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    Il futuro di Dio come imperativo (cap. 3 di: Il futuro dell'uomo nel futuro di Dio)


    Carmine Di Sante, IL FUTURO DELL'UOMO NEL FUTURO DI DIO. Ripensare l'escatologia, Elledici 1994

     

    L'aldilà

    Nel primo capitolo si è visto con quali categorie (profezia, apocalittica, risurrezione e parusia) la Bibbia parla del futuro, mentre nel secondo si è identificato questo futuro con Dio stesso. Ma se il futuro è Dio, dove trovarlo e dove incontrarlo?
    La tradizione cristiana ha fatto dell'aldilà il luogo ultimo e radicale dell'incontro con Dio, dove l'attesa intensamente coltivata durante tutta la vita si placa nel possesso della sua realtà e il futuro ricercato e invocato finalmente giunge a compimento. Questo aldilà è stato fatto coincidere con la morte, quando, libera dai limiti della corporeità, l'anima entra nel cielo e gode della visione di Dio e della sua felicità.
    Questo modo di pensare, al cui interno è stata rieletta la stessa categoria della risurrezione e della parusia, è entrato a far parte in profondità dell'immaginario cristiano, soprattutto cattolico, e si ritrova nella stessa liturgia, come prova questo testo tratto da uno dei prefazi in uso per la morte di un fratello: «... se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consola la promessa dell'immortalità futura. Ai tuoi fedeli la vita non è tolta ma trasformata e, mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un'abitazione eterna nel cielo».
    L'identificazione dell'aldilà con lo spazio aperto dal dopo morte più che alla tradizione biblica la si deve alla tradizione ellenistica il cui influsso, soprattutto attraverso il filone platonico e plotinico, su nessuna idea è stato così determinante come sull'aldilà.
    Come è noto, questa idea, nell'ultimo secolo, è stata sottoposta a una critica spietata dai maestri del sospetto, in quanto produzione ideologica dello psichismo infantile e della ragione alienata che, proiettando in avanti l'orizzonte della felicità, nega quella presente, come denuncia con veemenza F. Nietzsche: «La chiesa cristiana ... è per me la più grande corruzione che si possa immaginare... Questi sarebbero i benefici del cristianesimo ... l'al di là come volontà di negare ogni realtà, la cospirazione contro la salute, la bellezza, la perfezione, il valore, lo spirito, la bontà dell'anima, contro la vita stessa...».[1]
    Non dissimile è la critica di L. Feuerbach nel suo celebre saggio L'essenza del cristianesimo: «Come Dio null'altro è che l'essere dell'uomo purificato da ciò che l'individuo giudica o sente come limite, come male, così l'aldilà null'altro è che la vita di quaggiù libera da ciò che si reputa limite o male... Nella religione l'uomo si stacca da sé, ma soltanto per ritornare sempre di nuovo a quel medesimo Io da cui si è allontanato, nega se stesso, ma soltanto per tornare a porre il proprio Io in figura glorificata. Allo stesso modo ripudia anche la vita di quaggiù, ma soltanto per tornare da ultimo a porla come aldilà...
    L'immagine è l'essenza della religione. La religione sacrifica la cosa all'immagine. L'aldilà è la vita di quaggiù vista nello specchio della fantasia, l'immagine affascinante dunque, ma secondo la religione l'archetipo, della vita terrena: questa vita reale sarebbe dunque soltanto un'apparenza, un riflesso di quella ideale, allegorica. L'aldilà è la vita di quaggiù contemplata nella sua immagine, purificata da ogni grossolanità della materia».[2]
    A critiche così radicali, i biblisti e i teologi cristiani spesso reagiscono notando che, se esse valgono per l'aldilà inteso grecamente, non valgono per l'aldilà inteso biblicamente, la cui categoria dominante è la risurrezione che, a differenza dell'immortalità, si iscrive nell'arco della temporalità e della concretezza della corporeità, come si recita espressamente nel Credo: «Credo nella risurrezione della carne».

    Ermeneutica dell'aldilà

    Differenze come queste sono rilevanti, ma restano ancora marginali perché non colgono la vera discriminante tra la concezione biblica dell'aldilà e quella prevalsa nella tradizione cristiana. «Fissare» questa discriminante e definirne il potere disalienante è possibile solo attraverso la «demitizzazione», cioè l'interpretazione adeguata della metafora dell'aldilà.
    Quando si parla di «aldilà» si ricorre a un simbolo che, nell'accezione data da P. Ricoeur, è «ciò che dà da pensare».
    L'aldilà «dà da pensare»: nel senso che si offre alla ragione come dono perché l'accolga come «ospite» e se ne lasci arricchire e arricchisca, in una reciprocità di scambio: il simbolo illuminando la ragione, la ragione dis-piegando, cioè mostrando, il simbolo.
    Parlare di aldilà è parlare di ciò che è oltre la visibilità e la percezione immediata delle cose, è attingere a un livello dove esse, oltre l'apparenza, rivelano e s-velano la loro dimensione ultimale (escaton, in greco, da cui il termine escatologia), non ulteriormente trascendibile, che ne giustifica l'esistenza e ne istituisce il senso.
    Le grandi culture, ad eccezione della breve stagione moderna nella sua espressione nichilista, da sempre hanno espresso la convinzione che le cose - e l'uomo di fronte alle cose e tra le cose - non si esauriscono in sé ma sono l'apparenza, nel senso di apparizione o apparire, di una realtà ultima, cioè escatologica che le trascende generandole e rigenerandole continuamente.
    Questa dimensione ultimale o escatologica conosce nomi diversi (sacro, divino, spirito, anima mundi, ecc.), può esseri personificata in modi diversi (dèi, eroi, antenati, esseri mitici o primordiali, ecc.) e tra tutte le dimensioni della realtà umana è quella più importante alla quale continuamente riattingere perché il mondo e il proprio essere nel mondo permangano nella stabilità.
    Ritrascrivendo in termini concettuali l'escaton o l'aldilà che sottostà alle cose trasfigurandole, senza cui da apparizione si fanno apparenza nell'accezione deteriore del termine, si potrebbe ricorrere alla categoria del Senso.
    Con il termine Senso, la cui crisi e assenza è il tratto dominante dell'attuale stagione culturale occidentale, si intende la presenza, nel mondo, di un senso né soggettivo, perché prodotto dall'io, e neppure tran- soggettivo, perché prodotto dalla collettività o dalla cultura alla quale l'io appartiene, ma assoluto e incondizionato, anteriore ai sensi prodotti dagli individui e dalle culture, indipendente dal loro potere e vincolante le loro volontà. Quando si parla di Senso come escaton e dell'escaton come Senso si intende questo tratto di assolutezza e di incondizionatezza che sottrae l'uomo - individuale e di gruppo - alla sua pretesa di essere produzione di senso per scoprirsi ricezione e obbedienza alle sue esigenze.
    Ma in cosa consiste questo «di più» - escaton o «Senso» - che sorride dal volto delle cose e le illumina?
    Per le religioni extrabibliche consiste nel divino inteso come Vita che genera e si autogenera eternamente nelle forme mirabili degli esistenti (o enti), espressioni della sua ineffabile e inafferrabile Potenza. Per queste Dio è la Natura (Deus sive Natura), concepita come immenso Organismo vivente e onni-inglobante, Totalità intranscendibile che misura e avvolge, madre onnipresente che nutre e protegge. Parlando della natura, sinonimo di Dio o del divino, c'è da sottolineare soprattutto il suo carattere dinamico, la sua tendenza inarrestabile ad essere ciò che ancora non è: «Natura è quel qualcosa che è già presente nel seme e che fa sì che il seme diventi pianta».[3]
    Gli antichi chiamavano telos (da cui il termine italiano teleologia, che vuol dire discorso sui «fini» o «finalità» delle cose) il punto di approdo di questa tendenza: dove il «seme», colmando la distanza che lo separa dal suo essere pianta, realizza se stesso e trova la sua «patria». Il miracolo della natura è il miracolo di questa Forza vitale irresistibile e inarrestabile (o, per ricorrere all'espressione celebre di Bergson, slancio vitale), in forza della quale ogni cosa, dalla pianta, all'animale, all'uomo, raggiungendo il suo fine, diviene se stessa e trova la «felicità», in una eterna danza di forme che si fanno e si disfanno per poi rifarsi e ridisfarsi, per sempre all'infinito.
    In religioni come queste, cogliere l'aldilà o il di più delle cose è cogliere, dentro e oltre il loro apparire, questo principio vitale in forza del quale il mondo «si presenta in figure, colori, atmosfere, strutture... Tutto ha un volto: in quanto forme espressive le cose parlano, manifestano la loro fisionomia, annunciano se stesse, danno testimonianza della loro presenza: "guardate, eccoci"...»;[4] ed è soprattutto abbandonarsi a questo principio vitale, come l'onda si abbandona al fiume o la goccia all'oceano, rinunciando alla propria individualità per immergersi nella energia plasmatrice e riplasmatrice della totalità.

    L'aldilà delle cose per la Bibbia

    Per la tradizione biblica, al contrario, l'aldilà delle cose o Senso non viene colto come principio che fa corpo con l'essere del mondo identificandosi con la sua Totalità cosmica, naturale o sociale, bensì come una realtà altra dal principio (o potenza, forza, energia, anima mundi, vitalismo, ecc.) che rompe con la totalità e la desacralizza spogliandola della sua dimensione divina.
    Questa idea di un aldilà della natura altra dalla natura, che non fa corpo con essa, è il tratto per eccellenza della religione di Israele tramandataci dal testo biblico, al punto che in essa, linguisticamente, il termine «natura» è perfino assente. Si tratta di un'idea così unica e alta che la tradizione cristiana, assumendola, ne ridurrà la portata rivoluzionaria ricatturandola entro l'orizzonte della natura e della sua teleologia. Quando, con un termine specialistico, si parla di «ellenizzazione» del cristianesimo, si intende soprattutto questo processo con cui la tradizione cristiana, per influsso della cultura greco-ellenistica, ha indebitamente omologato l'aldilà biblico con l'aldilà naturalistico.
    La categoria per eccellenza dove, nella tradizione ebraico-cristiana, si condensa l'idea dell'aldilà non omologabile all'aldilà naturalistico o organico è quella del monoteismo, secondo cui Dio è l'essere che, pur essendo creatore di tutti gli esseri, non fa corpo con nessuno di essi, restando radicalmente altro da essi. Come scrive Y. Kaufmann, nella sua presentazione della religione d'Israele: «...l'idea religiosa della Bibbia, percepibile negli strati più antichi che compenetrano persino le leggende "magiche", è quella di un Dio supremo che sta al di sopra di ogni legge cosmica, di ogni destino e di ogni costrizione: ingenerato, increato, impassibile, indipendente dalle cose e dalle loro forze; un Dio che non combatte le altre divinità o le forze dell'impurità, che non sacrifica, non divina, non profetizza né pratica la stregoneria; che non pecca né ha bisogno di espiazione; un Dio che non celebra le feste della sua vita. Una volontà divina libera che trascende ogni ente: questo contrassegna la religione biblica e ne costituisce la differenza rispetto a tutte le altre religioni di questa terra».[5]
    Da questa impensabile affermazione monoteistica, per la quale il divino non si identifica con la totalità naturale e con nessun'altra totalità storica o culturale, in occidente è iniziato quel processo di disincanto che, secondo la maggior parte dei pensatori, ha portato alla modernità e alla «secolarizzazione» e che, nonostante l'attuale stagione apparentemente contraria, trascende lo stesso occidente per farsi planetaria. Ma c'è di più: è sempre da questa impensabile affermazione monoteistica che, istituendo nella storia delle culture, per la prima volta, una separazione radicale tra Dio e la Natura, si pone il problema di ridefinire daccapo il senso di quest'ultima: se, infatti, la natura non è più divina e se le sue forme mirabili non sono più l'epifania della sua Potenza vitale, diventa giocoforza aprire nuove piste riflessive. Una di queste è quella gnostica che, nell'imponente ricostruzione fattane dal grande filosofo H. Jonas recentemente scomparso,[6] è l'esito negativo e drammatico di questa separazione: se la natura non è più divina, non è più la «casa» di Dio, neppure è più la «casa» dell'uomo. Esiliato in questo mondo, come in un luogo di male o carcere, la sua patria è altrove, il suo aldilà è aldilà di questo mondo.
    Anche se collegata a questa da un filo sottile, tanto più forte quanto più nascosto, diversa è la risposta moderna, per la quale l'aldilà della natura non viene dislocato fuori di essa, in un altro spazio e in un altro tempo, ma semplicemente negato, per cui questa è ridotta a un foglio bianco dove l'unico senso è quello che l'uomo vi iscrive con la sua volontà di progetto.
    L'esito gnostico e l'esito nichilistico moderno, per quanto agli antipodi, condividono, alla radice, la stessa convinzione: che l' aldiqua è privo del suo aldilà, anche se per il primo si tratta di un aldilà non cancellato ma solo dislocato altrove, mentre per il secondo si tratta di un aldilà negato definitivamente per essere sostituito dalla progettualità umana.

    L'aldilà come bontà

    Per la Bibbia l'instaurazione della separazione tra Dio e il mondo non coincide con la sottrazione dell'aldilà all'aldiqua ma con una nuova ridefinizione dell'uno e dell'altro. Affermando che Dio è altro dal mondo, la Bibbia, infatti, non proclama, tra i due, l'irrelazione dell'indifferenza, per cui il mondo senza Dio nascerebbe all'autonomia e alla reificazione sotto lo sguardo dell'uomo, ma istituisce un nuovo tipo di relazione che, oltre l'identificazione e oltre l'indifferenza, è relazione di alterità che dischiude il nuovo volto di Dio e il nuovo volto del mondo, il nuovo senso del «cielo» e il nuovo senso della «terra».
    Il significato più profondo dell'aldilà biblico va colto proprio a questo livello: esso non è altro dal mondano ma un nuovo modo di concepire il mondano; non «ciò» che viene dopo l'aldiqua, bensì ciò che introduce nell'aldiqua una rottura (o, in termini giovannei, una crisi, cioè una frattura) dischiudendovi un nuovo orizzonte: quello della bontà come bene-volenza.
    È infatti proprio la bontà, per la Bibbia, il «di più» delle cose, l'ulteriorità che le abita e trascende e verso la quale tende inquieto l'uomo finché non vi approda. La bontà, per la Bibbia, è il vero aldilà che è dentro l'aldiqua e che, allo sguardo di chi la coglie e l'accoglie, trasfigura questo mondo in «cieli nuovi» e «terre nuove», in un nuovo mondo: nuovo non nel senso di nuovi spazi e nuovi tempi intesi geograficamente e cronologicamente, ma nel senso di una nuova logica e di un nuovo senso con cui esso viene interpretato e abitato. L'aldilà biblico non è quello che segue all'aldiqua ma quello che dischiude un nuovo senso ad esso: non più come corpo del divino o sua epifania, come nelle religioni extrabibliche, ma rivelazione del suo amore come bontà.
    Parlando della bontà di Dio come l'ulteriorità del mondo (o come il suo aldilà), è necessario cogliere lo spessore semantico radicalmente nuovo che questo termine ha per la Bibbia e che, come ricorda lo scrit tore sovietico Grossmann, introduce nel mondo e nel gioco dei suoi determinismi «una vera follia».[7] La bontà è veramente «folle», perché, proprio come la follia, nega la «logica» e ne istituisce un'altra: non più la logica della tendenza all'autorealizzazione, non più la logica del principio come forza di autoespansione, bensì la logica di chi fa spazio all'altro, rinunciando al proprio io e morendo alle sue istanze.
    Si può anche dire che, per la Bibbia, l'aldilà sotteso all'aldiqua è l'amore di Dio, ma a condizione di sottrarre questo amore alla sua riduzione di desiderio o eros: l'amore naturale come movimento irresistibile e inarrestabile verso il valore, la bellezza o la perfezione, come vuole Platone; oppure l'amore come principio o energia vitale o motore (nel senso di movente) come vuole Aristotele; oppure, infine, l'amore come Bontà di appetizione (La bontà è ciò che ogni cosa appetisce) che si desidera come oggetto allo stesso modo di ogni cosa appetibile.
    Il Dio amore, per la Bibbia, è amore in un altro senso. E se si continua a utilizzare lo stesso termine, è necessario prendere coscienza della sua transvalutazione semantica che lo riveste di un significato realmente altro: l'amore come bontà, come Bene-volenza, come Volere buono, come gratuità, come «immotivazione», non nascendo dal proprio bisogno ma da quello dell'altro.
    Si potrebbe dire che, se l'occhio della grecità coglie, al di là delle cose, la loro bellezza e armonia di forma, l'occhio biblico vi coglie la bontà di colui che le dona per amore. Il «di più» delle cose, l'ulteriorità che il soggetto psichico ricerca in esse non è il «di più» della perfezione e neppure l'ulteriorità della appetizione (andare alla ricerca di oggetti sempre più belli e appetibili) bensì il «di più» dell'amore che le abita, l'ulteriorità della gratuità che le sottende trasfigurandole in doni.
    Per la Bibbia è questo «di più» di bontà e di gratuità il vero aldilà del nostro aldiqua. E cogliere questo aldilà nell'aldiqua è trovare l'escaton, cioè l'ultimale, sul quale, «come l'albero piantato lungo corsi d'acqua» (Sal 1,3), la vita fiorisce e grazie al quale all'attesa del futuro subentra la fruttificazione operosa del presente.
    Pochi giorni prima di morire colpito dall'Aids, il giornalista B. Forti, ricoverato in ospedale, annotava nel suo diario: «Al di là della mia finestra d'ospedale scorgo un albero di cipresso. Io lo guardo e il mio cuore si riempie di gioia».[8]
    Al fondo di tutte le cose che ci vengono incontro a ogni ora dei nostri giorni e delle nostre notti c'è la sollecitudine di Dio che le dona. Cogliere questa sollecitudine e abbandonarsi alla sua presenza è raggiungere l'escaton sulla cui sponda la stessa paura della morte scompare, vivendosi l'io «tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sal 131,2).

    L'aldilà come appello

    Questo discorso biblico sull'aldilà delle cose come amore gratuito che le inabita va, però, subito integrato con l'affermazione che si tratta di un amore che, mentre dona all'uomo il mondo gratuitamente, lo chiama a ridonarlo, riproducendo lo stesso movimento. Ciò vuol dire che, per la Bibbia, l'amore di Dio, che è il «di più» delle cose, non si offre all'uomo come un «contemplabile» bensì come un «imperativo»; non dice: «Guardami, che bello», bensì: «Ascolta, imitami»; non: «Mi ti dono, sii felice», bensì: «Quello che ti dono ridonalo a chi ti sta accanto».
    È in questa dimensione di imperatività e di appello che, per la Bibbia, si dischiude il senso radicale dell'aldilà che sottende il mondo e lo fa essere come dono: un aldilà come parola che comanda e che con la sua potenza, che è la potenza della parola, dischiude all'uomo la dimensione nuova della responsabilità radicale. L'amore che l'occhio biblico coglie dentro le cose come loro dimensione escatologica, cioè ultimale (ultimale perché oltre di esse non si può andare non essendoci più altro), è l'amore di Dio come potenza ricreatrice del soggetto umano che si vede fiorire una nuova possibilità: non più solo essere di bisogno alla ricerca dell'autocompimento, ma essere che, sul suo essere di bisogno, vede accendersi il suo essere responsabile.
    Per la Bibbia è la responsabilità l'orizzonte ultimo, e, per questo, escatologico, dell'umano dischiuso dalla Parola di Dio che comanda di amare.
    Parlando di responsabilità come orizzonte escatologico è da cogliere il significato «sconvolgente» e inquietante di questo termine per la coscienza biblica: non la responsabilità per il proprio essere di bisogno ma per il bisogno di colui che è altro dall'io; non la cura per l'io e la «sua casa» ma la cura per il «povero», l'«orfano», la «vedova» che chiedono e sottraggono all'io la sua «casa»; non il compimento del proprio arco desiderativo e progettuale ma la sua messa in discussione di fronte al volto e alla richiesta dell'altro. Si tratta di un «capovolgimento» dell'umano, se per umano si intende il cammino dell'io verso il suo compimento; si tratta di un cammino dis-umano, come ripete spesso E. Lévinas, se per umano si intende la circumnavigazione dell'io intorno al suo io: «L'umanità dell'umano non risiede forse nel carattere apparentemente contro-natura della relazione etica con l'altro uomo, non è forse la crisi stessa dell'essere in quanto essere?». [9]
    Ma, paradosso tra tutti i paradossi, è in questo capovolgimento che si rivela, per la Bibbia, il vero umano; è in questa sua «disumanizzazione» che l'io, collocando al posto di sé l'altro, lungi dal sentirsi mortificato, accede a una nuova umanità come a nuova identità: quella dell'eletto, di colui che Dio sceglie come partner per affidargli l'altro. L'orizzonte dischiuso dall'aldilà biblico - o escaton - è l'orizzonte di questa responsabilità radicale dove l'io si vive non più come essere di bisogno di cui il proprio sé è motore e fine, ma come il chiamato irremissibilmente ad amare, come colui che nelle sue «mani» ha l'amore di Dio per l'altro; ricorrendo alla celebre immagine di Benjamin: come la «piccola porta» la quale apre o chiude al messia che redime.
    Se la dimensione ultima, cioè escatologica, dell'uomo è la responsabilità radicale, ne consegue che l'escatologia biblica segna la fine irreversibile della storia come tesa al fine: la concezione che, per legge interna, essa tende a un futuro dove l'uomo, finalmente disalienato, entra, come sognava Bloch, nella patria. In realtà l'escatologia biblica, lungi dall'istituire nell'io la tensione verso il non ancora, il futuro o l'utopia (questo è vero a livello di psichismo) ne costituisce la radicale messa in questione: per la Bibbia, infatti, la metafora dell'orizzonte dischiuso dall'esca- ton non è il movimento dell'io in avanti, verso il non ancora (il futuro o l'utopia), bensì il bivio che del movimento è l'interruzione per instaurare, al suo posto, la decisione che, come vuole il suo etimo, è «taglio» con ciò che precede e risposta al «qui» e «ora» del presente. Con questo l'escatologia biblica non cancella l'utopia ma la rifonda: non più su un tempo lontano da venire oppure da instaurare con l'atto rivoluzionario, ma sulla irriducibile singolarità dell'io alla cui indeclinabile responsabilità è affidato il mondo.

    L'aldilà biblico tra la storia e la metastoria

    Parlando di aldilà se ne è parlato, finora, come aldilà dell'aldiqua e non nel senso del dopo morte. La cosa può apparire tanto più sorprendente quanto più, nel linguaggio più comune, l'aldilà è sinonimo tout court del dopo morte.
    A ben riflettere, però, la prospettiva sviluppata in queste pagine non cancella il discorso del dopo morte, ma offre una diversa prospettiva per parlarne e coglierne la portata.
    Per la Bibbia il senso primo e più importante dell'aldilà, sia dal punto di vista storico che teologico, è l'amore di Dio che inabita il mondo e lo dona gratuitamente, chiamando a fare altrettanto; ed è all'interno di questo aldilà che si sviluppa, successivamente, una seconda accezione come vita del dopo morte. A proposito non va mai dimenticato che i salmi pregati dagli oranti biblici per centinaia di anni non contengono l'idea dell'aldilà (che, come è stato ricordato, risale all'epoca maccabaica e ad alcuni decenni prima dell'avvento dell'era cristiana); come pure non va mai dimenticato che né Abramo, il padre della fede per antonomasia, né i narratori dell'evento esodico, l'esperienza fondativa della fede ebraica, hanno l'idea dell'aldilà. E secondo gli studiosi, a differenza delle culture coeve con le quali è entrato in contatto, Israele non testimonia alcun interesse per l'aldilà: «Di contro a quanto accade per l'Egitto, l'Anatolia, la Mesopotamia e Ugarit, nell'ambito dell'Antico Testamento non si trovano testi che concernono esclusivamente l'Aldilà, i suoi abitanti o le condizioni che vi sussistono. In rapporto ad altre documentazioni vicino-orientali antiche, la Bibbia ebraica non sa né di un altro mondo concepito in senso spaziale - in analogia con i territori soggetti alle città stato - né di forze "numinose" di divinità che vi dimorino o vi regnino».[10]
    Bisogna lasciarsi provocare fino in fondo dal paradosso di questo fatto e non affrettarsi a difender-sene troppo rapidamente dicendo che, rispetto alle Scritture ebraiche, le Scritture cristiane costituiscono una sostanziale evoluzione e guadagno: perché se è vero che queste testimoniano della nuova accezione dell'aldilà come vita dopo morte, è altrettanto vero che è a partire dalla prima accezione che questa si fa comprensiva.
    Si è affermato che, per la Bibbia, l'aldilà delle cose è l'amore esigente o vocazione all'amore che le sottende. C'è ora da aggiungere che è proprio questo amore il segreto che, per Israele, spiega la riuscita o il fallimento del mondo, come pure la propria stessa felicità o insuccesso, «segreto» che la teologia deuteronomistica traduce nel noto principio secondo il quale: «chi fa il bene avrà il bene», mentre: «chi fa il male avrà il male».
    L'esperienza originaria d'Israele sedimentatasi nella maggior parte dei suoi testi è l'esperienza di un Dio che, a chi accoglie il suo amore, accettando di ridonarlo, promette di diventare «come albero piantato lungo corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opere» (Sal 1,3); mentre chi si nega al suo amore sarà «come pula che il vento disperde» (v. 4).
    L'idea dell'aldilà come dopo morte matura, in Israele, entro questo contesto di promessa mancata: se al «giusto», cioè a colui che accoglie e ridona il suo amore, Dio ha promesso felicità e benessere, perché di fatto questo non avviene quasi mai? E perché la storia quasi sempre smentisce categoricamente ciò che Dio ha promesso incondizionatamente?
    È di fronte a questa terribile domanda che Israele, nell'epoca maccabaica, quando molti sono tentati di apostasia mentre altri muoiono martiri per non abbandonare la fede dei padri, accede all'idea dell'aldilà come vita del dopo morte: «Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Dn 12,2).
    Si tratta di un'idea dell'aldilà che non nasce entro l'orizzonte del desiderio (non rassegnarsi a una vita «finita») e neppure si alimenta della «sete d'infinito» del cuore umano, secondo la dizione tipica della tradizione cristiana, ma dentro l'orizzonte della fedeltà di Dio alla sua promessa («se farai il bene avrai il bene») e come risposta al problema della giustizia di Dio: se Dio ha promesso felicità ai suoi giusti e questi non l'ottengono sul piano della storia, ci dovrà essere allora uno spazio non più empirico ma metastorico dove finalmente i giusti vedranno ristabilito questo nesso.
    Questa esperienza di un aldilà come vita dopo morte, dove i giusti risorgeranno e rivivranno, non è un diverso aldilà rispetto a quello di cui si è parlato nelle pagine precedenti, ma la sua radicalizzazione fino alle estreme conseguenze: credere e abbandonarsi all'amore di quel Dio che, ai giusti, ha promesso e promette la pienezza della vita.


    NOTE

    [1] L'anticristo, Mursia, Milano 1982, pp. 100-101.
    [2] L'essenza del cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1960, pp. 218s.
    [3] A RIZZI, Crisi e ricostruzione della morale, SEI, Torino 1992, p. 6.
    [4] J. HILLMAN, Anima mundi. Il ritorno dell'anima al mondo, in «Testimonianze» 238-240/1981, p. 130.
    [5] Testo citato in H. KÜNG, Ebraismo, Rizzoli, Milano 1993, p. 47.
    [6] H. Jonas è scomparso nel mese di febbraio del 1993 all'età di 90 anni; oltre che per il Principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica (Einaudi 1990, originale tedesco 1979), è celebre per diversi scritti sullo gnosticismo, del quale ha dato una interpretazione nuova, successivamente raccolti in un unico libro: Lo gnosticismo (SEI, Torino 1991, originale inglese del 1972).
    [7] Cf V. GROSSMANN , Vita e destino, Jaca Book, Milano 1984, p. 407. Cf pure il mio Pane e Perdono. L'Eucaristia celebrazione della solidarietà, Elle Di Ci, Leumann (TO) 1992, pp. 85-86.
    [8] In La Repubblica, 4 aprile 1992, p. 20.
    [9] E. LÉVINAS, Fuori dal soggetto, Marietti, Genova 1992, p. 45.
    [10] Th. Podella, cit. da D. GARRONE, Dallo sheol alla Gerusalemme celeste. Morte e vita eterna secondo la Bibbia ebraica, in AA. VV., L'aldilà nella Bibbia. Atti del Convegno nazionale, Biblia, Firenze 1992, pp. 11-12


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