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    Il paradiso (cap. 7 di: Il futuro dell'uomo nel futuro di Dio)


    Carmine Di Sante, IL FUTURO DELL'UOMO NEL FUTURO DI DIO. Ripensare l'escatologia, Elledici 1994



    Il paradiso

    Il termine «paradiso» è di origine persiana e vuol dire giardino o parco. Secondo la narrazione di Genesi 2, il mondo che Dio crea è uno splendido giardino (che dall'ebraico i LXX traducono con paradiso) dove fiorisce «ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare», scorrono quattro fiumi dalle acque profonde, abbondano pietre preziose quali l'oro e l'onice e si diffondono profumi come quello di resina.
    Ma l'immagine del «giardino» quale simbolo della felicità più che alla Bibbia appartiene all'immaginario universale e la si ritrova un po' dovunque, presso tutte le religioni. A. Bernheim e G. Stavrides, autori di un recente saggio sul paradiso e sulle sue delizie,[1] mostrano con grande erudizione che «l'umanità ha sempre associato la felicità all'immagine del giardino, un giardino di delizie, ricco di frutti, in cui scorrono latte e miele, fiumi di vino e di olio. Nell'Induismo, che pure offre una grande varietà di formule, ritroviamo come motivo costante la descrizione di un territorio incantato, con foreste di loto, alberi di pietre preziose e di frutti straordinari, uccelli che cinguettano deliziose melodie, palazzi di cristallo, musiche e profumi sublimi. Non molto dissimile è il paradiso descritto dal Corano: un luogo di magnifiche dimore e di giardini ameni, con splendide fontane, ruscelli d'acqua dolce e fiumi di latte, di vino e di miele. I frutti vi abbondano, per il piacere degli eletti. Fra tutti, il paradiso dell'Islam è il più sensuale, è il trionfo dei desideri e dei sensi, sessualità compresa».[2]
    C'è comunque una differenza tra il «giardino/paradiso» del racconto della Genesi e quello del linguaggio comune e della tradizione cristiana: nel primo il «paradiso» è la metafora della felicità delle origini, nel secondo della felicità futura alla quale Dio destina coloro che, dopo la morte e il giudizio, vengono riconosciuti giusti. Questa seconda accezione è riscontrabile già nel Nuovo Testamento che per tre volte ricorre a questo termine.
    La prima volta ricorre sulla bocca di Gesù stesso quando si rivolge a uno dei ladroni crocifissi con lui per annunciargli: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). Questo testo è particolarmente importante perché vi troviamo una delle definizioni teologiche più belle ed essenziali del paradiso: l'essere per sempre in compagnia con il Cristo, l'amore e il perdono incarnati.
    Per la seconda volta si ritrova in Paolo il quale, per esprimere la sua esperienza mistica, dice che «fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare» (2 Cor 12,4).
    Infine, la terza volta in Giovanni, il quale fa dire al Cristo che «al vincitore dà da mangiare dell'albero della vita che sta nel paradiso di Dio» (Ap 2,7).

    Le immagini bibliche

    Comunque l'immagine che, nel Nuovo Testamento, viene utilizzata con più frequenza non è il giardino/paradiso.
    La più comune è quella del cielo, inteso non come luogo geografico, bensì come sinonimo stesso di Dio, per cui «andare in cielo» vuol dire semplicemente «andare a Dio». Per gli scrittori sinottici la vicenda terrena di Gesù si conclude con la sua ascensione al cielo: «Poi li [i discepoli] condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (Lc 24,50-53). Il motivo per cui i discepoli sono nella gioia è perché Gesù, il maestro, «è stato portato in cielo», è entrato nella casa del Padre, dove introdurrà anche i suoi: «Nella casa del Padre mio ci sono molte abitazioni... Vado per prepararvi un posto» (Gv 14,2). Da quando Cristo vi è entrato, il cielo non è più solo il «luogo» di Dio o Dio stesso ma, contemporaneamente, la casa o abitazione eterna dell'uomo.
    Una seconda immagine è quella del banchetto nuziale, alla quale Gesù stesso ricorre nelle sue parabole (Mt 22,1-14; 25,1-12). Anche se nei vangeli questa metafora si riferisce soprattutto al regno di Dio ridischiuso nella storia dalle «parole» e dalle «opere» di Gesù, nella tradizione cristiana essa viene trasferita anche al momento del dopo morte quando l'umanità, riconciliata con Dio dal perdono di Cristo, siederà intorno al banchetto preparato, fin dalle origini, dall'amore del Padre. Questo «slittamento» della metafora dal piano storico a quello metastorico avviene già con il Nuovo Testamento, come, per es., con l'Apocalisse di Giovanni:

    Alleluia.

    Ha preso possesso del suo regno il Signore,
    il nostro Dio, l'Onnipotente.
    Rallegriamoci ed esultiamo,
    rendiamo a lui gloria,
    perché son giunte le nozze dell'agnello;
    la sua sposa è pronta,
    le hanno dato una veste
    di lino puro splendente (Ap 19,6-8a).

    Il paradiso viene qui pensato come un banchetto nuziale tra lo Sposo «Agnello» (metafora del Cristo che «maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca, era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca»: Is 53,7) e la sposa redenta, metafora dell'umanità giusta che, nel giorno del giudizio, viene trovata con la «veste di lino», simbolo delle «opere giuste» (Ap 19,8b): «Allora l'angelo mi disse: "Scrivi: Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell'Agnello!"» (Ap 19,9).

    La nuova Gerusalemme

    Una terza immagine è quella della nuova Gerusalemme che i profeti, nell'esilio babilonese, avevano sognato come la città ideale, punto di incontro di tutti i popoli della terra, luogo di solidarietà e di giustizia per i poveri e gli indifesi, dalle porte aperte sia di giorno e sia di notte, e dalle strade libere finalmente da ogni violenza e abitate dalla pace (cf Is 54,11-14; 60; 61,4, 62,6-9).
    Quando, con l'invasione romana del 70 d. C., la Gerusalemme storica cessò di esistere, i cristiani non rinunciarono a pensarla come la città ideale, ma con un'ardita operazione ermeneutica la metastoricizzano, trasferendola dal piano storico a quello extrastorico e facendone l'immagine della città eterna dove si entra dopo morte.
    Artefice di questa ardita rilettura della Gerusalemme profetica in Gerusalemme celeste è sempre l'Apocalisse, nella quale il veggente la descrive con meticolosa precisione: «di oro puro, simile a terso cristallo» le cui mura «sono costruite con diaspro»; le cui dodici fondamenta sono «adorne di ogni specie di pietre preziose», il primo fondamento di «diaspro, il secondo di zaffiro, il terzo di calcedonio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisolito, l'ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l'undecimo di giacinto, il dodicesimo di ametista»; le cui «dodici porte sono dodici perle», «ciascuna porta formata da una sola perla»; la cui piazza «è di oro puro, come cristallo trasparente»; dove non c'è più bisogno del tempio «perché il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio» e neppure «della luce del sole» e «della luna» «perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello»; dove scorre «un fiume di acqua viva limpida come cristallo» che scaturisce «dal trono di Dio e dell'Agnello; e dove, infine, al centro della piazza, come pure da una parte e dall'altra del fiume, «si trova un albero di vita» che dà «dodici raccolti e produce frutti ogni mese» e le cui foglie «servono a guarire le nazioni» (Ap 21,9-22,2).
    Un'altra immagine, che nella tradizione cristiana ha avuto particolare fortuna, è quella della visione secondo la quale il paradiso consiste nella beatitudine derivante dall'eterna contemplazione di Dio: «Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2): «Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l'ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto» (1 Cor 13,11-12).
    Riletti entro la categoria greca dell'eros o desiderio d'infinito, simili testi hanno dato origine alla visione di Dio come fine dell'uomo, rispetto al quale ogni altra realtà è prefigurazione, tappa o ombra. Saranno soprattutto Agostino e Tommaso a dare corpo a questa teoria della visione come fine ultimo e felicità suprema dell'esistenza umana, il primo con la definizione dell'uomo come «cuore inquieto finché non riposa in Dio», il secondo con quella dell'uomo come «desiderio naturale di vedere Dio», di cui il paradiso è l'esito riuscito.

    Al di là delle immagini

    Le metafore del giardino, del cielo, del banchetto nuziale, della città perfetta, della visione. ecc., sono contenute e misurate se messe a confronto con quelle che si trovano in altri testi come, ad esempio, quelli islamici, dove il paradiso è descritto spesso come un luogo incantato dove abitano giovani di inimmaginabile potenza virile, dove ci sono splendide ragazze in grado, ogni volta, di ricuperare la verginità perduta e dove il piacere ottenuto è indescrivibile perché, paragonato a quello ottenuto sulla terra, dura all'incirca un secolo.
    Ma se tutte le metafore sul paradiso sono ambigue perché, come denunciano «i maestri del sospetto», fioriscono sullo spazio del desiderio, ce n'è una, per la Bibbia, capace di resistere a ogni critica: quella che Giovanni, riprendendola da Isaia, presenta nell'Apocalisse quando il veggente «vede un nuovo cielo e una nuova terra» dove Dio abita con gli uomini «e terge ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 21,4).
    Occhi dove ogni lacrima è asciugata: questo è il paradiso per Giovanni. Da notare l'espressione: non occhi «senza lacrime», ma occhi dalle «lacrime asciugate». La differenza tra le due forme espressive non è indifferente, come scrive A. Rizzi: «Un occhio può essere asciutto per cinica indifferenza al patire altrui o per stoica sopportazione del proprio, o perché ha ormai versato tutte le lacrime. Ma una lacrima asciutta è altra cosa da un occhio asciutto... le lacrime sono "l'eone presente", cioè tutta la storia umana solcata dal patire come lo è un volto dal pianto; dire che esse sono asciugate significa che si è entrati in un nuovo tempo, nel futuro di Dio, dove il patire sarà cancellato».[3]
    La metafora del paradiso come il «luogo» dove «le lacrime di tutti sono asciugate» resiste alle critiche dei maestri del sospetto perché non fiorisce sul desiderio d'infinito, la cui logica è il potenziamento del positivo, e neppure sul futuro, il cui rischio è l'evasione dal presente, ma sull'esperienza quotidiana, elementare, universale e irrefutabile della lotta contro il male al quale ci si ribella con coraggio. È qui la differenza sostanziale tra un discorso metaforico il cui spessore resta ludico o illusorio e uno che attinge al livello veritativo.
    Adorno, in una celebre pagina, interrogandosi sulle condizioni di un pensare filosofico capace di trascendere la curiosità e l'estetica, ne ha individuato il senso nella sua vocazione a diagnosticare il mondo dissestato contribuendo a redimerlo: «La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione del mondo... Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica».[4]
    Se, come scrive Adorno, un sapere che si voglia veramente umano deve «giustificarsi al cospetto della disperazione», offrendo ragioni di lotta e di speranza ai disperati, questo vale soprattutto per il sapere escatologico sul paradiso il quale, lungi dal distrarre dal presente e dalla storia, se ne fa principio di illuminazione e di contestazione. La metafora del paradiso come luogo dove «ogni lacrima sarà asciugata» non è l'oppio che addormenta i poveri, perché non nasce «tra gli scaffali di una biblioteca ma dall'esperienza del patire»[5] che, con la loro prassi, i poveri si rifiutano di considerare l'ultima parola del reale. Se non ci fosse il paradiso «dove ogni lacrima sarà asciugata» neppure si potrebbe e si dovrebbe più parlare - di quel parlare veritativo, che pretende di attingere il vero oltre il fattuale e oltre il descrittivo - del Vero e del Falso, del Degno e dell'Indegno, del Giusto e dell'Ingiusto, del Bene e del Male e la storia sarebbe ridotta solo a una cinica passerella di finzioni dove il torturatore e il torturato, Adolf Eichmann e Anna Frank sarebbero la stessa cosa.
    Il paradiso pensato con il paradigma biblico della «terra senza lacrime» non è l'operazione innocente o pia di chi cerca conforto nell'aldilà, ma l'istanza del bene che giudica il cuore di tutti gli uomini e la storia di tutti i tempi, fissandone e rifissandone ogni giorno i confini etici invalicabili, come si narra nella parabola del ricco epulone: «Tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi» (Lc 16,26).

    La vita «eterna»

    Il modo, però, classico e lapidario con cui la tradizione cristiana parla del paradiso è quello che il simbolo di fede apostolico così sintetizza: «Credo la vita eterna». Si tratta di una categoria sviluppata soprattutto da Giovanni, il quale, nel quarto vangelo, presenta Gesù come vita e come pane della vita: «Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno...» (Gv 6, 48-51).
    Cos'è la vita eterna?
    «Molti pensano all'eternità come a un'esistenza estesa nel tempo indefinitivamente - in cielo o nell'inferno - che inizia là dove termina la vita terrena, temporalmente limitata. Questo modo di vedere le cose è problematico per molte ragioni. L'idea di dover vivere per sempre da tempo ormai non è più una prospettiva rallegrante, anzi può diventare anche urtante, specialmente per coloro che sentono questa vita come un peso. Per alcuni tale concezione suscita anche l'impressione di qualcosa di noioso: una prosecuzione indefinita della vita non significa forse la cessazione di ogni tensione? Soprattutto, questa concezione non va d'accordo con ciò che la Scrit tura e la tradizione intendono dire quando parlano di "vita" e di "eternità"».[6]
    Nella Bibbia, invece, eterno è sinonimo di Dio. Ed essendo il Dio biblico, il Dio dell'amore, ciò che è eterno viene a identificarsi con la sua realtà d'Amore. Vita eterna, pertanto, prima che vita senza fine, estesa indefinitivamente, vuol dire vita piena d'amore e intessuta di felicità. Questi due tratti - della compiutezza e della compiutezza senza fine - sono riassunti con efficacia dalla celebre definizione di Boezio (480-524) sulla eternità come «il possesso totale e completo di una vita illimitata».[7]
    Di questi due tratti che definiscono la vita eterna intesa biblicamente il più importante è il primo ed è dentro di esso che, dopo la morte e la risurrezione di Gesù, il Nuovo Testamento matura la coscienza del secondo. Per esso, infatti, la vita eterna non è più solo la vita compiuta, frutto dell'obbedienza al Dio dell'amore (è questa l'accezione dell'espressione nell'Antico Testamento), ma è anche la vita senza fine, che per sempre ha vinto la morte. Per la Bibbia, paradossalmente, vita eterna è sia la vita terrestre, vissuta in obbedienza al Dio dell'amore, come vuole la quasi totalità dell'Antico Testamento, sia la vita celeste, come vuole il Nuovo Testamento.
    Ciò vuol dire che, per la Bibbia, il «terrestre» e il «celeste» non si oppongono dualisticamente, come ombra/realtà, e neppure scalarmente, come gradino l'uno per l'altro, ma sono due diverse modalità della stessa eternità, due oggettivazioni dello stesso Amore che ogni volta dona gratuitamente e il cui dono - il dono dell'Amore - non delude mai.

    Risorti con Cristo

    Passando dal livello delle immagini a quello della riflessione tematica, la tradizione cristiana ricorre ancora a tre categorie per raffigurare la realtà del paradiso.
    La prima è quella della risurrezione della carne, come si proclama nel simbolo della fede: «Credo la risurrezione della carne».
    Quanto più la tradizione platonico-ellenistica parla dell'aldilà con l'immortalità dell'anima, tanto più il Nuovo Testamento ne parla come risurrezione della carne. Per esso infatti il paradiso non è il luogo delle «anime» ma dei «corpi» risuscitati che condividono la sorte del «corpo» del Risorto.
    La formula più lapidaria del paradiso come luogo dei «corpi risorti con il Risorto» la troviamo nella lettera agli Efesini, in un brano dove l'apostolo spiega ai suoi destinatari la novità inaudita della disalienazione ridischiusa nella storia dall'evento della croce: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù» (Ef 2,4-7).
    Il paradiso è il «luogo» dei corpi con-risorti nel Risorto, che da corruttibili sono diventati «incorruttibili», da mortali «immortali» e da carnali «spirituali» (cf 1 Cor 15,42ss).
    Ma anche il linguaggio della «risurrezione della carne» è un linguaggio figurato che richiede di essere interpretato. Con essa non si intende, ovviamente, che Dio, alla fine della storia, riprenderà i resti umani per ricomporli e rivivificarli. Dov'è allora la differenza tra l'affermazione greca dell'immortalità dell'anima e quella biblica della risurrezione della carne? Se la tradizione cristiana le ha opposte e le oppone con vigore, dove risiede la loro reale differenza?
    Queste vanno ricercate almeno a due livelli.
    Primo: solo la categoria della «risurrezione della carne» rende possibile pensare il paradiso nell'orizzonte della gratuità. Se l'anima è immortale, come vuole la grecità, ne consegue che l'aldilà, la vita eterna, il paradiso, ecc., si iscrivono nella natura umana e, in un modo o nell'altro, appartengono all'ordine della necessità. Mentre se l'uomo è «carne», come vuole la Bibbia, realtà per natura fragile e mortale, la vita eterna che segue alla morte è nuovo evento, nuovo dono e grazia dell'amore di Dio, come sempre «imprevedibile» e «sorprendente». Per il Nuovo Testamento la categoria della risurrezione della carne è un altro dei modi per cantare l'amore di Dio come grazia: come gratuità radicale.
    Secondo: solo la categoria della risurrezione della carne rende possibile parlare del paradiso come compimento non solo dello spirituale (intendendo qui il termine secondo la grecità) ma di tutto l'umano, nella sua accezione antropologica più estesa. Con essa la Bibbia dice che, nel paradiso, l'uomo entra portando con sé non la sua «anima» eterna, immobile e impassibile, ma l'intera sua storia di sogni e di amori, di lotte e di speranze, di lacrime e di sorrisi. Il poeta russo E. Evtušenko ha scritto:
    «Ognuno ha il suo proprio mondo, segreto, personale.
    In questo mondo v'è il momento migliore,
    in questo mondo v'è l'ora più tremenda; ma tutto questo ci è nascosto.
    E quando un uomo muore,
    con lui muore la sua prima neve
    e il suo primo bacio e la sua prima battaglia...
    tutto questo egli porta via con sé».[8]
    La risurrezione della carne dice che, in paradiso, ognuno ci entrerà e rimarrà con «la sua prima neve» e «il suo primo bacio».

    La comunione con Dio

    Di fronte alla scandalosa prosperità dei malvagi e alla sofferenza dei giusti, un sapiente di Israele, in un bellissimo testo, il salmo 73, oppone all'effimera felicità del primo la pace profonda del secondo, frutto della sua comunione con Dio.

    Chi altri avrò per me in cielo?
    Fuori di te nulla bramo sulla terra.
    Vengono meno la mia carne e il mio cuore;
    ma la roccia del mio cuore è Dio,
    è Dio la mia sorte per sempre.
    Ecco, perirà chi da te si allontana,
    tu distruggi chiunque ti è infedele.
    Il mio bene è stare vicino a Dio... (Sal 73,25-28).

    Il paradiso è il «luogo» della comunione profonda e indicibile dove, come canta il salmista, Dio stesso, per il beato, è la propria «sorte» e il proprio «bene».
    Ma come pensare il senso di questa «sorte» e di questo «bene»?
    La modalità prevalsa nella tradizione cristiana è quella platonica dell'amore pensato come «possesso» o «ricongiungimento» a Dio, Bene supremo e Bellezza assoluta di cui ogni altro bene e ogni altra bellezza sono «ombre», «rimandi», «allusioni», come si legge in questo testo mirabile di Lucie Christine, di intenso sapore agostiniano:

    Ho domandato di te a tutte le creature
    e tutte hanno risposto: Egli è qui.
    Ho domandato di te al mare.
    Tu riposi nei suoi abissi
    e nel suo seno fai moltiplicare la vita.
    Ho domandato di te a una spiaggia dirupata
    e la sua superba altezza mi ha gridato: Egli è qui!
    Ti ho incontrato
    nelle impenetrabili ombre dei boschi;
    ti ho visto comparire nel lampo;
    ti ho percepito nella voce lontana del vento,
    nel mugghio del tuono
    e nella furia scatenata dell'uragano
    e il mio cuore non ha tremato, perché eri Tu.
    Ti ho salutato nella penombra del mattino
    e nel crepuscolo della sera.
    Ti ho scoperto nella frescura della valle,
    ti ho udito nel dolce mormorio della fonte solitaria.
    Ho raccolto i cinguettii
    che mille piccoli cantori inviano a te.
    Il mio occhio estasiato ti ha scoperto,
    mentre guidi la rapida caccia dell'insetto
    e stupito il mio sguardo
    ha riposato sui misteri
    coi quali la tua sapienza
    riempie la vita di un fiore...
    Questa fu la prima mutazione
    che Dio operò nella mia anima,
    ma non era ancora abbastanza.
    Presto sentii qualche cosa di strano...
    Tutto ciò che avevo ammirato fino allora
    mi appariva ancora altrettanto bello,
    e pure io non potevo più rallegrarmene alla stessa maniera.
    Come le stelle nella luce del sole,
    così tutto spariva nella mia anima alla vista di Dio.[9]

    Anche se potentemente suggestivo, non è questo il modo con cui la Bibbia intende la comunione con Dio, la quale non consiste nel possesso del suo Amore come oggetto, ma nell'accoglienza del suo Amore inteso come Bontà e come Benevolenza. Al centro della Gerusalemme celeste descritta da Giovanni non c'è più né sole né luna, perché splende la luce di un nuovo sole e di una nuova luna che è quella dell'Agnello «dal quale scorre un fiume di acqua viva come cristallo» (Ap 22,1). L'agnello, nella Bibbia, è la metafora ardita dell'amore disvelato e donato dal Crocifisso, che «toglie i peccati del mondo» portandone lui stesso il peso: «Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità... Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca» (Is 53,5-6).
    Come ama dire un amico teologo, il paradiso è l'eterna contemplazione del Crocifisso: eterna riconoscenza, sorpresa e meraviglia per un Dio che, scandalo e follia per ogni antropologia, «ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito» (Gv 3,16) per salvarlo.

    Il trionfo dell'amore

    L'ultima categoria con la quale la tradizione descrive il paradiso è la «comunione dei santi»: il «luogo» dove gli uomini e le donne di tutti i tempi vivono nella reciprocità dell'amore, senza più il timore di perderlo.
    Il paradiso è il trionfo dell'amore: dell'amore che ha rischiarato i giorni e le notti della storia, dell'amore la cui assenza ha trasformato la vita in inferno, dell'amore che per la prima volta ci è venuto incontro nel sorriso del papà e della mamma, dell'amore che ci ha dischiuso la potenza del suo fascino nel primo bacio e nella prima carezza, dell'amore che anche rifiutato è rimasto fedele, dell'amore che ha dato senza pretendere, in una parola: dell'amore che ha abitato i nostri pianti e i nostri sogni e che da sempre hanno cantato la letteratura e la poesia di tutti i tempi:

    Questo amore
    Così violento
    Così fragile
    Così tenero
    Così disperato
    Questo amore
    Bello come il giorno
    E cattivo come il tempo
    Quando il tempo è cattivo
    Questo amore così vero
    Questo amore così bello
    Così felice
    Così gaio
    Questa cosa sempre nuova
    E che non è mai cambiata
    Vera come una pianta
    Tremante come un uccello
    calda e viva come l'estate...[10]

    Se l'amore che i poeti cantano e che i loro testi tramandano è sempre, come vuole Prévert, «così violento» e «così fragile», «così tenero» e «così disperato», cioè sempre ambivalente, l'amore del paradiso sarà questo amore sottratto all'ambivalenza e all'apparenza, perché ormai radicato sulla radice dell'agape. I nostri amori sono sempre insufficienti e frammentari, minacciati dall'insicurezza e dall'insuf ficienza, e basta un nonnulla per trasformarli in irraggiungibile inimicizia o lontananza. Il paradiso è l'amore che ha vinto la paura e la minaccia, dove l'«amante» è presente totalmente all'«amato» e dove ognuno è, per l'altro, «amante» e «amato», in un tripudio di gioia indicibile; è l'amore escatologico dove la presenza dell'«amante» all'«amato» è libertà di obbedienza all'Amore ed è libertà transustanziata in bontà che, annullando ogni distanza nel gesto della gratuità, instaura così la comunione radicale sottratta alla minaccia.
    Spiegando alla comunità di Corinto il mistero della risurrezione della carne, Paolo afferma che, allora, Dio «sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,28). Se «Dio è amore», secondo la lapidaria definizione di Giovanni, il paradiso è questo Amore che sarà tutto in tutti: non nella modalità della spontaneità bensì della libertà che accoglie il suo amore e lo ridona nella responsabilità. Il paradiso è l'amore di Dio tenero e indicibile accolto e ridonato nella reciprocità delle responsabilità: che, per questo, diventa per tutti gioia senza fine.
    «Quelle cose che occhio non vide né orecchio udì né mai entrarono in cuore d'uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1 Cor 2,9): questo mondo che trascende ogni possibile immaginazione è il mondo dell'amore donato e ridonato. Il mondo dove l'eros e l'agape, la felicità e la bontà saranno finalmente riconciliati per sempre.


    NOTE

    [1] Paradis, paradis, Plon, Parigi 1991.
    [2] Intervista rilasciata dagli autori alla rivista «Jesus» 11/1992.
    [3] A. Rizzi, Paradiso cristiano e messianismi laici, in «Credere oggi» 55/1990, p. 5.
    [4] T. W. ADORNO, Minima moralia, Torino 1974, p. 235.
    [5] A. Rizzi, Paradiso cristiano..., cit., p. 55.
    [6] F.-J. NOCKE, L'escatologia, Queriniana, Brescia 1988, p. 151.
    [7] La celebre definizione (tratta dalla De consolatione philosophiae, V. 6; PL 63, 858), nell'originale suona: «Aeternitas est interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio».
    [8] Citato da G. GRESHAKE, Breve trattato sui novissimi, Queriniana, Brescia 1978, p. 60.
    [9] Citato in M. SCHMAUS, Le ultime realtà, Paoline, Alba 1960, pp. 490-491.
    [10] J. PRÉVERT, Poesie.


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