato e non solo i fatti storici del popolo eletto erano rivelazione di Dio, ma che lo sono anche quelli del presente. È di grande rilevanza quanto afferma al n. 11, parlando della responsabilità che ha il popolo di Dio, cioè la Chiesa come comunità credente, nei confronti di quanto succede nel mondo. Dice che deve «cercare di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio».
    Il presupposto di questa sollecitazione conciliare ad una operazione che si può considerare come un’autentica azione profetica, è che negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni del momento storico presente può essere presente Dio e il suo disegno di salvezza.
    Per la Chiesa è solo questione di discernere, con l’aiuto dello Spirito, i segni che manifestano tale presenza, da quelli che rivelano invece la loro assenza. Detto in altri termini, ciò che succede nel mondo può rivelare la presenza Dio e quella del suo piano salvifico: può quindi essere Parola di Dio che «accade».
    Le conseguenze di questa convinzione per la vita e l’attività dei membri della comunità ecclesiale sono molto impegnative, perché in essa si radica un modo decisamente «mondano» di vivere e di esprimere la fede.


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