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    L'inferno (cap. 6 di: Il futuro dell'uomo nel futuro di Dio)


    Carmine Di Sante, IL FUTURO DELL'UOMO NEL FUTURO DI DIO. Ripensare l'escatologia, Elledici 1994



    Il «mito» dell'inferno

    Chi non ricorda l'inizio del canto III dell'Inferno dantesco?

    Per me si va ne la città dolente,
    per me si va ne l'eterno dolore
    per me si va tra la perduta gente.

    Giustizia mosse il mio alto Fattore:
    fecemi la divina Potestate,
    la somma Sapienza e il primo Amore.

    È convinzione comune a non poche tradizioni religiose l'idea che, al termine dell'esistenza umana, chi, dopo il giudizio divino, viene condannato, è destinato a un luogo chiamato «inferno» o «inferi». Si tratta di nomi che, etimologicamente, vogliono dire «il luogo che sta sotto» o «in basso»: il luogo per antonomasia delle tenebre e della sofferenza, in opposizione all'«alto» considerato il luogo della luce.
    Fino al Vaticano II si parlava molto dell'inferno, soprattutto nell'ambito della predicazione e della catechesi, e molti oratori e scrittori sacri ne mettevano in luce le sofferenze terribili attraverso la descrizione di tormenti inauditi quali il freddo, la fame, il soffocamento, i cattivi odori, gli inchiodamenti, ecc. Fra tutte le sofferenze, la più terribile era quella del fuoco che, secondo un celebre predicatore del secolo XVIII, Dio stesso alimentava con il suo alito: «Tu sai che quel fuoco in cui si soffia arde con più foga. Quando si riattizza il fuoco con grandi mantici, come fanno spesso i fabbri, esso si eccita, come fosse pazzo. Poiché il Dio onnipotente soffia personalmente col suo soffio sul fuoco infernale, quanto terribilmente esso dovrà infierire e imperversare. Il soffio di Dio infatti è più forte di ogni uragano».[1]
    Il linguaggio dell'inferno e le immagini terribili che l'accompagnano sono condizionate dalla propria epoca e molte di esse appaiono inaccettabili. È questo il motivo per cui, dopo il Vaticano II, il discorso sull'inferno si è fatto marginale ed è finito, a volte, quasi per scomparire.
    Ma, e se al di là delle immagini ci si ponesse in ascolto del suo messaggio e si scoprisse che esso è un altro dei modi per parlare dell'amore di Dio e della indeclinabile responsabilità dell'uomo?
    È lo sforzo che sarà fatto in questo capitolo dedicato a uno degli aspetti più ardui e paradossali del messaggio biblico.
    Non senza ragione si è iniziato questo capitolo parlando di mito, intendendo il termine non come negazione della verità, ma come suo svelamento, secondo il grande principiuo ermeneutico per il quale «il mito svela», cioè disocculta.

    L'inferno nella Bibbia

    Le Scritture ebraiche, fino all'epoca dei Maccabei, non conoscono 'idea di un aldilà dove, dopo morte, i cattivi vanno per essere puniti eternamente. In esse si parla, a volte, dello sheol (cf Sal 88,4), ma si tratta di un luogo immaginario concepito come l'edificio sotterraneo dove i morti, sia buoni che cattivi, discendono per condurvi un'esistenza umbratile, apparente, evanescente. Il termine sheol probabilmente indica «il non paese, il luogo in cui non c'è nulla di efficace, attivo o dinamico e che, perciò, in senso ebraico, non è».[2]
    In alcuni testi profetici questo luogo viene identificato con la valle della Geenna, a sud di Gerusalemme, la valle maledetta perché sede del culto di Moloch, dove venivano bruciati i rifiuti della città e dove, secondo Isaia 66,24, si trovavano i «cadaveri degli uomini che si sono ribellati contro di me [Dio]», il cui «verme non morirà», il cui «fuoco non si spegnerà» e che «saranno un abominio per tutti».
    È con il libro della Sapienza, attribuito alla metà circa del primo secolo a. C., che comincia ad affermarsi la convinzione che, dopo morte, i buoni entrano nel riposo di Dio mentre i cattivi vengono destinati alla dannazione eterna (cf Sap 3). Nel capitolo 5 l'autore del libro mette sulla bocca dei dannati questo impressionante testo di autoaccusa: «Abbiamo dunque deviato dal cammino della verità; la luce della giustizia non è brillata per noi, né mai per noi si è alzato il sole. Ci siamo saziati nelle vie del male e della perdizione; abbiamo percorso deserti impraticabili, ma non abbiamo conosciuto la via del Signore. Che cosa ci ha giovato la nostra superbia? Che cosa ci ha portato la ricchezza con la spavalderia? Tutto questo è passato come ombra e come notizia fugace, come una nave che solca l'onda agitata del cui passaggio non si può trovare traccia, né scia della sua carena sui flutti; oppure come un uccello che vola per l'aria e non si trova alcun segno della sua corsa, perché l'aria leggera, percossa dal tocco delle penne e divisa dall'impeto vigoroso, è attraversata dalle ali in movimento, ma dopo non si trova segno del suo passaggio; o come quando, scoccata una freccia al bersaglio, l'aria si divide e ritorna subito su se stessa e così non si può distinguere il suo tragitto: così anche noi, appena nati, siamo già scomparsi, non abbiamo avuto alcun segno di virtù da mostrare; siamo stati consumati nella nostra malvagità» (Sap 5,6-13).
    Nel Nuovo Testamento diversi sono i passi in cui si parla delle indicibili sofferenze con cui vengono puniti i cattivi: il fuoco che arde come zolfo (Ap 19,20), il «pianto e stridor di denti» (Mt 8,12; Lc 13,28), la tenebra esteriore (Mt 8,12; 22,13), il carcere (1 Pt 3,19), il «verme che non muore» (Mc 9,48), la «morte» (Gv 8,51), la «seconda morte» (Ap 2,11; 20,6), la compagnia del «diavolo» e dei suoi «angeli» (Mt 25,42). Quest'ultima immagine viene sviluppata soprattutto nei testi apocrifi, come ad es. nell'Apocalisse di Pietro, composta nel 135 d. C., dove si parla dell'inferno come di un fiume di fuoco divorante nel quale «gli ingiusti, i peccatori e gli ipo criti resteranno negli abissi di tenebre che mai svaniranno, e il loro castigo è il fuoco, e gli angeli presenteranno loro i peccati compiuti e prepareranno un luogo di eterna punizione, per ciascuno secondo le trasgressioni consumate... Ezrael, l'angelo della collera, porterà uomini e donne, la metà del loro corpo bruciante, e li getterà in un luogo di tenebre che è l'inferno degli uomini...».[3]

    Al di là delle immagini

    Le immagini con cui viene pensato l'inferno esprimono, attraverso il linguaggio della sofferenza portato ai confini dell'indicibile («tenebre», «fuoco», «vermi» o «diavoli») la possibilità oggettiva del fallimento dell'esistenza umana: fallimento reale, definitivo, irreversibile, cioè eterno.
    Ma quand'è che l'esistenza umana può dirsi fallita per sempre?
    A livello storico e fenomenologico l'esistenza umana fallisce quando si aliena il suo fine che, come si è visto, è di essere esistenza amata e amante. Non essere amati e non essere capaci di amare è il vero fallimento dell'esistenza umana e della storia che esso instaura come solitudine e violenza invece che come spazio di comunione fraterna. Nel capitolo 3 della Genesi, l'«inferno» nel quale precipitano Adamo ed Eva, simboli dell'Uomo e della Donna di tutti i tempi, è questo spazio di comunione interrotta dove l'eden si è dileguato d'incanto.
    Ma proprio perché l'esistenza umana è esistenza temporale, il fallimento che la minaccia vive sempre all'ombra della speranza che, ogni volta, la riscatta: «Oggi non sono amato, ma nutro la speranza di esserlo domani»; «Quest'anno mi sono murato nell'egoismo vorace, ma il prossimo anno non sarà più così». È il seme della speranza che, piantato nel fondo dell'esistenza, impedisce che ogni suo fallimento sia definitivamente tale, tornando, ogni volta, a riaccendersi la possibilità del cambiamento. Lo stesso suicida che si uccide per disperazione, in tanto lo fa in quanto spinto dalla speranza di uscire dal suo stato.
    Il significato dell'inferno veicolato dalle immagini bibliche è il fallimento dell'esistenza umana sottratto all'orizzonte della speranza e fattosi, con la morte, irreversibile.
    Si tratta di un fallimento che, come scrive Bernanos nel Diario di un curato di campagna, è il fallimento dell'uomo nella sua stessa capacità di amare: «L'inferno è il non amar più. Non amar più: questo suona ... come non esistere più. Per un uomo vivente non amar più significa amar meno, o amare altro. E se ora questa facoltà che ci sembra essere inseparabile dalla nostra essenza, che sembra anzi essere la nostra stessa essenza - perfino il comprendere è una specie di amore - potesse svanire completamente? Non amar più, non intendere più e tuttavia vivere, che prodigio incomprensibile! L'errore comune consiste nell'attribuire a queste creature abbandonate ancora qualche cosa di noi, ancora qualche cosa della nostra continua mobilità, mentre esse sono inchiodate per tutta l'eternità fuori del tempo e del movimento. Anche se Dio ci prendesse per mano e ci conducesse ad uno di questi doloranti esseri assurdi, con quale linguaggio potremmo parlare con lui, anche se fosse stato un giorno il nostro più caro amico? Se un vivente, nostro simile, l'ultimo di tutti, il più inutile fra gli inutili, venisse gettato così come egli è negli abissi infiammati, io vorrei partecipare alla sua sorte e tenterei di strapparlo al suo carnefice. Condividere la sua sorte! ... L'infelicità, l'inconcepibile infelicità di queste pietre bruciate, che un giorno erano uomini, sta appunto nel fatto che esse non possiedono più nulla a cui si possa partecipare».[4]

    La perdita di Dio

    È possibile, però, scavare ancora più a fondo nell'immagine dell'inferno e chiedersi in cosa consiste il fallimento che esso sancisce definitivamente?
    La riflessione teologica sostiene che, nell'inferno, il dannato vi patisce una duplice indicibile sofferenza: l'una, frutto della perdita di Dio, chiamata pena del danno; l'altra, frutto della perdita dell'io, denominata pena del senso.
    Il senso dell'inferno e delle immagini per parlarne è racchiuso in queste due «perdite».
    L'inferno è inferno - cioè esistenza definitivamente e irreversibilmente fallita - perché è il «luogo» non più abitato da Dio, lo «spazio» dove non c'è più spazio per il suo amore. L'inferno è il luogo del non amore dove coloro che vi abitano diventano, come scrive Bernanos nel brano sopracitato, «pietre bruciate».
    Ma è possibile concepire un luogo dal quale la presenza di Dio è stata bandita? Non è vero che Dio, come insegna il catechismo, «abita» dovunque, «in cielo, in terra e in ogni luogo»? Che senso può avere, allora, parlare di uno spazio - l'inferno - sottratto alla sua presenza e «dannato»?
    La prima osservazione da fare è che, parlando dell'inferno come «luogo» oppure come «spazio», questi termini non hanno valore geografico ma esistenziale. L'inferno non è né può essere un «luogo» e neppure uno «spazio», bensì una modalità dell'esistenza umana: l'esistenza definitivamente e irreversibilmente fallita. Più che di inferno bisognerebbe parlare di esistenza infernale: l'esistenza dissociata da Dio, estranea a lui, collocata al di fuori del suo amore e del suo perdono.
    Ma è concepibile un'esistenza fuori di Dio? Non insegna il salmo 139 che niente e nessuno può sfuggire al suo sguardo onnipresente e onniscrutante che non teme neppure gli inferi?

    Signore tu mi scruti e mi conosci,
    tu sai quando seggo e quando mi alzo.
    Penetri da lontano i miei pensieri,
    mi scruti quando cammino e quando riposo.
    Ti sono note tutte le mie vie;
    la mia parola non è ancora sulla lingua
    e tu, Signore, già la conosci tutta.
    Alle spalle e di fronte mi circondi
    e poni su di me la tua mano.
    Stupenda per me la tua saggezza,
    troppo alta, e io non la comprendo.
    Dove andare lontano dal tuo spirito?
    dove fuggire dalla tua presenza?
    Se salgo in cielo, là tu sei,
    se scendo negli inferi, eccoti.
    Se prendo le ali dell'aurora
    per abitare all'estremità del mare,
    anche là mi guida la tua mano
    e mi afferra la tua destra.
    Se dico: «Almeno l'oscurità mi copra
    e intorno a me sia la notte»;
    nemmeno le tenebre per te sono oscure,
    e la notte è chiara come il giorno;
    per te le tenebre sono come luce.
    Sei tu che hai creato le mie viscere
    e mi hai tessuto nel seno di mia madre...(Sal 139,1-12).

    È vero, come vuole questo splendido salmo, che Dio è presente a ogni uomo e a ogni donna perfino negli inferi, ma la sua è una presenza che, avendo costituito l'uomo nella libertà, si arresta di fronte ad essa. Per la Bibbia Dio è Dio per questo gesto impensabile di aver creato una libertà indipendente o «atea», capace di fare a meno della sua origine e negarla: «È senz'altro un grande motivo di gloria per il creatore l'aver messo al mondo un essere capace di ateismo, un essere che, senza essere stato causa sui, ha lo sguardo e la parola indipendenti e si sente a casa sua».[5]
    Per la Bibbia l'inferno è l'esistenza umana fallita in quanto esistenza che, con un atto di libera scelta, si è negata e si nega a Dio fissandosi, con la morte, per sempre ed eternamente in questa scelta negativa. Se, come vuole Buber, Dio entra dove lo si lascia entrare, l'inferno è la porta chiusa per sempre all'amore di Dio che bussa per entrare.
    L'inferno, paradossalmente, non è creato da Dio ma dall'uomo, dal suo gesto di ribellione che impedisce a Dio, che è la fonte della vita, di dargli vita.

    La perdita dell'io

    Se, per la Bibbia, l'uomo vive in forza del volere d'amore di Dio, negarsi a questo amore è morire, come muore il pesce senza l'acqua, l'uccello senza l'aria e il fiore senza il sole. Perdendo Dio, l'uomo perde se stesso: radicalmente, sostanzialmente, irreversibilmente. La coscienza di questa perdita è la sua abissale sofferenza che la teologia classica identifica con la «pena del senso», descritta particolarmente attraverso «il fuoco» eterno: «Questa seconda specie di pena chiamano i maestri di teologia pena del senso, perché è sentita coi sensi corporei, come è il caso per es. nella pena della bastonatura, della flagellazione ed in altre specie di gravi punizioni. Tra questi senza dubbio la pena del fuoco evoca la più alta sensazione di dolore».[6]
    Ma cos'è, in realtà, questa pena del senso? Scrive il teologo M. Schmaus, autore di uno dei saggi più belli e completi sulle ultime realtà: «Non c'è ... nessuna definizione dottrinale ecclesiastica che precisi che cosa si debba intendere per pena del senso. La maggior parte dei teologi la spiega come una somma di mali decretata da Dio contro il peccatore. Secondo questa spiegazione, Dio condanna il peccatore a pene e tormenti perché così sia vendicata la trasgressione della legge. Queste pene non sono semplicemente la ripercussione del peccato, ma sopravvengono piuttosto dal di fuori, in conseguenza dell'inscrutabile volontà divina di giustizia. Secondo questa dottrina, Dio non agisce immediatamente sul dannato, ma si serve per questo delle cose create come suo strumento. Questo procedere di Dio sta in esatta corrispondenza col procedere dell'uomo peccatore. Col peccato questi ha riconosciuto il mondo come suo idolo e si è fatto servo di esso; ora egli deve provare che cosa vuol dire essere come schiavo del mondo».[7]
    Per Schmaus la pena del senso - quella che colpisce i sensi e la coscienza - è una specie di incatenamento [8] che costringe il dannato «in un'eterna insolubile opposizione»:[9] «Al dannato, cieco e paralizzato, in quanto non può soddisfare l'intima aspirazione del suo cuore, né la fame o la sete del suo spirito, è preclusa una vera vita umana. Egli deve condurre una vita inumana. Che la vita dell'inferno sia la morte di ogni vera umanità ci viene accennato nella Sacra Scrittura con la descrizione dello stato degl'indemoniati. L'incatenamento, in cui deve vivere il dannato, è acuito in modo particolare per il fatto che egli è rinchiuso in se stesso. Egli non ha comunicazioni con altri e deve sopportare tutto da solo. Se questo riesce insopportabile all'uomo e provoca tedio e noia già nella vita terrena, dove pure vige ancora una certa libertà, la solitudine dell'inferno, in cui l'uomo, incapace di ogni movimento, deve resistere solo con se stesso, significa il più alto potenziamento del tedio e della nausea di se stesso».[10]
    A proposito dell'interpretazione del «fuoco» dell'inferno, l'autore, pur definendola «arrischiata» e bisognosa di ulteriori ricerche,[11] sembra condividere l'opinione di chi assume «il termine fuoco come descrizione delle pene infernali ... perché i dannati sperimentano il terrore e il tormento della pe ita di Dio in tale misura e intensità che solo il termine uoco può darne una rappresentazione analogica. Il d nato, in conseguenza della sua lontananza da Dio, soffre come colui che viene bruciato vivo e cosciente, e ancora inconcepibilmente di più. L'inferno è per così dire il compendio e la perfezione di ogni pena. Il dannato porta il fuoco in se stesso in quanto il suo essere in conseguenza dell'allontanamento del suo io da Dio è lacerato, senza libertà, cieco e mutilato. Egli è il suo proprio focolaio».[12]

    Cos'è allora l'inferno?

    L'idea di un Dio che, per volontà di giustizia, condanna eternamente a una sofferenza senza termine e senza scopo di ricupero il peccatore, sembra incompatibile con la rivelazione dell'amore di Dio come volontà di vita per l'uomo e soprattutto con la logica del Dio crocifisso che, facendosi compagnia all'uomo peccatore nella stessa estrema situazione della morte ingiusta e violenta, ne ha assunto il peso perdonandolo invece che punendolo. Se, come insegna Paolo nella lettera ai Corinzi, Cristo ha introdotto nel mondo un nuovo logos, quello dell'amore crocifisso che invece di condannare il colpevole paga al suo posto (cf 1 Cor 1,18), anche il tema dell'inferno deve essere pensato alla luce di questo logos, come fa A. Rizzi nella sua proposta reinterpretativa della sostanza teologica del dogma dell'inferno.
    «Proviamo... a pensare che cosa vuol dire che il dannato è abbandonato da Dio, a differenza del peccatore che rimane sotto la sua volontà di perdono. Vuol dire che nella dannazione l'uomo è lasciato radicalmente a se stesso, alle proprie forze. Ma quando l'esistenza terrena, in cui l'uomo progetta ed opera, si è conclusa, l'uomo lasciato a se stesso è l'uomo abbandonato alla morte. Se l'essere umano è, di natura sua, integralmente mortale ... e se la risurrezione è opera della grazia divina, un uomo lasciato a se stesso è escluso dalla risurrezione. Allora la morte che di per sé è legge naturale dell'esistenza umana, acquista un senso ulteriore e negativo, il suo senso "tragico": emarginazione senza ritorno dalla vita con Dio. È questa la pena del danno: i dannati sono, nel senso proprio ed estremo del termine, dei danneggiati; chiamati alla vita con Dio, alla vita nel mondo dove Dio è tutto in ogni cosa, essi si sono autoesclusi da questa vita, e con la morte ripiombano nel nulla ("nella polvere") da cui sono venuti».[13]
    L'indicibile drammaticità dell'inferno non è data dal soffrire eterno del peccatore bensì dal suo annientamento o ritorno al nulla; e non ad opera del volere divino che, in quanto tale, è solo volere di amore e di perdono, bensì ad opera del peccatore stesso, di fronte al cui volere Dio è impotente, non potendo costringerlo a volere il suo volere.
    Ma in tanto l'indicibile drammaticità dell'inferno è tale in quanto accompagnata dalla coscienza, da parte del peccatore, del suo annientamento o ritorno al nulla. È questa la «pena del senso»: la luce della coscienza del proprio definitivo e irreversibile autoannientamento: «Ed è il rispecchiarsi del giudizio di Dio nella coscienza del peccatore all'istante della morte: è appunto "il giudizio" di Dio, che illumina agli occhi del peccatore/dannato la tragica verità della sua situazione, la perdita incolmabile del suo precipitare nella morte senza ritorno».[14]
    Questa presa di coscienza sul proprio fallimento e questo sguardo sul proprio annientamento sono così impensabilmente dolorosi che solo l'immagine del fuoco eterno che brucia senza mai consumare può darne, metaforicamente, una lontana raffigurazione.

    Ma è possibile perdersi definitivamente?

    È affermazione dogmatica, cioè certa e indiscutibile, che l'inferno esiste. Ma una tale affermazione non riguarda l'ordine della realtà fattuale, bensì quello delle possibilità. Essa non dice che di fatto ci sono stati, ci sono o ci saranno dei dannati ma che l'esistenza umana - ogni esistenza umana - in quanto adesione libera a Dio ha la possibilità di perdersi definitivamente: «L'esistenza effettiva dei dannati è al di là di ogni sapere e di ogni legittimo interrogare umano, sia di scienza che di fede. "C'è l'inferno" significa che ci possono essere dannati; meglio: che la dannazione è una possibilità per ogni uomo, per ognuno di noi, per me stesso».[15] A proposito non bisogna dimenticare che la Chiesa, mentre, attraverso la pratica della beatificazione e della canonizzazione, ha dichiarato santi uomini e donne di tutti i tempi, non ha mai conosciuto un'identica prassi relativa ai "dannati". Di nessuna persona, infatti, la Chiesa ha mai dichiarato che è dannata, neppure di Giuda o di Hitler. «Questa differenza fa pensare, ed è per lo meno un indizio del fatto che l'inferno non costituisce un contenuto di fede cristiana nello stesso modo del paradiso».[16]
    Parlando dell'inferno come possibilità, bisogna intendere quest'ultima come possibilità oggettiva e ontologica iscritta nella stessa struttura dell'uomo, essere responsabile, chiamato a decidersi di fronte a Dio con il suo «sì» oppure con il suo «no»: «Davanti a Dio l'uomo è libertà, non nell'accezione moderna, che è il diritto di disporre di sé, ma in quella - classica in filosofia - che è sinonimo di decisione, di opzione radicale tra bene e male, tra vita e morte. La Bibbia non ha un termine per dire questa libertà; ma la mette in opera nella metafora del bivio, che dice la situazione essenziale dell'uomo dell'alleanza (vedi, per l'Antico Testamento, soprattutto il Deuteronomio e, per il nuovo, il dualismo di decisione del vangelo di Giovanni). Piuttosto che fare dell'uomo il signore del mondo, l'idea biblica di libertà lo pone sotto la signoria di Dio che gli offre la "vita", ma nella modalità di scelta, dunque unita alla compossibilità della "morte". È questo il versante drammatico della libertà: la sua fallibilità, la possibilità di perdersi con le proprie mani; possibilità che è l'altra faccia della chiamata-alla vita, alla comunione con Dio».[17]
    Se, per la Bibbia, l'uomo è radicale libertà alla quale Dio consegna il suo amore e di fronte alla quale si arresta impotente, la possibilità che egli ha di perdersi è reale e nessuno, neppure Dio, può impedirla. Un Dio che costringesse l'uomo a volere il suo volere non sarebbe sicuramente il Dio biblico, per il quale l'impotenza della forza è la potenza del suo amore.

    L'incommensurabile grandezza dell'uomo

    È questa la ragione per la quale la Chiesa ha ritenuto «eretica», non conforme a verità, la teoria della apocatastasi (in greco il termine vuol dire restaurazione, reintegrazione) di alcuni padri della Chiesa, sviluppatasi nella scuola di Origene di Alessandria (circa 185-253 d. C.), secondo cui Dio, a un certo punto, avrebbe riconciliato a sé tutti i dannati, compresi i diavoli. Un'interpretazione come questa ha il torto di sottovalutare la libertà dell'uomo, ignorandone la responsabilità e riducendolo solo a recettività. Per quanto possa sembrare paradossale, parlare dell'inferno, cioè della possibilità oggettiva che l'uomo ha di perdersi, è un'altra delle modalità per ribadire la sua incommensurabile dignità, come scrive il grande teologo della ortodossia P. N. Evdokimov: «L'inferno non è altro che l'autonomia dell'uomo rivoltato che si esclude dal luogo in cui Dio è presente. La capacità di rifiutare Dio è il punto più avanzato della libertà umana. Ed è voluta da Dio, quindi è senza limiti. Dio non può costringere nessun ateo ad amarlo, e in ciò consiste, si ha appena il coraggio di dirlo, l'inferno del suo amore divino, la visione dell'uomo smarrito nella notte della solitudine».[18]
    Uno dei salmi più celebri del salterio esprime con linguaggio ineguagliabile la terribile (nel senso di meraviglioso e tremendo) ambivalenza dell'uomo sospeso tra l'insignificante piccolezza e la sua quasi divina altezza:

    Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
    la luna e le stelle che tu hai fissate,
    che cosa è l'uomo perché te ne ricordi
    e il figlio dell'uomo perché te ne curi?
    Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli,
    di gloria e di onore lo hai coronato:
    gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
    tutto hai posto sotto i suoi piedi;
    tutti i greggi e gli armenti,
    tutte le bestie della campagna;
    gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
    che percorrono le vie del mare.
    O Signore, nostro Dio,
    quanto è grande il tuo nome su tutta la terra! (Sal 8, vv. 4-10).

    La quasi divina grandezza dell'uomo («eppure l'hai fatto poco meno degli angeli») non consiste nella sua razionalità indagatrice e dominatrice, che lo differenzia dal regno animale, ma nel suo essere, unico tra tutti i viventi, responsabilità di fronte a Dio, capace, nella libertà, di negarglisi o di obbedirgli. L'incommensurabile altezza dell'uomo è nel fatto che Dio, sostituendo alla potenza della forza l'impotenza dell'amore, affida alle sue mani il Bene e il Male, la sua stessa salvezza e la sua stessa perdizione.
    Ma se un uomo, negandosi a Dio, fallisce, non è anche l'amore di Dio che fallisce?
    M. Buber ha scritto che amare è soffrire, portando il peso dell'altro. Se questo è vero, dove un uomo fallisce, lì Dio è presente assumendo e portando lui stesso il suo fallimento.
    Se per l'uomo l'inferno è la sua ricaduta cosciente nel nulla, per Dio è la sua sofferenza d'amore che, per l'eternità, custodirà il dramma di questo fallimento. Se questo è vero, a «patire veramente l'inferno» - e a «patirlo eternamente» - è Dio.
    Come nel caso di un bimbo mai nato, dove non è lui ma la madre che, nella sua coscienza, trascrive per sempre il dramma di quel sorriso mai sbocciato.


    NOTE

    [1] Citato da F.-J. NOCKE, Escatologia, Queriniana, Brescia 1988, pp. 136-137.
    [2] F. Fohrer, citato da D. GARRONE, Dallo sheol alla Gerusalemme celeste. Morte e vita eterna secondo la bibbia ebraica, in AA. Vv., L'aldilà nella Bibbia, cit., p. 17.
    [3] Testo in A. M. Di NOLA, Il diavolo. Le forme. La storia. Le vicende di satana..., Newton Compton, Milano 1987, pp. 170-171.
    [4] G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Mondadori, Milano 1991, p. 158.
    [5] E. LÉVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, Milano 1990, p. 57.
    [6] Questa tesi è sostenuta dal Catechismo Romano edito per incarico del Concilio di Trento, ed è citata da M. SCHMAUS, Le ultime realtà, Paoline, Alba 1960, p. 594.
    [7] M. SCHMAUS, Le ultime realtà, cit., p. 589.
    [8] L'autore infatti intitola il paragrafo in questo modo: L'inferno come incatenamento (II fuoco dell'inferno): cf ivi, p. 589.
    [9] Ivi, p. 598.
    [10] Ivi.
    [11] Ivi, p. 600.
    [12] Ivi, p. 599.
    [13] A. RIZZI, L'inferno: dogma da cancellare o da ripensare?, in «Servitium» 67/1990, pp. 48-49. Su questa stessa linea interpretativa si muove E. SCHILLEBEECKX nel suo ultimo libro-intervista Sono un teologo felice, Dehoniane, Bologna 1993, pp. 70-71.
    [14] Ivi, p. 49.
    [15] A. RIZZI, op. cit., p. 46.
    [16] F.-J. NOCKE, Escatologia, Queriniana, Brescia 1988, pp. 140.
    [17] A. RIZZI, ivi, pp. 46-47.
    [18] P. N. EVDOKIMOV, L'amore folle di Dio, Paoline, Roma 1981, p. 105s.


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