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    Conclusione di: Lo Spirito del Dio di Gesù, festa della vita


    Gianni Colzani, LO SPIRITO DEL DIO DI GESÙ, FESTA DELLA VITA, Elledici 1998



    Ho cercato di presentare lo Spirito non come una dottrina ma come un'esperienza di vita: sia perché la nozione di vita qualifica da sempre la persona dello Spirito sia perché, in questo modo, la fede cristiana esce da forme astratte o autoritarie per tornare a incidere nei diversi ambiti di esperienza delle persone. Non ne è venuto un dibattito su un problema di fede più o meno interessante, ma una provocazione che, come per Paolo, mira a sbalzarci di sella, a buttarci fuori dai nostri comodi schemi per farci afferrare da una realtà più grande. Questa impostazione non è pacifica: è polemica. È polemica perché viviamo in una cultura che ha perso il senso di Dio e della sua vicinanza fino a rinchiudersi nelle sue sicurezze. Se A.N. Whitehead poteva ancora scrivere che il mondo moderno ha perso Dio e lo sta cercando, molti direbbero oggi che questa è un'impresa inutile o disperata: tra noi e Dio sta il dramma di una storia sempre più segnata dalle sue tragedie - da Auschwitz a Sarajevo - e sta l'orgoglio di una scienza sempre più dominatrice della vita. Sapersi collocare come cristiani in un tempo così complesso non è facile; per questo il ricorso allo Spirito può aiutare a presentare la fede come una esperienza di vita e a riprendere coerentemente il dialogo con questo tempo.
    Un ulteriore stimolo a questo viene dall'avvicinarsi dell'anno Duemila e dal percorso che Giovanni Paolo II ha tracciato alle Chiese, invitando a vivere quella data come una occasione singolare per ripensare il rapporto tra Gesù Cristo e l'umanità e per preparare un futuro più luminoso. Nell'anno dedicato allo Spirito - il 1998 - il papa invita a un bilancio aperto alla fiducia e capace di recuperare attraversa un impegno per l'unità e la comunione le eventuali ragioni di divisione e di contrapposizione. È necessario - scrive - che siano valorizzati ed approfonditi i segni di speranza prescenti in questo ultimo scorcio di secolo, nonostante le ombre che spesso li nascondono ai nostri occhi; tra questi segni di speranza cita poi i progressi realizzati dalla scienza, dalla tecnica e dalla medicina, il più vivo senso di responsabilità nei confronti dell'ambiente e gli sforzi per ristabilire la pace e la giustizia ovunque siano state violate. Implicitamente questo discorso contiene un invito a partecipare a questo cammino; è un invito a riprendere a vivere secondo lo Spirito: Spirito di vita e non di morte.
    Da qui la necessità di ridare allo Spirito il suo vero posto. Lo Spirito non è un elemento marginale o secondario della nostra fede, una realtà intercambiabile con altre: è il dono che avvolge la nostra esistenza e che la qualifica in profondità. Infatti non siamo noi a possedere lo Spirito ma è lo Spirito a possedere noi. Sulla nostra vita, e in essa, lo Spirito proclama l'eterna Parola di grazia e di salvezza risuonata in Gesù nella quale è contenuto il volere di Dio per l'uomo e per il mondo; guidandoci alla verità intera (Gv 16,13), e cioè alla pienezza della comunione con Gesù, lo Spirito ci guida alla pienezza della vita: non c'è, infatti, vita nuova o eterna senza accogliere e portare ad un compimento eccedente la vita stessa. Per questo, parlando dello Spirito, è stato necessario parlare della libertà e della sua responsabilità, della socialità e della comunione, della scienza e del cosmo. Lo Spirito realizza il mondo nuovo accogliendolo e guidandolo su sentieri nuovi. Per questo vorrei richiamare alcune dinamiche da guardare con attenzione, se si vuol davvero entrare in un cammino spirituale.

    Una consapevole coscienza dell'interiorità

    Il primo campo che il cammino secondo lo Spirito ci presenta riguarda una più consapevole coscienza dell'interiorità. Per rendersene conto, bisogna richiamare sia la struttura funzionale e parcellizzata delle società complesse sia il carattere minaccioso che questa organizzazione sociale ha per la persona. Ch. Lasch definisce «narcisismo» il tipo di individualità che, in un simile contesto, le persone hanno finito per sviluppare: narcisistica non è, qui, la personalità egoista e innamorata di sé ma la personalità frantumata e vuota: il timore della morte e l'ossessione motoria, contrassegni della coscienza moderna, si concentrano nelle condizioni emotive della paura di condurre in porto qualcosa e nel sentimento del vuoto interiore (M. Welker). L'ultimo baluardo a cui queste persone fanno riferimento per difendersi da quanto li circonda è la loro interiorità che intendono come l'insieme dei loro sentimenti personali. Questa interiorità non è altro che un meccanismo di difesa, che un tentativo di stabilizzazione del proprio intimo anche se attorno alla povertà e al vuoto; questa interiorità sbiadita è incapace anche di grandi crisi, capaci di mettere di fronte ai problemi veri della vita e funziona come un sottrarsi ad ogni serio confronto. Questa interiorità non ha nulla a che vedere con lo Spirito: è residuale e non giunge a quella profondità da cui la vita attinge i suoi valori e le sue motivazioni.
    Il postmoderno, nel suo sforzo di comprendere il mutamento in atto, ha finito per abbandonare l'unità della persona e della vita come un criterio moralistico e per attestarsi attorno all'attenzione alle differenze, colte nelle loro potenzialità e nei loro pericoli; di conseguenza l'interiorità è disegnata attorno ad una adattabilità continua ai mutamenti emergenti e alle loro forme. Nonostante il tentativo di valorizzare questo cammino, a me pare che non vi sia qui molto da spartire con una autentica vita secondo lo Spirito: l'indubbio guadagno di attenzione alle più svariate esperienze è pagato ad un prezzo troppo alto, al prezzo di una rinuncia ad un impegno totale della propria vita. Lo sbocco ultimo di questo cammino non può che essere l'incertezza o la rassegnazione.
    L'interiorità secondo lo Spirito, invece, mira a costruire la persona come testimone di qualcosa che la provoca e che la supera; nell'attenzione ai molti modi con cui lo Spirito assume il dato personale e culturale, permane viva la capacità (li impegnare la persona per Dio e per i fratelli, rimane viva l'esigenza di ricomporre il parziale in una più alta sintesi di civiltà. Questa interiorità, perciò, è lungi dal ripiegarsi su di sé; è l'origine della responsabilità verso sé e verso il mondo. Questa interiorità è quella che qui ho cercato di indicare.

    Una vigile attenzione alla comunione

    Una delle dimensioni fondamentali dello Spirito è la comunione: la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi (2 Cor 13,13 ), invocava Paolo. Qui la comunione lega lo Spirito alla mediazione umana e diventa l'origine di quella armonia e di quella pace che è evocata dall'idea di un cuor solo e di un'anima sola. La comunione è una relazione senza violenze dove ci si accoglie positivamente e ci si sostiene in un contesto di fiducia e di vita; la comunione apre gli uni agli altri. In senso proprio la comunione nello Spirito è comunione di persone ed è comunione attorno alla vita. Inoltre, proprio perché tale, proprio perché comunione di persone attorno alla vita, la comunione nello Spirito è aperta a tutti gli uomini, tutti quanti creature di Dio. Da qui la risoluzione della comunione in una socialità che dissolve l'individualismo e proclama l'importanza dei legami tra le persone.
    Questa affermazione, importante, va compresa bene per non essere presentata in modo astratto e falsata in realtà. La comunione secondo lo Spirito, infatti, per un verso coltiva l'armonia e l'unità tra tutti gli uomini ma per un altro verso mantiene e promuove le loro differenze, almeno quelle che non contrastano con il diritto e con la misericordia di Dio. In questo senso la comunione non è rotta dalla individualizzazione ed il pluralismo è realtà positiva da non confondere con la disgregazione; in questo senso non vi è comunione se non nella assunzione di individualità precise, sia pure all'interno di un progetto che le supera. Le scritture menzionano espressamente, tra queste individualità, uomini e donne, giovani e anziani, poveri e ricchi, nazioni e culture diverse; di conseguenza bisognerà chiedersi quanto la nostra comunione ha salvaguardato e promosso l'individualità femminile e giovanile e quanto l'ha invece controllata e mortificata. La comunione secondo lo Spirito esige concretezza: certo, come osserva Paolo, tutti - giudei o greci, schiavi o liberi - ci siamo abbeverati ad un solo Spirito ma bisognerà sempre ricordare che il corpo non risulta di un membro solo ma di molte membra (1 Cor 12,13-14). Ne viene una concretezza che non si esaurisce in grandi affermazioni di principio ma si preoccupa di realizzare degli spazi realmente praticabili per la comunione. La vita secondo lo Spirito lo esige ma la pastorale ne è ancora lontana.

    La dimensione cosmica dell'agire dello Spirito

    Una ultima attenzione da aver presente nel cammino secondo lo Spirito riguarda il carattere cosmico del suo agire. Il valore di questa riscoperta sta nel superare quella teologia che, legando lo Spirito alla grazia e alla Chiesa, lo aveva tenuto ben distinto dalla realtà materiale; lo Spirito, se mai, ci fa volgere verso l'altro mondo. Il tentativo di leggere il rapporto tra I)io e l'uomo alla luce della comunicazione tra un «io» e un «tu» finisce solo per spostare l'attenzione da una interpretazione della rivelazione alla luce del platonismo ad una interpretazione diversa, che si avvale del personalismo dialogico. Entrambe, però, rimangono chiuse ad ogni valorizzazione del cosmo che, però, è esigici tanto dalla creazione del mondo ad opera dello Spirito (Gn 1,2; Sal 104,30) quanto dalla verità della resurrezione della carne. La profonda compre- senza dello Spirito al creato è ben nota alle scritture quando, ad esempio, osservano che lo Spirito del Signore riempie l'universo e, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce (Sap 1,7).
    Questa concezione merita attenzione ma, anche, sensibilità critica. Non si può, a parer mio, accettare l'opinione semplificatrice di J. Moltmann che identifica questa visione con la fede di Israele e ne fa un cardine della sua interpretazione dello Spirito. Bisogna almeno chiedersi quale rapporto si possa dare tra lo Spirito di vita, il cui ruolo cosmico è indubitabile, e quella creazione che ha la caducità e la corruzione come sua peculiare caratteristica. Il cosmo, ripeterà Qoelet in tutte le salse, è hebel, è vanità. Se non si vuole indulgere ad un naturalismo sacrificante l'originalità dello Spirito e consacrante l'immutabilità della creazione, la relazione tra lo Spirito di vita e il mondo vano e caduco non può essere presa sul serio se non nel quadro di un rinnovamento e di un cambiamento del mondo; sarà del pari importante ricordare che questo rinnovamento non avviene cancellando la vita materiale ma aprendola allo Spirito.
    La vitalità della nuova creazione non e una restitutio in integrum, una restaurazione della stia dimensione naturale, ma è una trasformazione del mondo che non può essere messa in carico alle sole forze naturali. La nuova creazione non rimanda a un altro mondo, ad un mondo soprannaturale, ma è, invece, l'assunzione di questa realtà al servizio di Dio; anche la vita materiale del corpo e del mondo entra in questa dinamica. La negatività del mondo, infatti, non viene dalla carne ma dal peccato; per questo l'opera dello Spirito non porta a fuggire il mondo ma a rinnovare la vita. In questo senso anche il mondo materiale permette di stare alla presenza di Dio e di farne viva esperienza: per quanto non rara, questa affermazione ha bisogno di una profonda rivoluzione di pensieri e di costume per essere presa del tutto sul serio.


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