L'eredità pastorale del Vaticano II /1
Un Concilio
profondamente innovatore
Luis A. Gallo
Sono passati quarantacinque anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II. Non pochi cristiani sono nati dopo, e forse non riescono a percepire il suo ruolo profondamente innovatore. Nati in un periodo che viene detto «postconciliare», non hanno dei punti di riferimenti che li orientino a coglierne il valore. Vorremmo, con gli articoli che via via pubblicheremo, contribuire a farlo.
Una convocazione inattesa
Il 25 gennaio 1959, nella basilica di S. Paolo fuori le mura, papa Giovanni XXIII annunciò la sua intenzione di convocare un concilio ecumenico. Fu un annuncio sorprendente, che causò stupore in più di uno... anche di quelli che lavoravano vicino a lui. Un concilio ecumenico costituiva un avvenimento di straordinario rilievo nella vita della Chiesa. Ce n’erano stati già una ventina nella sua storia, a cominciare dal primo convocato nel 325 dall’Imperatore Costantino a Nicea, per discutere la questione sollevata dagli ariani sull’identità di Gesù. L’ultimo, celebrato il secolo scorso (1869-70) in Vaticano, su convocazione di Pio IX, aveva definito il primato di governo del papa e la sua infallibilità.
Da allora molti pensavano che non c’era più bisogno di altri concili, dal momento che il vescovo di Roma, dotato appunto d’infallibilità nel parlare «ex cathedra», poteva dirimere personalmente tutte le questioni riguardanti l’interpretazione della fede e della morale cristiana. Ora, invece, Giovanni XXIII annunciava un nuovo concilio. Il suo fiuto di pastore e la sua spiccata sensibilità storica lo portavano a percepire un certo sfasamento della Chiesa e della fede annunciata e vissuta, nei confronti di un mondo in processo di profondo cambiamento, e gli facevano cogliere la necessità urgente di un «aggiornamento». Amava dire che la Chiesa aveva bisogno di guardarsi allo specchio, per individuare le rughe che rendevano il suo volto vecchio e poco attraente, e procedere ad eliminarle. Lo specchio, naturalmente, era Gesù Cristo, il suo fondatore.
Da questo suo cuore di pastore e da questa sua sensibilità storica nacque il Vaticano II. E ne restò profondamente segnato. L’andamento dei lavori, che videro impegnate per diversi anni molte commissioni preparatorie, e poi i quasi 2500 partecipanti del mondo intero, ne sono una chiara dimostrazione.
Ma questo Concilio, portato a conclusione dal suo successore Paolo VI alla morte di Giovanni XXIII, non fu in realtà un meteorite caduto dal cielo; fu invece come la cassa di risonanza di quanto stava avvenendo già da diversi decenni in seno alla Chiesa stessa. Una serie di fattori influirono, infatti, perché fosse convocato e perché prendesse la piega che lo caratterizzò.
Tra essi vanno annoverati, anzitutto, i diversi movimenti sorti nella Chiesa già a partire dalla metà del secolo scorso, che andarono creando nuove sensibilità ecclesiali.
L’influsso dei movimenti ecclesiali
Ci fu, in primo luogo, un movimento di ritorno alle fonti della fede, e specialmente alla Bibbia. Esso si sviluppò tanto a livello di studio quanto a livello di vita vissuta. Le decisioni restrittive prese nel secolo XVI dal Concilio di Trento circa la lettura della Bibbia – decisioni ispirate alle difficili circostanze create dalla Riforma protestante – ebbero come effetto il progressivo allontanamento dalla frequentazione dei testi sacri. Gli studiosi non osavano avvicinarsi al Libro santo con i metodi forniti dalle scienze umane per paura di profanarlo, e la gente semplice non ardiva prenderlo in mano per una sua lettura assidua e proficua nel timore di travisarlo. Tutte e due le remore andarono a poco a poco scomparendo, soprattutto nel nostro secolo, non senza l’appoggio, inizialmente timido ma poi decisamente favorevole, del magistero papale. E la rinnovata frequenza nella lettura della Scrittura portò alla riscoperta di temi ecclesiologici di rilevante importanza, quali quello del Popolo di Dio, del Corpo di Cristo, della Sposa di Cristo, che contribuirono a vedere la Chiesa da prospettive meno sociologiche e istituzionali, per guardarla da prospettive più mistiche e più trasparentemente evangeliche.
Il movimento liturgico, nato inizialmente in ambienti monastici, si propose di rinnovare le celebrazioni ecclesiali restituendo loro quelle caratteristiche che le avevano segnate sin dagli inizi, e particolarmente la loro indole comunitaria. Chiunque conosce sia pur superficialmente la storia della vita ecclesiale sa quanto, per influsso di svariati fattori, le espressioni cultuali erano andate perdendo con il tempo tale indole, e avevano invece acquisito delle connotazioni fortemente individualistiche. Le celebrazioni dei sacramenti, senza escludere la più importante tra di esse, l’Eucaristia, erano finite per diventare retaggio del protagonismo dei chierici, mentre i laici vi prendevano parte da meri spettatori, forse anche devoti, ma senza alcun ruolo attivo in esse. Il movimento liturgico si propose di far rivivere soprattutto il protagonismo dell’intera assemblea liturgica, restituendo ad ogni celebrazione la sua dimensione comunitaria. Non furono poche le difficoltà che esso incontrò agli inizi, ma poi finì per essere ufficialmente accolto dall’autorità ecclesiale, che lo appoggiò anche con dichiarazioni magisteriali di grande peso. In questo modo contribuì grandemente a risvegliare la coscienza comunitaria della Chiesa, notevolmente allentata negli ultimi secoli della sua storia.
Il movimento ecumenico nacque dal desiderio di superare la scandalosa divisione esistente da secoli tra i cristiani. La preghiera di Gesù nell’ultima cena – «Che siano una cosa sola, come noi, Padre» (Gv 17,11) – fece da guida nella ricerca della realizzazione di questo desiderio. Alla sua insegna sorsero sin dalla metà del secolo scorso svariate iniziative miranti a ricostruire l’unità perduta. Si arrivò lentamente e con non poca fatica alla creazione di organismi e istituzioni al servizio di tale causa. I passi compiuti fecero prendere coscienza del bisogno di aprire la Chiesa presieduta dal successore di Pietro al dialogo con le altre confessioni cristiane, tanto d’Oriente quanto d’Occidente. Ed entrando in un contatto più fraterno con esse, la nostra Chiesa andò riscoprendo valori ecclesiali in qualche modo assopiti al suo interno e vivi nelle altre. Già quasi alle soglie del Vaticano II papa Giovanni XXIII coniò un’espressione molto indovinata per identificare i cristiani non appartenenti alla Chiesa cattolica: i nostri «fratelli separati». Chiaro segno di un clima profondamente rinnovato.
Dopo l’ondata missionaria del sec. XVI, a seguito della scoperta del cosiddetto Nuovo Mondo, un’altra forte ondata ebbe luogo a partire dal secolo scorso. Numerosi cristiani e cristiane intrapresero la strada delle missioni «ad gentes», nel desiderio di portare il Vangelo ai popoli, principalmente dell’Asia e dell’Africa, che non l’avevano ancora ricevuto, o l’avevano accolto in modo fino ad allora molto precario. E il contatto con i popoli da evangelizzare ebbe come effetto il venire alla luce, in più di uno dei missionari e di chi rifletteva teologicamente sulla loro attività, di domande molto impegnative circa l’universalità della salvezza, la presenza di Dio e della sua grazia in essi, l’esclusività del possesso della verità e della santità da parte della Chiesa, e altre ancora. Domande che costrinsero a rivedere modi di pensare, di atteggiarsi e di agire seguiti per secoli nell’azione missionaria.
Un ultimo movimento, più recente ma non meno carico di conseguenze ecclesiali, fu quello laicale, inizialmente rappresentato dall’Azione cattolica, ma espresso poi in tanti altri gruppi sorti successivamente. Le cristiane e i cristiani laici, che per secoli erano vissuti in condizioni di inferiorità all’interno della Chiesa, cominciarono a prendere coscienza del loro posto e del loro ruolo in essa: non più «cristiani di seconda categoria», o meri «clienti» dei chierici, ma cristiani a pieno titolo, con identità propria e peculiare. E insieme con essi, anche le altre «categorie» ecclesiali andarono facendo lo stesso.
L’impatto dei movimenti socio-culturali
Ma oltre ai movimenti sorti nella Chiesa, ci furono anche dei movimenti di cultura originati nel seno della società civile che ebbero delle ampie ripercussioni sul suo modo di essere e di pensarsi.
Tra essi va ricordato, anzitutto, il movimento verso la personalizzazione. Nacque come sbocco del grande fiume culturale della modernità, radicalmente centrata, come è risaputo, sul soggetto. Al suo interno i diversi movimenti esistenziali, personalisti e dialogici che l’andarono specificando, posero al centro della loro attenzione la persona come autocoscienza e autodeterminazione, intenta a realizzare se stessa tramite il rapporto di conoscenza e di amore interpersonali con l’altro e con gli altri. Così, la persona e le sue relazioni passarono ad occupare un posto centrale nella sensibilità diffusa degli ultimi decenni. E ciò non poteva non incidere sulla Chiesa, provocando una profonda revisione del suo vissuto, ma anche della sua maniera stessa di pensarsi. Fu di nuovo la sua eccessiva accentuazione istituzionale o societaria a entrare in crisi.
Un secondo movimento culturale che incise fortemente sulla coscienza ecclesiale fu quello della socializzazione. La sensibile crescita dei rapporti sociali e della consapevolezza del loro moltiplicarsi e l’allargamento costante delle relazioni tra i diversi gruppi umani e tra i popoli, fecero maturare quella coscienza universale che permise al mondo di sentirsi, per la prima volta nella storia dell’umanità, una cosa sola. Con tutte le conseguenze positive e negative che ciò comporta. Una Chiesa che è diffusa nel mondo intero non poteva non sentire l’impatto di questo fenomeno. E difatti lo sentì intensamente, come permettono di capire i documenti sociali del magistero pontificio della fine del secolo scorso e del presente secolo.
Il carattere innovatore del Concilio
Il Vaticano II fu, in qualche modo, lo sbocco di tutte le istanze che provenivano dalle diverse sollecitazioni menzionate. Coloro che vi presero parte, a cominciare dai due papi che successivamente lo presiedettero, erano in gran parte molto sensibili ad esse, e impostarono le loro riflessioni e le loro prese di posizione tenendole costantemente presenti. Fu questo atteggiamento eminentemente pastorale a dare al Concilio un taglio accentuatamente innovatore.
Come disse Paolo VI il giorno prima della sua chiusura, in esso si compì una profonda introspezione mirata a cogliere ciò che nella Chiesa non era ormai più vivo, pur essendolo stato nel passato, e a rimuoverlo sostituendolo con nuovi modi di pensare, di vivere, di agire e di celebrare che ringiovanissero il suo volto e lo assimilassero di più a quello del suo Fondatore. Non fu certamente una ricerca della novità per la novità, né un mero assecondare il corso culturale della storia per smania di cambiamento, ma, come asserì lo stesso Papa, un cercare di «conoscere, avvicinarsi, comprendere, penetrare, servire, evangelizzare la società che la attorniava, e di seguirla; per così dire, di raggiungerla quasi nel suo rapido e continuo cambio».
Si può dire che questo Concilio produsse, di conseguenza, una autentica metamorfosi nella coscienza e nella vita della Chiesa. Conservando ciò che è la sua sostanza perenne, datale in dono da Colui che la convocò alla sua sequela, operò una serie di modifiche nel suo modo di realizzarla che la fecero apparire, alla sua conclusione, come profondamente rinnovata. Giovanni XXIII e Paolo VI riconobbero in ciò l’intervento dello Spirito Santo. Tanto da considerarlo «una nuova Pentecoste».