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    La realizzazione della solidarietà (cap. 5 di: Pane e perdono)


    Carmine Di Sante, PANE E PERDONO. L'Eucaristia celebrazione della solidarietà, Elledici 1992
     

    ll simbolismo del «pane» 

    Se la prima parte della Messa è tutta incentrata sulla Parola di Dio, simbolicamente oggettivata nell'ambone o leggio, il luogo dove essa viene proclamata, la seconda parte è tutta concentrata sul «pane» e sul «vino» disposti sulla mensa - e solo impropriamente denominata altare - sui quali il sacerdote, a nome della comunità celebrante, pronunzia la preghiera eucaristica e dei quali i singoli partecipanti si nutrono sacramentalmente.
    Triplice è, per la coscienza ecclesiale, il significato simbolico di questo «pane» e di questo «vino» disposti sull'altare e oggetto della preghiera eucaristica: il primo, più strettamente teologico, sarà sviluppato nel presente capitolo; del secondo più specificamente cristologico, si parlerà nel successivo; il terzo, infine, prevalentemente ecclesiologico, si svilupperà nell'ultimo. Da notare comunque che questi tre aspetti vanno considerati strettamente correlati, l'uno rendendo possibile l'altro e l'uno derivando la sua luce di comprensione dall'altro.
    A livello teologico, il più importante e fondativo degli altri, il «pane» e il «vino» rappresentano l'intera gamma delle realtà mondane e umane. Se si volesse ulteriormente approfondire il significato di questo simbolismo rappresentativo, si dovrebbero almeno sottolineare tre significati complementari.
    Il primo si riferisce all'esistenza di tutti i beni materiali e terrestri indispensabili alla vita dell'uomo, essere di bisogno. Il pane posto sull'altare (che dovrebbe essere vero pane e non ostia trasparente invisibile e, come pane, spesso irriconoscibile!) sta al posto di tutti i beni, da quelli per il nutrimento a quelli per la protezione e la salute, senza i quali l'uomo, essere di bisogno, non potrebbe vivere o sarebbe condannato a una vita di «povertà», fatta di privazione e di stenti.

    Il simbolismo del «pane» e del «vino» 

    Ma oltre che del «pane» il simbolismo si compone anche del «vino» che al precedente aggiunge un significato ulteriore, sia di estensione che di approfondimento. Il vino, a differenza del pane, non appartiene all'ordine della necessità e, come vuole il Salmo 104,15, nelle culture apparse intorno al Mediterraneo, è il simbolo per eccellenza della felicità e della gratuità. Il simbolismo del vino completa e specifica pertanto il precedente: sulla mensa non ci sono solo i beni necessari all'esistenza umana ma anche i beni qualitativi, quelli che, oltre a nutrire il corpo, gli procurano gioia e felicità, oltre ad essere «materiali» sono «culturali».
    I beni «culturali», nell'accezione di beni «artistici», «urbanistici», «letterari», «scientifici», «teoretici», «teologici» o «spirituali», ecc., non sono «secondari» o «artificiali» ma essi stessi «necessari» all'esistenza umana che, come ci insegna l'antropologia culturale, si fa veramente tale solo entro un orizzonte che trascende il funzionale e istituisce il qualitativo e il gratuito: una casa che, oltre a riparare, è bella; un cibo che, oltre a nutrire, è buono; un vestito che, oltre a proteggere, è elegante; un coltello che, oltre a tagliare, è adornato, ecc. Il «pane» e il «vino» rappresentano pertanto non solo l'insieme dei beni della terra ma, contemporaneamente e indissociabilmente, l'insieme della cultura umana, dal linguaggio all'arte, che sola costituisce il vero spazio abitabile dell'esistenza umana.
    Infine - e siamo al terzo livello di significato irrinunciabile - essendo la cultura un «manufatto», frutto della immensa elaborazione umana, nel simbolismo del pane e del vino, oltre ai beni della terra e ai prodotti culturali, c'è inclusa, necessariamente, tutta la storia del lavoro umano, l'immane sforzo, dalla tecnica alla scienza, dall'aratro al computer, con cui l'uomo adegua il mondo ai suoi bisogni.
    Il «pane» e il «vino» posti sull'altare rappresentano, pertanto, la totalità della storia umana: l'insieme della natura e della cultura e delle strategie di trasformazione - il lavoro umano - che permettono il connubio tra l'una e l'altra. Disposti sull'altare, cioè sulla mensa, essi condensano, nell'immediatezza di un frammento e di un istante, l'intero tracciato della storia umana che, come insegna l'esperienza, è storia di lotta contro la duplice violenza proveniente dalla penuria della natura e dall'aggressività dei propri simili.

    Perché il «pane» e il «vino» vengono «posti» sull'altare? 

    Si diceva (e spesso ancora oggi si dice, nonostante l'avvenuta riforma liturgica) che il «pane» e il «vino» vengono portati sull'altare per essere «offerti» a Dio. Per questa ragione, prima del Vaticano II, questa parte della Messa in cui le offerte venivano portate sull'altare veniva chiamata «offertorio», cioè il momento dell'«offerta» a Dio.
    La riforma voluta dal Concilio ha eliminato, nonostante alcune incertezze, questa terminologia e, invece che «offertorio», chiama questa parte della Messa, «preparazione delle offerte» o, con un linguaggio meno funzionale e più teologico, «presentazione» del «pane» e del «vino» a Dio, e il suo significato viene esplicitato attraverso due brevi testi eucologici che l'accompagnano: «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell'uomo; lo presentiamo a te perché diventi per noi cibo di vita eterna»; «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo vino, frutto della vite e del lavoro dell'uomo; lo presentiamo a te perché diventi per noi bevanda di salvezza».
    Portare sulla mensa il «pane» e il «vino» e presentarli a Dio, più che di offerta è un gesto di «proposizione», la «messa in scena» del loro senso - nella triplice accezione di natura, cultura e lavoro umano - che ne svela la dimensione ulteriore e nascosta: il loro essere oggettivazione, cioè materializzazione o incarnazione, della bontà divina: «dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane», «dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo vino». Presentare a Dio - meglio sarebbe dire al cospetto di Dio – il «pane» e il «vino» non vuol dire offrirgli qualcosa, non essendo possibile offrirgli alcunché essendo già tutto suo, ma riconoscere, di quel ri-conoscimento che è seconda conoscenza, che essi appartengono non all'uomo o al gruppo che ne dispone, ma a Dio e che alla loro origine c'è una bontà che, mentre li esige, li trascende. Si tratta di un ri-conoscimento non formale ma che è veramente «nuovo» sapere e «nuova» conoscenza, dischiudendo una nuova modalità di rapporto con essi.
    Da notare che questo gesto - la «proposizione» o «messa» di fronte a Dio del «pane» e del «vino» - è forse il gesto religioso più antico e originario, noto come «offerta delle primizie», non solo biblico ma anche extrabiblico. Anche se nella Bibbia ha trovato un suo dispiegamento e una sua rilettura peculiare, questo gesto più che una festa particolare è il tratto comune di tutte le grandi feste dei popoli antichi e di Israele: non soltanto di pentecoste ma anche di pasqua e dei tabernacoli.

    Il «pane» e il «vino» simboleggiano il mondo come dono 

    Se si vuole comprendere, con rigore concettuale, il senso della «proposizione del pane e del vino» sull'altare, è necessario riprendere e analizzare la formula di benedizione la quale, secondo la tradizione ebraica, va premessa a qualsiasi atto fruitivo: mangiare, bere, guardare, leggere, ecc. Con una preghiera così semplice («benedetto sei tu Signore, Dio nostro, re dell'universo, che estrai il pane dalla terra») l'orante instaura una rottura epistemologica reale, dischiudendo una nuova visione o sapere che, a livello riflessivo, può essere pensato e approfondito attraverso l'articolazione e l'analisi di tre operazioni principali.
    La prima è quella dello spossessamento o della disappropriazione in quanto la benedizione sottrae il pane - cioè i beni della terra di cui quest'ultimo è il simbolo come parte del tutto - al soggetto fruitore che se ne serve. Proclamando Dio come «colui che estrae il pane dalla terra», la benedizione sottrae il pane all'appropriazione del soggetto umano, il quale, sia esso il contadino che lo semina, l'operaio che lo raccoglie, l'artigiano che lo macina, la massaia che lo impasta, l'affamato che lo mangia o il mercante che lo vende, ecc., non può rivendicare su di esso il diritto di proprietà, la pretesa del «questo è mio». Ma se l'uomo, come si è analizzato, è quell'essere che per «essere» ha bisogno del mondo da incorporare, ne consegue che la benedizione è la messa in crisi dell'io come movimento teso al possesso del mondo: non la sua negazione - restando l'uomo sempre un essere di bisogno - ma la sua sospensione e la sua ridefinizione. Per la benedizione al centro del reale risuona una voce che, all'uomo essere di bisogno in cerca dell'autocompimento, non dice: «prendimi» e «fruiscimi» ma: «alt, questo non è tuo, tu non puoi possedermi».
    La seconda operazione compiuta dalla benedizione è il riconoscimento, in Dio, del vero «proprietario» del pane; se essa, infatti, sottrae il pane alla volontà di possesso dell'uomo, essere di bisogno, non è per abbandonarlo a se stesso come pane di nessuno, ma per proclamare che di esso solo Dio può dirsi proprietario per diritto, essendo colui che, al di là delle apparenze e in verità, «lo estrae dalla terra». Con questa espressione l'orante non ignora la realtà fattuale (per la quale il pane è e può essere solo dal lavoro dell'uomo, da chi lo prepara con la semina a chi lo raccoglie, lo macina, lo cuoce, lo vende, ecc.), ma la «sfonda» penetrando al di là di essa e cogliendovi oltre e sotto un «di più»: il senso oggettivo non posto dalla volontà dell'uomo ma «im-posto» ad essa e che, lungi dall'essere posseduto, chiede docilità e obbedienza. Per la benedizione al cuore del pane, cioè del reale del quale l'uomo dispone, c'è un «di più» che è oltre il bisogno e oltre l'appropriazione e di fronte al quale il soggetto si scopre non più essere solo di bisogno ma essere responsabile.
    Infine, con la sua terza operazione, la benedizione definisce la vera destinazione del «pane» che è l'uomo in quanto «povero», in quanto essere di bisogno. Se essa sottrae il pane all'uomo e lo attribuisce a Dio, non è per destinarlo a Dio ma all'uomo, perché, vero paradosso, solo essendo di Dio e non dell'uomo esso può essere fino in fondo per l'uomo, per il suo bisogno e per la sua gioia.
    Il «pane» non è dell'uomo, è di Dio, ma per l'uomo. Ma che cosa è quella «realtà» che, non essendo dell'io, è per l'io pur essendo di un altro? Non è essa la realtà del dono il quale si definisce per il fatto che il soggetto fruitore (si pensi a un orologio regalato) non è né può esserne proprietario essendoci in esso un di più - il di più della bontà di chi l'ha donato - che è oltre il bisogno e oltre l'appropriazione e che si offre solo al riconoscimento e all'imitazione?.[1]

    Cos'è il dono? 

    La preghiera di benedizione e la celebrazione eucaristica con il duplice simbolo del pane e del vino esprimono un'esperienza o sentimento del mondo come dono, intendendo quest'ultimo non in senso metaforico, allo stesso modo che, per esempio, si dice che la natura fa dono all'uomo dei suoi frutti, ma personale e ontologico, che va esplicitato attraverso due approfondimenti correlati.
    Innanzitutto attraverso la sua destinazione. Il dono, in primo luogo e costitutivamente, è definito dal bisogno o desiderio dell'altro, perché un dono definito dal bisogno o desiderio del donatore sarebbe una palese contraddizione. Se il mondo, simbolizzato dalla «messa in scena» del «pane» e del «vino», viene proclamato e riconosciuto nell'azione liturgica come dono, ciò vuol dire che esso, ab intus, è definito dal bisogno o desiderio dell'uomo e non dalla perfezione o bellezza di Dio. Da questa affermazione consegue che il mondo, in quanto dono, è un mondo fatto per l'uomo e adeguato al suo bisogno, pertanto un mondo buono dove egli può e deve sentirsi a casa.
    Non c'è chi non veda quanto questo aspetto sia importante per superare quella tentazione così comune - quasi una stregatura dello spirito! - che porta a sentire le cose del mondo come inadeguate e insufficienti al bisogno umano e spinge ad andare sempre oltre e avanti, in una inutile e illusoria ricerca di un «di più» irraggiungibile perché inesistente. Affermare, nell'atto liturgico della celebrazione eucaristica, le cose come dono, è affermare, sia contro la tentazione gnostica che vorrebbe fare di questo mondo un carcere, sia contro la tentazione apocalittica, che ne vorrebbe fare un luogo solo di male in attesa di redenzione dall'alto, l'originaria «nuzialità erotica» tra l'uomo e la terra.
    In secondo luogo il dono è definito rispetto alla sua provenienza, incarnandosi in esso una bontà che rimane altra ed è extra sia rispetto al soggetto fruitore che all'oggetto fruito. Nella macchinina regalata al bambino c'è infatti iscritta una intenzionalità - la benevolenza di colui che la dona - che è altra cosa sia dal bambino che ne gode che dall'oggetto regalato. Disporre sull'altare il «pane» e il «vino» è affermare il mondo come dono e, affermando il mondo come dono, affermare, in esso, la presenza dell'amore di Dio che lo costituisce come mondo buono, non perché buono in sé, né perché buono casualmente, ma perché proveniente da questa bontà personale che lo sottende.
    La rivelazione di Dio si gioca proprio entro questo orizzonte di gratuità oggettivata, simbolicamente, nella «messa» sull'altare del «pane» e del «vino»: non la gratuità del superfluo ma la gratuità del necessario, quella del «pane» e del «vino», cioè di tutti i mezzi necessari alla sussistenza e all'esistenza (cf Dt 8,7-20). La celebrazione della Messa, con il suo simbolismo del pane e del vino, svela, sotto e dentro le cose, questa bontà divina che le dona e che, nel gesto sacramentale del pane e del vino, si ripropone. Entrare nell'orizzonte della salvezza e del senso è accedere a questa sorgente di benevolenza che sottende il mondo e che, nel gesto sacramentale della Messa, ogni volta si riaccende.

    La «manna» 

    Narra il libro dell'Esodo che i figli d'Israele, una volta liberati dalla schiavitù egiziana, invece che sulla terra promessa, approdarono, per prima, in mezzo a un deserto minaccioso e inospitale dove sopravvissero per quarant'anni (cf Es 16,35) in virtù di un «pane» particolare che non proveniva dal suolo, essendo il deserto incapace di far germogliare il pane, ma discendeva dal cielo: «Allora il Signore disse a Mosè: "Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no"» (Es 16,4-5). Il testo continua descrivendo la natura di questa «manna» e il perché di questo nome strano: «Al mattino vi era uno strato di rugiada intorno all'accampamento. Poi lo strato di rugiada svanì ed ecco sulla superficie del deserto vi era una cosa minuta e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l'un l'altro: "Man hu: che cos'è?", perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: "E' il pane che il Signore vi ha dato in cibo"» (Es 16,13-15).
    Il significato teologico del racconto è quello di mostrare, con la forza della narrazione, che l'esistenza di Israele e (essendo Israele un particolare in cui si dice l'universale) di tutta l'umanità non dipende, al suo livello ultimo, dalle sue capacità produttive e organizzative ma dalla radicale gratuità divina che fa di ogni «pane» un «pane dal cielo» (v. 4) che Dio stesso «dona in cibo» (cf v. 15). La «manna», il pane fatto «piovere dal cielo» e «dato in cibo» direttamente da Dio, non è un pane altro dal «pane» della terra che fiorisce sui campi attraverso il lavoro e il sudore umano, ma è questo stesso pane colto in quanto donato, in quanto sotteso dalla volontà di dono del creatore. È questa volontà di dono che, colta al di là e dentro ogni «pane», lo trasfigura da «pane terrestre» a pane «celeste», da pane prodotto dallo sforzo umano a pane gratuito regalato da Dio. La prima «transustanziazione» operata dalla celebrazione eucaristica è proprio questa: «il pane», cioè l'insieme di tutte le realtà umane, è «donato», e di fronte ad esso l'uomo, prima che padrone e produttore, è beneficiario, per cui egli, prima che in un mondo da fare, vive in uno già fatto, il cui primo movimento è la sorpresa del riconoscimento. Il primo significato di ogni celebrazione eucaristica è rivivere, di fronte al pane e al vino disposti sulla mensa, il miracolo della «manna» e la sorpresa degli Israeliti che, quando la videro per la prima volta, si chiesero l'un l'altro «man hu: che cos'è?», scoprendo, con stupore e meraviglia: «È il pane che il Signore ci ha dato in cibo» (cf v. 15).
    Se le grandi esperienze, come quella estetica o amorosa, nascono sempre dalla meraviglia e dallo stupore, cioè dall'imbattersi in un mondo che trascende il nostro orizzonte, la celebrazione eucaristica resta, a livello di oggettivazione pubblica e ufficiale, l'esperienza dello «stupore» e della «meraviglia» per eccellenza [2] che ogni partecipante è chiamato, ogni volta, a rifare.

    La manna e la solidarietà 

    L'affermazione del «pane» e del «vino» come «manna», cioè come doni, ha una dimensione esigitiva - che chiede ed esige - in cui si invera e senza la quale si fa ambigua: «Ecco che cosa comanda il Signore: "Raccoglietene quanto ciascuno può mangiare, un omer a testa, secondo il numero delle persone con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda". Così fecero gli Israeliti. Ne raccolsero chi molto chi poco. Si misurò con l'omer: colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo, colui che ne aveva preso di meno non ne mancava: avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiare. Poi Mosè disse loro: "Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino". Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì. Essi quindi ne raccoglievano ogni mattina secondo quanto ciascuno mangiava; quando il sole cominciava a scaldare, si scioglieva» (vv. 16-21).
    La «manna», svelamento dell'essere dono del «pane», cioè di tutto il reale, non si offre a Israele come oggetto di contemplazione («ecco quanto è bello il mondo come dono»!) ma si fa comandamento: «Ecco che cosa comanda il Signore: Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne... Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda». L'essere dono delle cose si fa comandamento che ne esige il rispetto (cioè lo sguardo che le riconosce tali) e l'assecondamento (cioè il cuore e la mano che ne riproducono il movimento). Il racconto della manna non solo svela il senso del reale che è il suo essere gratuità, ma anche la legge che chiede di essere obbedita e che è l'agire solidale ridonando ciò che è donato.
    Questa «legge» - la legge della gratuità quale legge del reale e che, in termini biblici, è la giustizia - non è, come per la Grecia, l'espressione di un principio intrinseco e per questo eterno, necessario e immodificabile che, una volta individuato, non può non essere accettato, ma l'apparizione della solidarietà originaria di Dio che chiede di essere accolta e incarnata in solidarietà umana e che, appunto perché evento di bontà, più che oggetto che si offre all'intelligenza come conoscenza, è comandamento dell'amore che si propone alla libertà come sua nuova possibilità. Per la Bibbia e per la celebrazione eucaristica che ne ripropone ritualmente ogni volta la logica, la giustizia è il vero principio del reale, il segreto, mai oggettivatile perché evento di bontà e di libertà, dal quale, come vuole il profeta Isaia, «fiorisce la pace» (cf Is 32,16).

    Le due figure della solidarietà 

    Il racconto biblico della manna - la pagina fon- dativa del «pane» come gratuità, come dono dell'amore divino esigitivo di quello umano - non solo afferma la solidarietà come legge feconda del reale, ma ne indica anche le due figure concrete e intrascendibili in cui essa prende corpo facendosi storia e «carne».
    La prima figura può essere espressa, al negativo, come rifiuto del possesso e dell'accaparramento, il movimento nativo con il quale il soggetto umano, essere di bisogno, va verso il mondo per incorporarlo. Ma se il «pane» è dono, da un lato impossessarsene è contraddittorio, essendo la sua realtà indipendente e anteriore alla ricerca umana, allo stesso modo che un figlio ha il cibo prima ancora di cercarlo; dall'altro, conseguenza drammatica nella quale la tradizione biblica individua la sostanza stessa del peccato, cancella l'orizzonte della gratuità negando Dio e il suo appello alla solidarietà. Per questo la prima figura della solidarietà è la rinuncia allo spirito di possesso, segno e causa di un rapporto con il «pane» non più commisurato alla propria volontà ma al bisogno: «Raccoglietene quanto ciascuno può mangiare, un omer a testa secondo il numero delle persone con voi».
    Non solo. Appunto perché il bisogno è soddisfatto non dallo sforzo dell'io progettante ma dalla liberalità divina donatrice del «pane», questo, per il testo biblico, oltre ad essere commisurato al bisogno invece che alla volontà del fruitore, non può neppure venir conservato per il domani: «Poi Mosè disse loro: "Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino"». Il «pane» non può essere «fatto avanzare», cioè accaparrato, perché, in questo caso, degenererebbe: «Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì» (v. 20). Il pane accaparrato - cosa diversa dal «pane custodito» per essere condiviso - da pane di vita diventa pane di morte («si generarono vermi e imputridì») perché è la negazione vivente della sua realtà di dono. E il pane sottratto alla sua radice di dono, da «pane celeste» si fa «terrestre» e da fonte di gioia e di benessere si fa, come ci insegna la storia, motivo di competizione e di conflitto.
    La seconda figura della solidarietà, che specifica ulteriormente la precedente e la finalizza, è la condivisione, l'atteggiamento con il quale non solo si rinuncia a impossessarsi del «pane», atteggiamento di per sé passivo, ma si opera perché esso di fatto possa pervenire al bisogno di ogni altro. È qui che la rinuncia all'accaparramento, a non volere le cose per sé, trova il suo senso e la sua ragion d'essere: acconsentire alla loro destinazione universale, essendo, nella intenzionalità creatrice, dono per tutti. Si tratta di un acconsentimento attivo che oltre allo «sguardo» - «dire di sì» al reale come dono - coinvolge l'intelligenza e il volere posti non più a servizio del bisogno dell'io ma a servizio del bisogno dell'altro perché abbia quello che Dio gli ha destinato.
    Di fronte al «pane», la totalità delle realtà positive mondane, l'uomo non gioca il ruolo di fruitore parassitario, ma quello del sommamente responsabile che, lungi dal rinunciare all'esercizio della sua intelligenza e della sua volontà, le pone a servizio del progetto di donazione di Dio, diventandone cooperatore a livello intenzionale ed esecutivo. L'immensa storia del lavoro umano, storia indicibile di progetti e di lotte per la ricerca del «pane», trova qui, nell'orizzonte della gratuità, la luce soffusa che lo disambigua, disalienandolo e risignificandolo da sforzo prometeico volto a garantirsi, come individuo e come gruppo, la sopravvivenza, a partecipazione alla solidarietà di Dio, al suo progetto di amore che è la creazione come donazione.

    Il sacrificio 

    Prima del Vaticano II uno dei termini più comuni con il quale veniva indicata la celebrazione eucaristica era quello di «sacrificio della Messa»; un termine tipico non solo della tradizione cristiana ma della maggior parte delle religioni che, proprio nei sacrifici, dalle offerte vegetali a quelle animali, hanno oggettivato il loro valore e il loro senso.
    Ma quanto più il sacrificio è stato il termine per eccellenza delle oggettivazioni religiose, tanto più, soprattutto negli ultimi anni, è entrato in crisi come categoria, al punto che, anche nel linguaggio ecclesiale, il suo uso si è fatto problematico e raro, quasi subendo la radicale critica di Renan condivisa da tanti: «Il sacrificio è l'errore più vecchio, più grave, più difficile da sradicare tra quelli tramandati a noi dallo stato di follia dell'umanità iniziale. L'uomo primitivo (senza distinzione di razza) credette che il modo di placare le forze sconosciute a lui circostanti fosse di guadagnarsele come si guadagnano gli uomini, offrendo loro qualcosa. In ciò era assai coerente, giacché gli dèi, da rendere propizi, erano cattivi e interessati... Questa impressionante assurdità, che la prima apparizione del buon senso religioso avrebbe dovuto spazzare, si era tradotta in un atto di soggezione, una specie di omaggio-canone dell'uomo verso la Divinità. La religione patriarcale non seppe libe rarsene. Per primi, i Profeti dell'VIII secolo a. C. si levarono contro simile aberrazione, ma non poterono sopprimerla».[3] 
    Questa interpretazione di Renan più che corrispondere veramente alla realtà del sacrificio ne è una contraffazione ingenerosa e superficiale, frutto di una violenza ermeneutica, oltre che di una precomprensione di razionalità totalizzante. E se è vero che il sacrificio, come ogni altra espressione dello spirito umano, è realtà ambigua che può perfino pervertirsi, l'importante è ricercarne, a livello intenzionale, il significato originario.

    Cos'è il sacrificio? 

    Tutte le culture testimoniano di una intuizione la quale è a fondamento delle società umane: che l'uomo accede alla maturità solo quando il suo rapporto con il mondo conosce una rottura (krisis) che ne spezza l'immediatezza e lo ridefinisce a un livello superiore dove, di fronte ad esso, egli non si percepisce più solo come fruitore, dipendente e parassitario, ma attivo, autonomo e responsabile. I riti di iniziazione, attestati dovunque, rappresentano questo passaggio dalla immaturità alla maturità, dalla passività all'indipendenza, per dirla con Freud: dal principio di piacere al principio di realtà; un passaggio che non si realizza spontaneamente e teleologicamente, come un chicco di grano che da seme si fa spiga, ma attraverso una morte e la conseguente «sofferenza», grazie alle quali si lascia l'orizzonte infantile per nascere a quello adulto e responsabile.
    Ora è proprio questa la grande intuizione e dono di senso della tradizione ebraico-cristiana: oltre alle sofferenze distruttive e violente c'è una sofferenza «creatrice» e maieutica senza la quale l'uomo non può nascere alla sua identità; oltre alla morte negativa e ingiusta, estranea al disegno creatore, ce n'è una positiva e giusta iscritta nel suo volere e condizione della stessa vita. Questa condizione è, per la Bibbia, l'obbedienza a Dio, l'adesione al suo volere che, per essere tale, non può non passare attraverso il rinnegamento all'io e la sofferenza che ne consegue. E poiché il volere di Dio è intenzionalità di dono, cioè la creazione come donazione, aderire ad essa è dire di no, nella sofferenza creatrice, al proprio volere di autoprogettazione e di autocompimento. qui, per la Bibbia, il significato primo e radicale del «sacrificio della vita» e dei riti che l'oggettivano: morire al proprio volere nativamente centrato sull'io e sulla realizzazione dei suoi progetti per porsi a servizio del volere divino che è amore gratuito e benevolenza; cioè morire alla volontà di possesso e di accaparramento per rinascere a quella del dono e della condivisione.
    Se questo primo aspetto è chiaro - nel prossimo capitolo se ne vedrà un secondo - si capisce allora qual è il senso originario del sacrificio per la Bibbia e per la liturgia che lo riesprime: Dio non vuole la sofferenza dell'uomo (lui che si è rivelato come il liberatore dell'uomo dalla sofferenza), se non quella necessaria per nascere come soggetto solidale non più centrato sul proprio io e sul suo compimento ma ca pace, come Dio, di amore di donazione e di alterità. Il sacrificio biblico e dei riti che l'oggettivano non riguarda il mondo (dire di no ad esso con la fuga o con il sospetto) e tanto meno le persone che l'abitano (amare Dio al posto di queste) ma la radice dell'io, chiamato, morendo alla sua realtà di principio desiderativo, a farsi, in obbedienza a Dio e come Dio, soggetto solidale: di una solidarietà non organica (dove l'altro è amato in quanto pezzo del proprio mondo e uno dei «propri» interno alla stessa famiglia, club, nazione o stato, ecc.), ma di alterità, dove l'altro, irriducibile all'io, nel suo bisogno o volto (Lévinas), è traccia attraverso cui Dio entra nella storia e, sospendendone i determinismi, la rigenera come giustizia.

    «La terra è mia e voi siete in essa forestieri e inquilini» 

    Secondo il Levitico una delle norme che doveva regolare il diritto fondiario, cioè il rapporto delle famiglie di Israele con i beni della terra, era il divieto di appropriarsene per sempre: «perché la terra è mia e voi siete presso di me forestieri e inquilini» (25,23).
    Importante è capire in che senso, per il testo biblico, Israele, figura come sempre dell'umano, è sulla terra «forestiero» e «inquilino». Secondo una tradizione che risale a Filone - il filosofo ebreo di lingua Greca (20 circa a. C. - 50 d. C.) - e che poi diventerà dominante fino ad essere esclusiva, Israele è «forestiero» e «inquilino» sulla terra perché questa non è né può essere la sua vera patria, essendo quella vera il cielo per il quale è fatto e verso il quale deve tendere. Ma una interpretazione come questa è totalmente debitrice del dualismo greco-platonico e ha il torto di cancellare radicalmente la sostanza stessa del messaggio biblico, per il quale la creazione è donazione di Dio e, in forza di questa, la terra è, per l'uomo, la sua vera «patria». Per il testo biblico, pertanto, Israele è «forestiero» e «inquilino» in un senso radicalmente diverso: in quanto la terra in cui abita non è sua ma di Dio.
    Tra Israele e la terra c'è un extra, una «estraneità» ma, dopo il discorso fatto precedentemente, appare chiaro che il senso di questa «estraneità» è quello della gratuità, quella «estraneità» paradossale che fa sì che si vive non in forza di quello che si ha ma in forza di quello che viene donato. Per cui la traduzione più vicina all'originale potrebbe essere la seguente: «La terra è mia e voi siete in essa degli ospiti in quanto io sono l'ospitante». L'ospite si caratterizza per il fatto di vivere sì in un ambiente non «suo», sul quale non può esercitare il diritto di proprietà e al quale, pertanto, resta costitutivamente «estraneo» l'appropriazione e il possesso; ma questo ambiente non suo, lungi dall'essergli insufficiente, è l'unico dove la sua esistenza si realizza pienamente, secondo la logica dell'avere tutto senza possedere nulla (cf 2 Cor 6,10), la logica dove l'avere tutto non passa attraverso il possesso - la lingua ebraica non ha neppure il verbo avere! - ma attraverso il dono.
    L'affermazione pertanto della gratuità della terra quale legge del reale, lungi dall'essere un'affermazione spiritualmente consolatoria e socialmente sterile, è e vuole essere, per la visione biblica e per la Eucaristia cristiana in cui essa si ripropone e si oggettiva, un reale principio ermeneutico e trasformativo che contesta alla radice il modello mentale e culturale nel quale l'Occidente è installato: il modello del possesso incentrato sull'io e sul suo «imperialismo» o «miità»,[4] per instaurarne uno basato sul rispetto e sulla solidarietà.
    Forse nessuna pagina come la risposta del grande capo indiano Seattle al presidente degli Stati Uniti nel 1854 (con la quale si oppose alla richiesta di vendere la terra), può aiutare a intravedere la potenza trasfiguratrice e feconda di una visione del reale fondata sul gratuito: «Noi sappiamo che l'uomo bianco non comprende i nostri costumi. Un pezzo di terra gli sembra uguale al successivo perché egli è come uno straniero che arriva nella notte e prende dalla terra ciò di cui ha bisogno. La terra non è sua sorella, ma il suo nemico, e quando l'ha conquistata egli va più lontano... Egli tratta sua madre, la terra e suo fratello, il cielo, come cose da acquistare, sfruttare, vendere come i montoni o le perle brillanti. Il suo appetito divorerà la terra e lascerà dietro a lui il deserto. Io non so. I nostri costumi sono diversi dai vostri. La vista delle vostre città fa male agli occhi dell'uomo rosso. Ma può darsi che ciò sia perché l'uomo rosso è un selvaggio e non comprende... Noi almeno sappiamo questo: la terra non appartiene all'uomo. Questo lo sappiamo».[5] 


    NOTE

    [1] La bontà di una persona può essere, infatti, solo «riconosciuta» - nel duplice senso di conosciuta, accompagnando tale conoscenza con la gratitudine - e riprodotta.
    [2] Soprattutto attraverso la narrazione delle «meraviglie di Dio» fatte nel prefazio, il testo che precede il racconto dell'istituzione.
    [3] Citato in R. DE VAUX, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Marietti, Torino 1964, pp. 433-434.
    [4] Cf E. LÉVINAS, Trascendenza e intelligibilità, Marietti, Genova 1990, pp. 64-65.
    [5] In Lettera 6/1990 della Pro Civitate Christiana, anche se con alcune modifiche.


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