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    Introduzione a: Il futuro dell'uomo nel futuro di Dio


    Carmine Di Sante, IL FUTURO DELL'UOMO NEL FUTURO DI DIO. Ripensare l'escatologia, Elledici 1994

     


    L'escatologia
    non è tanto la tensione verso l'aldilà
    quanto piuttosto l'attenzione verso l'aldiqua
    cogliendone
    - nella riconoscenza e nella responsabilità -
    la logica di gratuità e di senso
    che in ogni attimo l'aldilà vi iscrive.


    Il futuro

    Più che il presente, l'uomo abita il passato o il futuro, sospeso, quasi per costituzione ontologica e psicologica, su una soglia che da un lato si apre sull'abisso di ciò che è stato, dall'altro su quello di ciò che sarà.
    Se è stata la grecità (e, insieme con la grecità, la maggior parte delle culture organicistiche) a fare dell'uomo l'abitatore del passato, è stata ed è soprattutto la tradizione ebraico-cristiana, quasi unica tra tutte, a farne l'abitatore del futuro, di «cieli nuovi» e «terre nuove» ancora da esplorare.
    Tra le sue tante pagine, come esemplare, si può scegliere questa di Isaia:

    Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.
    Come il fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. (...)
    Dite agli smarriti di cuore:
    «Coraggio! Non temete;
    ecco il vostro Dio,
    giunge la vendetta,
    la ricompensa divina.
    Egli viene a salvarvi».
    Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
    e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
    Allora lo zoppo salterà come un cervo,
    griderà di gioia la lingua del muto,
    perché scaturiranno acque nel deserto,
    scorreranno torrenti nella steppa.
    La terra bruciata diventerà una palude,
    il luogo riarso si muterà in sorgenti d'acqua.
    I luoghi dove si sdraiavano gli sciacalli
    diventeranno canneti e giuncaie.
    Ci sarà una strada appianata
    e la chiameranno Via Santa;
    nessun impuro la percorrerà
    e gli stolti non vi si aggireranno.
    Non ci sarà più il leone,
    nessuna bestia feroce la percorrerà,
    vi cammineranno i redenti.
    (...)
    Felicità perenne splenderà sul loro capo;
    gioia e felicità li seguiranno
    E fuggiranno tristezza e pianto (Is 35,1-10).

    Secondo gli esegeti, il futuro qui annunciato coincide con la fine dell'esilio babilonese (editto di Ciro del 538 a. C.) e con il rimpatrio degli esuli a Gerusalemme, pieni di una gioia paragonabile a quella del cieco che ricupera la vista o dello zoppo che riprende a camminare. A questa gioia partecipa la stessa natura inanimata («la terra bruciata diventerà una palude / il luogo riarso si muterà in sorgenti di acqua...») e la stessa natura animata («non ci sarà più il leone / nessuna bestia feroce...»), in uno scenario di felicità inesprimibile dove «fuggiranno tristezza e pianto» per sempre.

    Un'idea rivoluzionaria

    Al di là del livello storicamente determinato, nella coscienza e nella tradizione di Israele questo brano si riveste di un significato più profondo e universale: perché nel futuro in esso annunciato non viene più vista solo la fine dell'esilio babilonese, bensì la fine di ogni altra forma di «esilio» che Israele - e l'umanità che Israele rappresenta - vivrà dentro e fuori la sua patria. Il futuro intravisto dai profeti diventa, così, il futuro di una umanità segnata dalla fine di ogni negatività e dalla instaurazione di ogni positività.
    L'idea di un futuro totalmente positivo, dove «tutte le lacrime saranno asciugate», all'apparenza può sembrare banale, essendo, per la maggior parte, impensabile un'esistenza storica e collettiva che non sia tesa al futuro come alla patria del senso. In realtà si tratta di un'idea rivoluzionaria, che non si riscontra al di fuori della tradizione biblico-ebraica.
    Gli studiosi ci informano, infatti, che la concezione del tempo prevalente presso le culure extrabibliche è ciclica e non lineare e che lo sguardo di chi le abita non è teso al futuro ma rivolto al passato. Per culture come queste, la «patria del senso», l'orizzonte spirituale e mentale da custodire e tramandare, non è il futuro, il non-ancora da-venire, ma il passato, il già-dato-per-sempre dal volere degli dèi. Per questo, mentre l'atteggiamento interiore dell'uomo biblico si sostanzia di attesa e di speranza, quello dell'uomo extrabiblico è fatto di obbedienza e fedeltà ai modelli che il mito racconta e il rito attualizza.
    Ma la differenza più profonda tra le due concezioni va colta soprattutto nel modo di porsi di fronte al male: ineliminabile e intrascendibile per le culture extrabibliche o mitiche, perché momento costitutivo e ricostitutivo di ogni realtà; superabile ed eliminabile per la coscienza biblica, perché radicalmente estraneo alla volontà originaria creatrice. È proprio qui, di fronte al male, che si coglie il senso radicale del futuro dischiuso dalla testualità biblica nella coscienza umana: trasposizione, entro la struttura e il linguaggio temporale, della possibilità di un'esistenza umana non più dominata dalla presenza del male, un'esistenza «sette volte» buona, come vuole il racconto della creazione biblica.

    Quale futuro?

    Nessuna categoria, però, come questa del futuro, si è prestata e si presta a equivoci: perché nessuna nozione come il tempo, nell'ambito psicologico e filosofico, è così difficile da definire e da articolare nel suo triplice momento di passato, presente e futuro; ma soprattutto perché - se il futuro è il futuro liberato dalla negatività del male - nessuno sa in assoluto quale sia questo male, cancellato il quale l'esistenza umana si scopre felice e disalienata.
    La modernità (ovvero il pensiero occidentale sviluppatosi in Europa dal 1600 in poi) ha individuato la negatività per eccellenza nella dipendenza del soggetto umano dall'autorità esterna che, asservendolo e sottraendogli l'autonomia, lo ha alienato mantenendolo per millenni nel regno della «minorità».[1] Per la modernità il futuro dell'uomo è, pertanto, il futuro della libertà, dove il soggetto umano, riappropriandosi dell'autonomia e sottraendosi alle dipendenze dalla natura e dal divino (e dalle forze storiche che le garantiscono e che sono soprattutto le tradizioni religiose e mitiche con le loro autorità costituite e i loro simboli suggestivi), sarà capace di costruire finalmente un mondo ordinato e felice, in grado di debellare la sofferenza, l'ignoranza e la violenza.
    A differenza della modernità, la grecità, nel filone soprattutto platonico e plotinico passato alla cristianità, individua l'origine del male in un radicale estraniamento tra l'uomo e il mondo e, dentro l'uomo, tra il suo corpo e la sua anima, in una scissione o dualismo insanabile, responsabile della sofferenza e della alienazione umana. Entro questo quadro di precomprensione, il futuro dell'uomo è il futuro «mistico», intendendolo come liberazione del soggetto umano dalla corporeità e dalla storicità, e come suo ricongiungimento con il divino, sua patria d'origine e appagamento.
    Abbiamo accennato a queste due diverse concezioni del «futuro» - non le uniche ma tra le più comuni e importanti sedimentatesi nell'immaginario occidentale - per mostrare come la categoria del futuro dischiuso dalla tradizione ebraico-cristiana, se per un verso è affascinante e produttrice di utopia, dall'altro è così complessa e polivalente che, come nessun'altra, richiede di essere «demitizzata»: cioè pensata e interpretata.

    Cos'è l'escatologia

    La tradizione cristiana, nel suo sforzo di riflessione, ha conosciuto e conosce un trattato consacrato al futuro dell'uomo e della sua storia: l'escatologia. Si tratta di una parola composta da éscatos (che vuol dire ultimo) e lógos (che vuol dire discorso), in cui, come indica il termine, viene affrontato ciò che è ultimo, finale, definitivo, assoluto e intrascendibile: la realtà «ultima», appunto, o le realtà «ultime», oltre le quali non c'è più nulla da attendere, e raggiungendo le quali l'uomo raggiunge la sua meta ed entra nella sua «patria», disalienato e in possesso della sua piena identità.
    Nei trattati classici le ultime realtà venivano ricondotte a quattro: la morte, il giudizio, l'inferno e il paradiso. A queste andava aggiunta una quinta che, fino al Concilio Ecumenico Vaticano II, ha segnato in maniera indelebile la pietà e la pratica liturgica popolare: il purgatorio, un luogo di purificazione in cui, dopo la morte, le anime destinate al paradiso trascorrevano un periodo di tempo per «purgarsi» - di qui il nome di «purgatorio» - dalle ultime tracce di peccato che ostacolavano la visione divina.
    Ma per motivi diversi, il trattato sull'escatologia era diventato, in teologia, un trattato «cenerentola», collocato al termine di tutti gli altri, come se, parlando delle «realtà ultime», se ne dovesse parlare necessariamente per ultimo. E, cosa ancora più grave, i suoi contenuti incutevano a volte paura, soprattutto per l'uso strumentale che ne veniva fatto nel campo della predicazione, della catechesi e della formazione spirituale. Chi scrive ricorda ancora - anche se con distacco divertito - storie drammatiche meditate in gioventù di «povere» anime che, per un pensiero impuro acconsentito o per un atto di orgoglio segretamente coltivato, si ritrovavano all'improvviso nel fuoco dell'inferno o per migliaia o milioni di anni nelle fiamme del purgatorio.
    È stato merito del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) avere ricuperato lo spessore escatologico della totalità della fede cristiana, per cui il discorso escatologico - cioè l'ultimale - non si colloca al termine della vita del credente ma nel cuore di ogni suo giorno e di ogni sua notte; e, per quanto riguarda l'ambito teologico, non va confinato in un trattato a parte ma è dimensione irrinunciabile anche di ogni altro, da quello cristologico a quello soteriologico, ecclesiologico, liturgico, ecc.

    Ripensare l'escatologia

    Nonostante, però, il ricupero del Vaticano II (che, nella Costituzione sulla Chiesa intitolata La luce delle genti, consacra il settimo capitolo all'indole escatologica della Chiesa pellegrinante e sua unione con la Chiesa celeste), il discorso escatologico resta ancora difficile e insufficiente, non solo sul piano della predicazione e della catechesi - dove molti ne denunciano la scarsa presenza - ma soprattutto su quello della riflessione teologica. E se è vero che, nella grande crisi che attraversa questo scorcio di fine millennio, tutta la teologia ha bisogno di essere ripensata alla luce del dato biblico e delle nuove istanze epocali, questo vale soprattutto per il discorso escatologico i cui nodi problematici sono così numerosi e complessi da sembrare impossibile riuscire a dipanarli.
    Le ragioni che hanno prodotto e producono questi nodi sono più di una; comunque, possono ricondursi soprattutto a due.
    La prima è il tipo di linguaggio «mitologico» - più «mitologico» di ogni altro linguaggio teologico - con il quale la Bibbia, dall'Antico Testamento al Nuovo, e la tradizione cristiana, dai padri della Chiesa fino ai predicatori del preconcilio, hanno costruito, pensato e tramandato l'escatologia. Si legga, ad esempio, questo brano del cosiddetto discorso escatologico matteano: «Subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, gli astri cadranno dal cielo e le potenze del cielo saranno sconvolte. Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell'uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il figlio dell'uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli con una grande tromba e raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all'altro dei cieli» (Mt 24,29-31).
    Linguaggi come questi corrono il rischio di essere presi alla lettera, oppure di essere ritenuti fantasie bizzarre o letterarie, prive di contenuto rilevante.
    Altra sarà la linea che il lettore troverà nelle pagine che seguiranno: non l'adesione alla lettera e neppure il suo rifiuto, bensì l'ascolto del messaggio che l'inabita e la sua ritrascrizione a livello di ragione obbediente: la ragione che non fonda il senso ma l'accoglie come dono e come compito.
    Ma il motivo più profondo che rende necessario il ripensamento del discorso escatologico della Bibbia è l'orizzonte greco del desiderio (in greco eros) dal quale è stato «catturato» e dentro il quale i suoi già difficili fili simbolici e concettuali, invece di sciogliersi, sono finiti per farsi ancora più intricati.
    Lo sforzo delle pagine che seguiranno sarà teso soprattutto a sottrarre il discorso escatologico all'orizzonte del desiderio per riconsegnarlo all'orizzonte biblico della giustizia o dell'amore di alterità: l'orizzonte escatologico - ultimale - mai trascendibile perché è lo stesso orizzonte del divino.
    Dopo il primo capitolo, dedicato ad alcuni aspetti storici ed ermeneutici dell'escatologia, e dopo il secondo, consacrato ad individuare il tratto dominante dell'escatologia tradizionale pensata dentro la logica del desiderio e della teleologia, si abbozzerà, nel terzo, il senso dell'escatologia biblica per la quale l'escaton, l'ultimale, non è il fine verso il quale l'uomo tende spontaneamente o vi è attratto, ma l'imperativo assoluto e incondizionato dell'Amore che dischiude alla coscienza umana l'orizzonte della giustizia e della pace.
    I rimanenti quattro capitoli saranno consacrati rispettivamente ai cosiddetti «novissimi» della morte, del giudizio, dell'inferno e del paradiso. In essi verrà ripresa e reinterpretata ognuna di queste quattro realtà mostrando come l'escaton - ciò che per la Bibbia è l'assolutamente e il definitivamente ultimo - non è il dopo che segue alla vita terrena e all'esistenza storica, bensì il nuovo principio che in esse si dischiude: quello dell'amore come agape (o come amore di alterità), lo stesso amore del Dio creatore e, nel Cristo morto e risorto, redentore.

    Urgenza di questo ripensamento

    Il ripensamento dell'escatologia biblica tentato in queste pagine ha - e vuole avere - un carattere militante: non esercizio di erudizione e di curiosità bensì testimonianza di passione e di fedeltà a un duplice convincimento: 1) che la parola ultima e radicale della tradizione ebraico-cristiana - l'escaton appunto - è parola di salvezza per questa vita e per questa storia, e che ogni prospettiva per l'aldilà inteso in senso metastorico va compresa a partire dall'aldiqua; 2) che mai come oggi questa parola ultima e radicale custodita dalla Bibbia (l'amore di Dio creatore e ricreatore di fiducia e di responsabilità) ha uno spessore epocale, come contributo irrinunciabile per uscire dalla crisi in atto della modernità.
    Recentemente il premio Nobel Rita Levi Montalcini si è fatta promotrice di una Magna Charta dei Doveri dell'uomo da integrare con quella dei Diritti del 1789 come risposta alle tre grandi sfide epocali che per la prima volta l'umanità si trova a fronteggiare: la salvaguardia del pianeta, minacciato dall'inquinamento, dall'uso indiscriminato delle risorse e dalla sovrappopolazione; l'instaurazione della pace, minacciata dall'abisso di ingiustizia tra paesi ricchi e paesi poveri; infine un nuovo patto tra le generazioni che al conflitto sappia sostituire l'impegno e la responsabilità nei confronti di coloro che devono ancora nascere.[2]
    Chi scrive è convinto che queste tre minacce (la possibile fine del pianeta, la guerra tra ricchi e poveri e la marginalizzazione dei giovani privati del futuro e della speranza) non sono esagerazioni di menti esaltate ma il rischio oggettivo che l'uomo moderno corre di cancellare dalla terra e dalla storia la sua presenza e la sua memoria. Ma ancor più è convinto che in questa terra e in questa storia si custodisce un Senso ultimo e radicale - un escaton - di cui narra la tradizione ebraico-cristiana, un Senso che instancabilmente e indistintamente «in-quieta» e chiama quanti l'abitano alla responsabilità indeclinabile: «Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
    Le pagine che seguono vogliono essere echi di questa voce, di questo escaton che «bussa» e «invita a cena» chi l'ascolta, nella consapevolezza che, in compagnia di questa misteriosa Presenza la cui potenza è la Parola, nel cuore rinasce il futuro e si riaccende la speranza, come ai discepoli di Emmaus incontrati dal Risorto.
    La tradizione vuole che i due discepoli di Emmaus fossero dei giovani.
    L'augurio di chi scrive è che anche queste pagine - che fanno parte di una collana per giovani e che proprio a loro vogliono essere dedicate - contribuiscano a ridischiudere in chi le legge l'orizzonte del futuro come novità radicale: non la riedizione di ciò che è già stato ma l'avvento (che in latino vuol dire «arrivo») o parusia (che in greco vuol dire «avvicinamento») di ciò che è totalmente altro, perché al di là della storia e dell'orizzonte umano.


    NOTE

    [1] Si ricordi la celebre definizione kantiana dell'illuminismo come «uscita dallo stato di minorità» (I. KANT, Che cos'è illuminismo?, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1987).
    [2] Il grande filosofo recentemente scomparso, H. Jonas, rilegge il biblico «ama il prossimo tuo come te stesso» includendovi coloro che dovranno nascere, nei cui confronti sentirsi responsabili per consegnare loro un mondo ancora abitabile.


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