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    Il senso della risposta (cap 4 di: Pane e perdono)


    Carmine Di Sante, PANE E PERDONO. L'Eucaristia celebrazione della solidarietà, Elledici 1992

     

    Chi è l'uomo?

    Dispiegando il contenuto della parola di Dio, la liturgia dispiega pure, contemporaneamente, a livello rituale, il senso della risposta umana da essa richiesta: «amen», «sì», «eccomi».
    È in questo «eccomi», che la Bibbia oggettiva e che la liturgia riattualizza, che si scioglie l'enigma dell'essere umano sospeso, per così dire, tra l'insignificanza della sua piccolezza e lo stupore della sua grandezza, come esprime con accenti di rara bellezza il Salmo 8:
    «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita la luna e le stelle che tu hai fissate,
    che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?
    Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato:
    gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi;
    tutti i greggi e gli armenti tutte le bestie della campagna;
    gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare.
    O Signore, nostro Dio,
    quanto è grande il tuo nome su tutta la terra» (vv. 4-10).
    In questo salmo si ritrovano espressi i due tratti fondamentali dell'uomo biblico, che, all'apparenza, sembrano contraddirsi: da una parte la sua fragilità disarmante che contrasta con lo splendore dei cieli; dall'altra la sua sovrumana grandezza che uguaglia quasi quella degli angeli: «Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli» (v. 6).
    La liturgia, oggettivando attraverso la proclamazione della parola, la storia di Dio come il solidale, oggettiva pure, contemporaneamente, la storia dell'uomo come il chiamato alla solidarietà, mostrando in che senso, secondo quanto esprime il Salmo 8, egli è radicale povertà e, nello stesso tempo, suprema dignità.
    È quanto vedremo nell'attuale capitolo in cui si dispiegheranno concettualmente i due tratti costitutivi dell'uomo biblico condensati in ogni risposta - di cui 1'«amen» è quella essenziale e paradigmatica - dell'assemblea celebrante alla parola proclamata.

    L'uomo povero

    Per la Bibbia e per la liturgia che la riattualizza, il primo tratto dell'antropologia biblica è la sua radicale fragilità, che contrasta non solo con qualsiasi visione ingenuamente ottimistica, ma, soprattutto, con la visione corrente, derivata dalla filosofia greca e alla quale si è abituati, secondo cui l'uomo è dotato di un principio immateriale ed eterno - frammento o «scintilla» divini - che, inabitando il corpo, vi convive in forme più o meno conflittuali e lo trascende.
    Per la Bibbia, al contrario, l'uomo non è di natura immateriale ma, come ogni altra realtà vivente che appare sulla terra, è sottoposto alla legge del nascere e del morire ed è, quindi, fragile, caduco e mortale:
    «Una voce grida:
    "Annuncia un messaggio e io domando: "Che cosa devo annunciare?”.
    "Annuncia che ogni uomo è come l'erba;
    e la sua consistenza è come il fiore del campo: secca l'erba, il fiore appassisce
    quando il Signore fa soffiare il vento su di essi.
    Sì, l'uomo è come l'erba:
    secca l'erba e il fiore appassisce;
    ma la parola del nostro Dio dura per sempre"» (Is 40,6-8).
    Il termine originale che, in questa traduzione interconfessionale, è stato reso con uomo, è carne, la categoria fondamentale dell'antropologia biblica (si ricordi il celebre inizio del prologo giovanneo: «E il Verbo si fece carne») il cui significato rimanda alla nudità del corpo e il cui tratto peculiare è di essere passività, come il corpo di un bambino o il corpo di un malato: esposto, colpito, ferito, debole, cioè mortale.[1]
    L'immagine storica, vivente e paradigmatica, di questa «fragilità» esistenziale è, nella tradizione biblica, il «povero», nella sua duplice figura di «malato», perché privo del benessere del corpo (ciechi, sordi, muti, zoppi, ecc.) e di «oppresso», perché privo del benessere sociale (perseguitati, calunniati, emarginati, ecc.). Il motivo di questa centralità del povero nella letteratura biblica, soprattutto profetica, va ricercato nel fatto che esso costituisce la definizione dell'uomo, la sua «messa in scena» nella concretezza quotidiana. Il povero, infatti, nella Bibbia, prima che una categoria psicologica che indica lo stato di malessere del soggetto, e prima che una categoria sociologica che indica il collocamento marginale del soggetto nello spazio sociale, è una categoria teologica, in quanto definisce l'uomo di fronte a Dio. E di fronte a Dio l'uomo è «povero», radicalmente «povero».

    Cos'è la povertà?

    Ma in che senso, per la Bibbia e per la liturgia che la riattualizza, l'uomo è povero e la povertà, al di là del suo spessore sociologico, lo definisce nella sua più intima realtà?
    Nella spiritualità cristiana si è soliti parlare della «povertà ontologica» dell'uomo, intendendo, con questa, la sua finitezza che, messa a confronto con la infinitezza divina, somma di tutte le perfezioni e di tutti i valori, non può non apparire che come limite. Secondo questa accezione, la cui precomprensione è la dottrina platonica della partecipazione, la povertà ontologica dell'uomo si dispiega su due linee ermeneutiche apparentemente diverse ma nella sostanza convergenti; per la prima la povertà risiede nel fatto che l'uomo, per costituzione interna, non possiede in pienezza ciò che solo Dio è e ha, ma vi partecipa, come vuole l'etimo di questo termine, in «parte»; per la seconda essa risiede nel fatto che l'uomo, provenendo dal divino, può solo trovare in esso, e non nelle cose del mondo, la sua realizzazione e il suo compimento, secondo la celebre espressione agostiniana, divenuta l'anima nascosta della spiritualità, dell'inquietum est cor nostrum, Domine, donec requiescat in te: «il nostro cuore, Signore, è inquieto, finché non riposa in te».
    Altra è, invece, l'accezione della povertà biblica la quale si definisce non per il fatto che l'uomo non ha la pienezza divina e neppure perché egli, invece che dalle realtà terrestri, può essere soddisfatto compiutamente solo da quelle celesti; ma perché egli è quell'essere che vive non in forza di se stesso, potendo il suo essere venirgli sottratto come nel caso della malattia e dell'ingiustizia, bensì in forza di un altro «altro» da lui. A livello concettuale e fenomenologico, la definizione che, meglio, ritraduce l'idea biblica della povertà è quella di bisogno: l'uomo povero è l'uomo in quanto essere di bisogno.
    L'essere di bisogno è quell'essere che, per essere, ha bisogno di ciò che è al di fuori del suo essere, e che, se lo può possedere e fruire, come l'affamato il pane e l'occhio la luce, non può però mai incorporarlo definitivamente come realtà costitutiva del suo essere, restandogli sempre extra. L'uomo, per la Bibbia, è costitutivamente povero perché per poter essere ha bisogno di pane e di amore, delle cose e dell'altro senza cui il suo essere resterebbe condannato, come un fiore senza luce, a non essere e ad essere solo per la morte.
    Definendo l'uomo come povertà radicale, cioè come essere di bisogno, la Bibbia non emette un giudizio di valore, non essendo per essa il bisogno né sinonimo di fruizione, come sembra emergere per esempio dagli scritti di E. Lévinas, e neppure di frustrazione, come vorrebbe Sartre, potendo essere sia l'uno che l'altro a seconda se soddisfatto o frustrato: L'uomo, per la Bibbia, è povertà radicale perché, intrinsecamente, per virtù propria, come non è destinato alla fruizione neppure lo è alla frustrazione, ma è possibilità di divenire l'una o l'altra, in forza di un principio che gli è estraneo.

    Il povero colmato

    Per la Bibbia questo principio è un principio positivo e coincide con la stessa solidarietà di Dio, il cui significato radicale è quello di chinarsi sul povero (cioè sull'uomo essere di bisogno e sospeso alla possibilità di realizzarsi o frustrarsi, di «perdersi» o «salvarsi») per attuare, delle due possibilità, quella positiva. Dio è Dio, per la Bibbia e per la liturgia che la riattualizza, per questo gesto di solidarietà grazie al quale l'uomo da povero si scopre povero colmato e da essere bisognoso, e perciò destinato all'insicurezza, si sperimenta felice. Con un altro termine si potrebbe dire che per la Bibbia Dio è Dio in quanto rende l'uomo felice, con la precisazione importante che tale felicità non consiste nel sottrarlo ai beni terreni per destinarlo ai beni celesti, come vuole la co mune lettura debitrice del dualismo ellenistico, ma proprio nel colmare, con i beni della terra, la realtà del suo essere di bisogno. È chiaro che la gamma del «bisogno», pur essendo limitata e non infinita, poiché l'uomo è un essere finito, è comunque, per la sua plasticità, praticamente indefinita e riguarda non solo la sfera primaria, come il bisogno del pane, del vestito o della casa, ma anche quella secondaria, come il bisogno culturale, letterario, estetico, musicale, filosofico, ecc., che solo indebitamente può essere chiamata «artificiale».
    Ne consegue che, per la Bibbia, l'uomo è sì povertà radicale, ma una povertà radicale che Dio, avvolgendo nel suo amore e ponendo sotto la sua solidarietà, destina alla piena felicità. Per cui, paradossalmente, l'antropologia biblica, che è un'antropologia della povertà, è anche, contemporaneamente, un'antropologia della felicità; una felicità che non cancella la povertà ma fiorisce proprio su di essa che, anche se colmata, resta sempre permanente, non essendo colmata in forza di se stessa ma della solidarietà divina, libera e gratuita, il «ponte» ineliminabile tra l'una e l'altra.
    Uno dei testi biblici più belli in cui si esprime questa felicità di cui l'io è destinatario, ma non principio, è il Salmo 131, più volte riproposto nella liturgia:
    «Signore, non si inorgoglisce il mio cuore
    e non si leva con superbia il mio sguardo;
    non vado in cerca di cose grandi,
    superiori alle mie forze.
    Io sono tranquillo e sereno
    come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
    come un bimbo svezzato è l'anima mia.
    Speri Israele e nel Signore, ora e sempre».
    Il povero biblico è come il bambino «tranquillo e sereno» del salmista che, beato, riposa «in braccio a sua madre»; beato perché «sazio» e «sazio» perché «saziato» da una presenza che, a lui antecedente, lo previene colmandolo di ogni bene.

    Felicità e benedizione

    Il povero biblico, metafora dell'umano nella sua radicalità, si sente abitato dalla felicità, ma da una felicità peculiare che non nasce dall'autorealizzazione dell'io e dalla messa in opera delle sue strategie - la felicità di chi ha superato un esame, vinto un concorso o una gara - ma dalla scoperta di essere amato, sotto lo sguardo di un Dio che, come un padre, viene incontro alle proprie necessità. Per questo il povero biblico e, di conseguenza, l'uomo secondo la Bibbia, è, per definizione, ri-conoscente, colui il quale, secondo l'etimo originale del termine, accede a una nuova «conoscenza» che è quella di «sapersi» - di un sapere che è preriflesso, al di là di tutti i saperi e sottostante ad essi - non più solo, bensì amato da Dio, e non più solo essere di bisogno alla ricerca del proprio autocompimento, bensì destinatario privilegiato di un atto di amore unico e personale. La riconoscenza, prima che sentimento di gratitudine nei confronti di Dio, è presa di coscienza della sua solidarietà che avvolge la povertà dell'uomo, cioè di ogni uomo, colmandola e destinandola alla felicità; è visione di un nuovo essere nel mondo, dove si vive non più in forza dell'io e dei suoi piani progettuali, ma in forza di un altro, dove, secondo la terminologia teologica classica, non contano più le «opere» che l'io realizza ma la «grazia» donata da Dio.
    Però, contrapponendo «opere» e «grazia», non si intenda quest'ultima in antitesi alle realtà materiali. La «grazia», lungi dall'opporsi a queste, ne è la loro lettura e la loro rifondazione nell'orizzonte della gratuità, l'orizzonte che non si sostituisce alle cose del mondo necessarie al bisogno umano, ma le costituisce come dono, trovando la loro fonte nell'amore del Dio solidale.
    Per questo il tratto qualificante dell'uomo biblico è la benedizione,[2] cioè il riconoscimento che tutti i beni della terra necessari all'esistenza umana in tanto sono tali in quanto dono della solidarietà divina. Così, secondo la tradizione ebraica e l'insegnamento talmudico, il credente biblico, prima di nutrirsi del pane, dovrebbe dire: «Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, re dell'universo, che produci il pane della terra»; prima di bere un bicchiere di vino: «Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re dell'universo, che hai creato il frutto della vite»; prima di utilizzare un profumo: «Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re dell'universo, che crei erbe profumate»; guardando monti, colli, fiumi o deserti: «Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re dell'universo, che compi l'opea della creazione»; fabbricando una casa nuova o comprando suppellettili nuove: «Benedetto sei tu Signore, nostro Dio, re dell'universo, che ci hai fatto vivere, ci hai fatto sussistere e ci hai fatto arrivare a questo momento»; incontrando un elefante, una scimmia o una civetta: «Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re dell'universo, che rendi le creature variate»; ecc.
    Benedire Dio è «dire bene» di lui per i beni necessari al bisogno umano i quali, lungi dall'essere nuda fattualità, sono la «materializzazione», cioè il farsi «materia» e «carne», della sua solidarietà.

    L'Eucaristia cristiana

    La Messa, soprattutto nella sua seconda parte, denominata liturgia eucaristica a differenza della prima chiamata liturgia della parola, è l'oggettivazione rituale, pubblica e ufficiale, della comunità cristiana - metafora, come sempre, della comunità umana - che benedice Dio, che «dice bene» di Dio per il dono dei suoi beni. Il termine Eucaristia, dal quale deriva l'espressione «preghiera eucaristica» (la grande preghiera che, dopo il cosiddetto offertorio, va dal prefazio alla grande dossologia che precede il Pater noster) traduce infatti un termine greco che significa «bene-dire», «dire bene». Attraverso questa preghiera, considerata la preghiera per eccellenza della liturgia cristiana (e per questo chiamata anche «canone», in quanto la «preghiera-misura», cioè paradigmatica di tutte le altre), la comunità cristiana benedice Dio per tutte le sue meraviglie al centro delle quali, meraviglia delle meraviglie, c'è l'apparizione, nella storia, del Messia che, con la sua morte e la sua risurrezione, ha reinstaurato per tutti la possibilità di tornare a vivere secondo il disegno di Dio. Ecco, ad esempio, come una delle preghiere eucaristiche più belle bene-dice Dio:

    «È veramente giusto renderti grazie,
    è bello cantare la tua gloria, Padre santo, unico Dio vivo e vero;
    prima del tempo e in eterno tu sei, nel tuo regno di luce infinita.
    Tu solo sei buono e fonte della vita,
    e hai dato origine all'universo
    per effondere il tuo amore su tutte le creature
    e allietarle con gli splendori della tua luce.
    Schiere innumerevoli di angeli
    stanno davanti a te per servirti, contemplano la gloria del tuo volto,
    e giorno e notte cantano la tua lode.
    Insieme con loro anche noi,
    fatti voce di ogni creatura,
    esultanti cantiamo: Santo, ecc.
    Noi ti lodiamo, Padre santo,
    per la tua grandezza:
    tu hai fatto ogni cosa con sapienza e amore.
    A tua immagine hai formato l'uomo,
    alle sue mani operose hai affidato l'universo
    perché nell'obbedienza a te, suo creatore, esercitasse il dominio su tutto il creato.
    E quando, per la sua disobbedienza, l'uomo perse la tua amicizia,
    tu non l'hai abbandonato in potere della morte,
    ma nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro,
    perché quelli che ti cercano ti possano trovare.
    Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza
    e per mezzo dei profeti
    hai insegnato a sperare nella salvezza.
    Padre santo, hai tanto amato il mondo
    da mandare a noi, nella pienezza dei tempi, il tuo unico Figlio come salvatore.
    Egli si è fatto uomo per opera dello Spirito Santo ed è nato dalla vergine Maria;
    ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana.
    Ai poveri annunciò il Vangelo di salvezza, la libertà ai prigionieri,
    agli afflitti la gioia.
    Per attuare il tuo disegno di redenzione si consegnò volontariamente alla morte,
    e risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita.
    E perché non viviamo più per noi stessi
    ma per lui che è morto e risorto per noi,
    hai mandato, o Padre, lo Spirito Santo, primo dono ai credenti,
    a perfezionare la sua opera nel mondo
    e compiere ogni santificazione».

    In questa mirabile preghiera eucaristica Dio viene benedetto, cioè lodato e ringraziato, per la creazione del mondo (dimensione cosmologica), per la creazione dell'uomo (dimensione antropologica) e, soprattutto, per la redenzione (dimensione cristologica). Anche se, nella liturgia cristiana, è specialmente quest'ultima a essere sviluppata, non va comunque mai dimenticato che il fine della redenzione è la reinstaurazione della creazione, cioè della possibilità di tornare a vivere nel mondo secondo il disegno di Dio, disalienandolo e cogliendone il suo spessore di dono.

    Dalla solidarietà riconosciuta alla solidarietà ridonata

    L'Eucaristia è il riconoscimento, in forma pubblica e liturgicamente articolata, della solidarietà divina donatrice della terra; essa, sotto i singoli beni, svela un bene ulteriore e radicale, che è l'amore di Dio che gratuitamente li dona. Non solo. Mentre, come la benedizione ebraica, riconosce, nel cuore dei beni terrestri, la Bontà di Dio che li dona, contemporaneamente essa annuncia che nell'apparizione di un uomo, Gesù di Nazaret, nella storia è riemersa, in forma convincente e paradigmatica, la possibilità per tutti di tornare ad essere soggetti benedicenti, capaci di ricomprendere il mondo nell'orizzonte del Dio solidale.
    Ma qual è il senso di questo riconoscimento? Perché «dire bene» di Dio cogliendo nei suoi beni il suo Bene, cioè la sua solidarietà?
    È nella risposta a questo interrogativo che l'Eucaristia cristiana ritrova, alla luce della benedizione ebraica, il suo significato più profondo e attuale. Il riconoscimento infatti della solidarietà divina (Dio che, all'uomo essere di bisogno, dona, per renderlo felice, il mondo) non è fine in sé ma si fa istanza di appello. Ciò vuol dire che la solidarietà divina riconosciuta nelle cose, quale loro anima che le sottende e le fa essere, non si offre come oggetto di contemplazione ma come istanza di comportamento, non come contenuto conoscibile ma come assoluto etico; essa cioè non dice: «guardami», «contemplami» e «fruiscimi», ma: «imitami», «riproducimi», «come io sono solidarietà per te, anche tu sii solidarietà per gli altri».
    Nel codice dell'alleanza, cioè nella serie di leggi che, dopo la stipulazione del patto, regolano il rapporto tra Dio e Israele, l'amore di compassione al quale quest'ultimo è chiamato viene motivato con il richiamo all'amore compassionevole del primo nei confronti del secondo: «Non lederai il diritto del forestiero e dell'orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova. Ricordati che sei stato schiavo in Egitto e te ne ha liberato il Signore tuo Dio, perciò ti prescrivo di fare questo» (Dt 24,17-18; Dt 15,15; cf Es 22,20ss). Al di là del suo grande risvolto sociale - comportarsi con rispetto nei confronti delle categorie sociali emarginate e meno abbienti - il brano è rilevante soprattutto per la motivazione teologica che esso pone a suo fondamento. La ragione per la quale Israele non deve «ledere il diritto del forestiero e dell'orfano» non è per garantire un migliore ordine sociale o una minore conflittualità politica, ragioni immanenti al funzionamento di qualsiasi gruppo e società, ma per essere fedele alla compassione di Dio della quale egli ha fatto esperienza: «Ricordati che sei stato schiavo in Egitto e che te ne ha liberato il Signore tuo Dio, perciò ti prescrivo di fare questo». La solidarietà di Israele nei confronti del «forestiero» e «dell'orfano», cioè degli ultimi, è, per Israele, l'oggettivazione di una solidarietà divina anteriormente sperimentata e che chiede di essere riprodotta e imitata.

    Imitare il Dio solidale

    Riconoscere la solidarietà divina, con la benedizione e l'Eucaristia, è riprodurla, nella libertà, verso l'altro. Per questo, uno dei temi più suggestivi della tradizione ebraica, fedele interprete del messaggio biblico anticotestamentario, è quello della imitazione di Dio: «Rabbi Chama, figlio di rabbi Chanina, insegnava: che cosa significa il testo di Dt 13,5: "Seguirete il Signore vostro Dio?". Può un uomo seguire Dio di cui sta scritto che è "un fuoco divoratore" (Dt 4,24)? "Seguire il Signore" può quindi significare soltanto imitare le sue qualità. Così come egli veste gli ignudi - poiché sta scritto (Gn 3,21): "il Signore Iddio fece ad Adamo e alla sua donna tuniche di pelli e li vestì" - vesti anche tu gli ignudi. Il Santo, benedetto sia, visitava gli ammalati, poiché sta scritto (Gn 18,1) dopo la circoncisione di Abramo: "E il Signore gli apparve alle querce di Mambre, mentre egli sedeva all'ingresso della tenda". Così anche tu devi visitare gli ammalati. Il Santo, benedetto sia, consolava i sofferenti, poiché sta scritto (Gn 25,11): "E dopo la morte di Abramo Dio benedisse Isacco suo figlio". Così consola anche tu i sofferenti. Il Santo, benedetto sia, ha seppellito i morti, poiché dopo la morte di Mosè si legge (Dt 34,6): "ed egli lo seppellì nella valle, nella terra di Moab". Così tu dai sepoltura ai morti».[3]
    Il senso della vita umana, l'orizzonte cioè dove essa trova la sua direzione e la verità, è nell'«imitare» Dio, nel ritrascrivere, entro la propria soggettività ed entro il proprio stile di vita, la sua stessa intenzionalità di solidarietà. Quando la Genesi parla dell'uomo come «immagine» e «somiglianza» di Dio intende questi termini non secondo la tradizione ellenistico- cristiana per la quale nella natura umana c'è un riflesso della realtà divina, ma secondo il contesto biblico per il quale l'uomo è il rappresentante di Dio, il suo luogo-tenente e il suo «vice», chiamato, nel mondo, ad essere solidale in obbedienza e in sostituzione della sua solidarietà.
    L'uomo, per la Bibbia, è il «pro-nome» di Dio, colui il cui «nome» è di sostituire il suo «Nome», volendo per tutti il suo stesso amore. E ogni qualvolta, nella liturgia, viene proclamata la parola di Dio, l'assemblea celebrante si sente risvegliata a questa sua vocazione irrinunciabile.

    La giustizia biblica

    La Bibbia, che la liturgia attualizza, conosce un termine peculiare con cui esprime questa forma di solidarietà donata all'altro in quanto alterità, in quanto non riconducibile al proprio mondo di desiderio e di interessi e irriducibilmente altro: il termine giustizia.
    Pochi termini come questo hanno subito, nella tradizione cristiana, equivoci interpretativi e slittamenti semantici, al punto che è finito per divenire opposto all'amore e sua negazione, secondo uno stereotipo duro a morire che ama opporre la giustizia alla bontà.
    In realtà la giustizia, nella concezione biblica, lungi dall'opporsi alla bontà, ne è la sua figura più alta ed efficace, traducendo quel tipo di comportamento che, al suo interno, riproduce lo stesso agire divino che è quello della solidarietà gratuita: un andare all'altro in quanto altro non per interesse, attratto da un valore in lui presente, ma per benevolenza, motivato dalla compassione per la sua povertà e dalla propria volontà di colmarlo. Nel Vangelo di Matteo, in un discorso noto come escatologico perché relativo alle cose ultime, sei sono le figure elementari e quotidiane di questa giustizia oggettivazione della solidarietà divina: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, ospitare i forestieri, vestire gli ignudi, visitare i malati e andare a trovare i carcerati (cf Mt 25,35ss).

    La giustizia come bontà

    La giustizia così intesa, come oggettivazione della solidarietà divina e della sua compassione per l'uomo, essere di bisogno, non si iscrive nell'ordine della necessità, come per la Grecia dove essa coincide con la legge e con la fatalità, ma in quello della volontà che liberamente si fa prossimità all'altro nella sua alterità. Ciò vuol dire che la bontà, nella sua accezione radicale, non è riconducibile all'amore di desiderio (l'eros greco) e anche se i due termini vengono spesso indebitamente omologati, in realtà essi restano irriducibili; mentre infatti l'amore di eros obbedisce al determinismo del desiderio e si rivolge all'altro in quanto portatore di un valore e oggetto di appagamento, la bontà si rivolge all'altro in quanto dis-valore e bisogno - che, in quanto tale, è oltre
    l'attrazione e oltre il piacevole - ed è l'apparizione di un nuovo evento.
    Il primo tratto di questo evento - l'evento della bontà - è il riconoscimento del bisogno dell'altro, al di là dell'indifferenza e al di là dell'analisi scientifica o morale. L'«affamato», «l'assetato», «il carcerato», ecc., figure dell'alterità irriducibili all'io, si rivelano nella loro nudità di bisogno e vengono accolti per questo loro bisogno. Ma mentre riconosce il bisogno dell'altro, la bontà - eccoci al suo secondo tratto - lo fa percepire come non giusto: essa non solo, sottraendo l'io all'indifferenza o al giustificazionismo, gli dischiude la realtà dell'«affamato» o del «carcerato» ma gliela fa sentire come ingiusta, cioè non appartenente all'ordine della verità e della dignità. La bontà fiorisce ogni qualvolta un soggetto, scoprendo il bisogno dell'altro, sente in esso iscritta una istanza che ne proclama l'ingiustizia («non è giusto che quell'uomo muoia di fame»!) e chiede di cancellarla.
    Questa istanza - ed eccoci al tratto ultimo e riassuntivo dell'evento- della bontà - non appare comunque al soggetto con i tratti del principio e dell'universalità ma con quelli della singolarità; essa cioè non proclama in astratto che «non è giusto» che ci sia «l'affamato» ma si rivolge direttamente all'io ordinandogli: «Non è giusto per te abbandonare a se stesso questo affamato».
    La bontà è questo evento relazionale di radicale novità dove il soggetto, morendo alla sua realtà di desiderio e di volontà di potenza che assoggetta a sé il mondo, si scopre vincolato all'altro non più come dominatore ma come servitore, non come sua signoria ma come sua diaconia.

    La «follia» della bontà

    Se la follia, come vuole la definizione comune del termine, è qualsiasi gesto o comportamento imprevisto e imprevedibile che rompe con il già dato della struttura e del sistema, con quello che tutti e sempre hanno fatto e fanno, la bontà, come vuole lo scrittore sovietico Grossman, è l'unica «follia» vera, perché infrange il determinismo dell'io, come desiderio e spinta irresistibile all'autocompimento, per farlo rinascere, ridefinendolo, a una nuova identità che è quella di essere non a servizio di sé ma dell'alterità dell'altro: «Essa, questa bontà folle, è quanto c'è di umano nell'uomo, è ciò che definisce l'uomo, è il punto più alto che abbia raggiunto lo spirito umano».[4]
    Al di là della metafora, la bontà è l'unico vero miracolo perché, in un mondo dominato dall'imperialismo dell'io, essa introduce all'orizzonte della solidarietà; una solidarietà non prodotta dall'io (essendo l'io, per costituzione naturale, capace solo di pensare a sé e al suo autocompimento), ma da lui accolta e assecondata in obbedienza a Dio che, apparendo all'uomo come il solidale, lo costituisce capace, liberandolo da sé, di essere altrettanto.
    Chiamato alla bontà o alla solidarietà: questa è, per la Bibbia - e per la liturgia che riattualizza - l'identità ultima e radicale del soggetto umano. Per essa l'uomo si realizza, nella verità, non quando porta a compimento i suoi bisogni ma quando, oltre il bisogno, si scopre soggetto responsabile dalle cui mani e dal cui cuore dipende - come Abele da Caino - la vita dell'altro.
    La liturgia della parola, attraverso la sua struttura dialogica di Dio che parla e dell'uomo che vi risponde, dispiega e realizza, a livello simbolico e rituale, l'evento di questa solidarietà che, provenendo da Dio il solidale, coinvolge e avvolge l'uomo costituendo anche lui, nella forza


    NOTE

    [1] Oltre che alla fragilità fisica il termine «carne», soprattutto nell'antropologia paolina, rimanda anche alla fragilità morale, e indica la comune condizione umana segnata dall'alienazione del peccato e incapace, pertanto, di bontà. Ma per il momento è necessario restare a questa accezione anticotestamentaria, emergendo la seconda nel capitolo successivo, soprattutto in quello dedicato al sacrificio.
    [2] Per l'importanza e il valore di questa categoria mi permetto di rimandare ai miei due libri L'Eucaristia terra di benedizione. Saggio di antropologia biblica, Dehoniane, Bologna 1987 e a Parola e Terra. Per una teologia dell'ebraismo, Marietti, Genova 1990.
    [3] In J.J. PETUCOWSKI, «I nostri maestri insegnavano...». Storie rabbiniche, Morcelliana, Brescia 1983, p. 69.
    [4] V. GROSSMAN, Vita e destino, Jaca Book, Milano 1984, p. 407.


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