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    Il Dio della vita e la storia umana (cap. 6 di: Il Dio di Gesù)


    Luis A. Gallo, IL DIO DI GESÙ. Un Dio per l'uomo e in cerca dell'uomo, Elledici 1991



    1. Un modo originale di concepire il tempo

    Oltre ad essere riconosciuto come il Creatore di tutto -natura e uomo-, nella Bibbia dell'Antico e del Nuovo Testamento il Dio Uni-trino della Vita è pensato, acclamato e celebrato come il Signore della storia.
    Anzi, questo secondo tratto è in essa ancora più sottolineato del primo, il quale alla sua luce acquista anche delle sfumature proprie. Come abbiamo visto, infatti, la creazione viene pensata dalla fede biblica come il primo atto di una lunga e meravigliosa storia, la storia della salvezza di Dio in favore degli uomini.
    In questo punto la singolarità del popolo d'Israele spicca in modo del tutto particolare nei confronti dei popoli che l'attorniavano. E non solo di essi, ma in genere di tutti gli altri popoli dell'epoca.
    Il popolo dell'A.Testamento ha effettivamente una concezione propria e peculiare del tempo, nella quale esercitò probabilmente un influsso notevole la sua esperienza originaria di vita, esperienza che ebbe a sua volta i suoi riflessi nel suo modo di concepire il divino.

    1.1. Gli altri popoli: un tempo circolare

    Per capire ciò bisogna ricordare che i popoli antichi erano in genere molto legati al giro ripetitivo degli astri, soprattutto della luna e del sole, e in forma più accentuata a quello di quest'ultimo.
    Per uomini che vivevano prevalentemente dell'agricoltura, l'astro solare aveva un'importanza determinante. Già il suo giro giornaliero scandiva l'orario delle loro attività; ma specialmente il suo giro annuale regolava la maggior parte delle loro attività: aratura della terra, seminagione, raccolta, erano operazioni governate dalle fasi solari.
    Non per niente molti popoli adoravano questo astro splendente come la suprema divinità, e festeggiavano con riti solenni la sua nascita annuale, dopo la sua scomparsa quasi totale nel cuore dell'inverno, come liturgia della sua risurrezione.
    Essi concepivano il tempo in cui vivevano la loro esistenza come un riflesso, imperfetto e pallido naturalmente, del "tempo degli dèi". Un tempo che gira incessantemente su se stesso, come il giorno nelle sue successive fasi e come l'anno cosmico nelle sue stagioni, quasi un serpente che si morde la coda. È la concezione che affiora nel detto ancora oggi popolare: "È la ruota della vita!"
    Non pochi di questi popoli espressero il loro modo di concepire le cose mediante il conosciuto "mito dell'eterno ritorno" (M.Eliade).
    In questo contesto veniva data un'importanza rilevante alla celebrazione dell'inizio dell'anno. Era il momento in cui, lasciando indietro ciò che era ormai vecchio e logoro, si cominciava da capo. Si ritornava alle origini, all'epoca d'oro, al "paradiso terrestre" che costituiva come l'epoca idillica dell'esistenza del mondo e dell'uomo. Da essa il tempo procedeva degradandosi fino ad arrivare al decadimento totale e alla morte, per rinascere nuovamente, fresco e pieno di forze, nel ritorno alla sua sorgente primigenia.
    In poche parole, per i popoli antichi ciò che era migliore restava sempre alle spalle. E, inoltre, nulla di veramente nuovo poteva avvenire. Tutto era in definitiva ripetizione di quanto era già avvenuto.
    Un libro della Bibbia, la quale come vedremo d'altronde ha nel suo insieme una maniera diversa di concepire le cose, raccoglie questo modo di pensare nelle seguenti frasi: "Il sole sorge e il sole tramonta, e anela al suo luogo donde nuovamente si leva ... Ciò che è stato è quello che sarà, e ciò che si è fatto è ciò che si farà: niente di nuovo avviene sotto il sole" (Eccl 1,5.9).
    Un tale modo di concepire il tempo teneva di conseguenza legati gli uomini e i popoli al presente quale ripetizione del passato. Essi preferivano ripetere ciò che era già stato fatto per assicurarsi la benedizione divina. Il futuro, il futuro della vera novità, non esisteva.

    1.2. Israele: un tempo teso verso il futuro

    Nel popolo d'Israele le cose venivano pensate molto diversamente da questo punto di vista. Abbiamo già fatto notare nel capitolo secondo come esso sia rimasto sempre segnato, anche nella sua fede, dalla sua esperienza iniziale di popolo seminomade: "Mio padre era un arameo errante", dicono le prime parole del "credo" rituale nella celebrazione delle primizie al Tempio (Dt 26,5).
    I Patriarchi, infatti, non erano agricoltori, ma uomini "da tenda", che vivevano prevalentemente del loro bestiame. Da esso ricavavano cibo, vestito e pelle o stoffa per la loro abitazione. Per nutrire il loro bestiame si spostavano costantemente verso luoghi che offrissero dei pascoli abbondanti. Esaurita la possibilità di averli in una zona, arrotolavano le tende e se ne partivano in cerca di un'altra.
    Secondo la Bibbia fu in quelle condizioni di vita seminomade che il loro capostipite, Abramo, fu raggiunto dal Dio che fece alleanza con lui e lo invitò ad uscire dalla sua regione per andare verso una terra nuova e sconosciuta (Gen 12, 1ss).
    E, dopo di lui, anche i suoi figli Isacco e Giacobbe, come anche i dodici figli di quest'ultimo, che diedero i natali alle dodici tribù d'Israele, condussero un simile genere di vita.
    Anche dopo la loro liberazione dall'Egitto, dove si erano trasformati a poco a poco in fabbricatori di mattoni per la costruzioni delle città-deposito del Faraone (Es 5,6), i discendenti di Abramo dovettero fare un lungo pellegrinaggio prima di entrare nella terra nuova che era stata loro promessa da Dio. Durante questo lungo pellegrinaggio di quarant'anni, essi abitarono in tende, come i Patriarchi, e il loro Dio li accompagnava costantemente. Anch'Egli era un Dio-da-tenda.
    La "tenda di convegno" (Es 25,22; 29,42-43; 33,7-11), fatta da Mosè dietro ordini divini e dove egli stesso e il popolo potevano parlare con Dio presente tra i cherubini dell'arca dell'alleanza, accompagnava nel deserto la carovana, precedendola. Quando il popolo sostava, anch'essa sostava con lui, e quando il popolo doveva riprendere la marcia, essa veniva smontata e portata a spalle fino alla prossima sosta, dove nuovamente veniva rimontata (Nm 10,17).
    Era il luogo della presenza di Dio in mezzo al popolo che aveva scelto come alleato.
    In questo modo, il Dio che aveva strappato Israele dall'umiliante schiavitù egiziana e gli aveva aperto una possibilità di novità, di futuro e di vita, lo rimetteva costantemente in marcia verso quel futuro da Lui stesso promesso.
    Era un Dio che non permetteva al suo popolo di starsene definitivamente istallato nelle stazioni intermedie. Lo spingeva a rimettersi sempre in cammino.

    1.3. Un tempio per un Dio "nomade"

    Una volta arrivato alla terra della promessa, Israele soffrì a poco a poco un processo di sedentarizzazione. Diventò anch'esso un popolo prevalentemente agricolo, e questo processo ebbe dei profondi effetti sulla sua concezione di Dio.
    Anzitutto, ad un certo momento della sua storia, sotto il regno di Salomone, venne costruito un tempio al Dio d'Israele. Da allora, anziché dimorare in una tenda mobile, facilmente arrotolabile e spostabile, Egli cominciò ad abitare in un edifizio stabile, saldamente radicato nella roccia del Monte Sion, a Gerusalemme, la città conquistata da Davide dai Gebusei che l'abitavano.
    Vanno rilevate due cose al riguardo, due cose che permettono di cogliere quanto quell'immagine del Dio-da-tenda sia rimasta profondamente ancorata nella fede del popolo.
    La prima è che la costruzione del tempio dedicato a Jahvè fu fortemente contestata. Se ne trovano tracce nel libro secondo di Samuele. Vi si legge infatti che il profeta Natan, rivolgendosi a Davide, che gli aveva manifestato il desiderio di sostituire la tenda in cui si trovava l'Arca dell'alleanza con un tempio, gli disse a nome di Dio: "Sarai forse tu che mi edificherai una casa perché vi abiti? Io non ho dimorato in nessuna casa, dal giorno in cui trassi i figli d'Israele dall'Egitto fino ad oggi, ma ho dimorato sempre in aperta campagna sotto una tenda e sotto un padiglione. Dovunque sono andato peregrinando insieme ai figli d'Israele, ho detto forse a qualcuno dei giudici ...: perché non mi costruite una casa di cedro?" (2 Sam 7,5-7).
    La voce del Profeta esprime la sensibilità di coloro che nel popolo avevano una chiara coscienza della singolarità del loro Dio: Egli era stato e doveva rimanere un Dio-da-tenda.
    La seconda cosa da rilevare è che, secondo la Bibbia, anche quando il grande tempio fu costruito, esso, e soprattutto la sua parte più sacra, quella che venne chiamata "il Santo dei Santi", dove risedeva lo stesso Jahvè tra le ali dei cherubini, ricalcava esattamente quella che, secondo la tradizione, era la tenda di Dio nel deserto (2 Sam 6,15-30).
    È probabile che le cose siano andate diversamente, che cioè chi ha descritto la costruzione della tenda di Jahvè nel deserto si sia ispirato alla realtà del tempio di Gerusalemme venuto parecchi secoli dopo, ma ciò interessa poco. Quel che conta invece è che anche il tempio, pur essendo un edificio solido e stabile, si rifa all'immagine del Dio-da-tenda che presiede la fede d'Israele.
    Quest'immagine continuerà poi viva anche tra i cristiani, come lo lasciano intravedere alcuni dati degli scritti del N.Testamento. Due sono i più rilevanti al riguardo.
    Il primo ci è fornito dal vangelo di Giovanni. Nel solenne prologo con cui esso si apre, parlando di Gesù quale Parola di Dio che viene al mondo per la salvezza degli uomini, condensa tutta la sua vicenda in questa espressione: "E la Parola si fece carne, e pose la sua tenda in mezzo a noi" (Gv 1,14).
    In questo modo, la presenza salvifica definitiva di Dio nel mondo, viene concepita come presenza in una tenda. Ciò che era la "tenda di incontro" nell'A.Testamento, luogo della presenza di Dio per il popolo nel suo pellegrinaggio verso la terra della promessa, ora lo è Gesù di Nazaret in persona: Egli è l'Emmanuele, il Dio-con-noi, ma come Dio-da-tenda.
    L'altra dato neotestamentario ci viene offerto dall'ultimo libro della Bibbia, l'Apocalisse di Giovanni. In esso Dio appare soprattutto come un Dio che, nel Cristo e mediante lo Spirito, porta la storia dell'umanità al raggiungimento della sua meta, al suo Futuro definitivo.
    Lo scrittore, descrivendo questi momenti futuri finali e utilizzando delle immagini prese dall'A.Testamento, dice: "Poi vidi un cielo nuovo e una terra nuova ... Allora vidi la Città santa, la nuova Gerusalemme ... e udii venire dal trono una gran voce che diceva: 'Ecco la tenda di Dio fra gli uomini'" (Ap 21,1-3).

    1.4. Le tentazioni d'Israele

    Oltre alla costruzione del tempio, un altro effetto della suaccennata sedentarizzazione d'Israele fu quello della sua tendenza a "baalizzare" il suo Dio.
    Questa baalizzazione costituì una tentazione costante per il popolo. I frequenti rapporti con i popoli cananei, tra i quali riuscì a situarsi dopo numerose vicende, lo portò spesso a mescolare sincretisticamente la sua fede con la loro religione.
    La religiosità cananea era una religiosità di tipo cosmico, strettamente vincolata alla ciclicità e alla fertilità della natura, che trovava nel culto al dio Baal -"il Signore"- la sua massima espressione. E Baal era la personificazione delle forze della natura. Era il dio che rendeva feconda la terra mediante le piogge e le rugiade, che faceva crescere e maturare il grano, che portava a maturazione i campi.
    La diversità tra Baal e Jahvè era profonda. Appunto perché quest'ultimo era un Dio manifestatosi inizialmente in un avvenimento storico e che si continuava a rivelare come un Dio della storia.
    Il suo culto differiva anche profondamente dal culto cananeo a Baal, privo di ogni vera esigenza etica per la vita di coloro che vi prendevano parte e che, soprattutto, anziché smuovere i suoi partecipanti dal presente in vista di un futuro, li manteneva legati a tale presente. Nulla di veramente nuovo poteva uscire dalle sue celebrazioni, per attraenti e appaganti che esse fossero.
    E sembra che attraenti lo fossero davvero per gli israeliti. Almeno se si deve giudicare dal fascino che esercitavano su di essi. Più di una volta l'intero popolo, o gruppi di esso al suo interno, si lasciarono sedurre da esse. E le frequentarono con intensità. Erano molto meno esigenti di quelle che si facevano in onore dello scomodo Dio Jahvè.
    Un episodio nella Bibbia mette chiaramente a nudo questa tendenza sincretistica del popolo veterotestamentario a mescolare il culto di Jahvè con il culto di Baal: quello del vitello d'oro (Es 32,1-6). Probabilmente non si tratta solo di un fatto puntuale, ma riflette invece una situazione vissuta ripetutamente nell'esperienza d'Israele.
    Il vitello era in Oriente il simbolo della divinità, e soprattutto della sua forza e fecondità. Un simbolo anche quindi di Baal, il dio principale del panteon cananeo.
    Nella narrazione è chiara la prospettiva sincretistica: il popolo, stanco di aspettare Mosè, salito sulla montagna per parlare con Dio, chiese ad Aronne, il Sommo Sacerdote e fratello del condottiero: "Su, facci un dio che vada innanzi a noi" (v.1). E quando Aronne, cedendo alle pressioni, presentò il vitello che aveva fatto con il loro oro, essi esclamarono: "O Israele, questo è il tuo Dio, che ti ha liberato dall'Egitto" (v.4).
    Restava sullo sfondo la figura di Jahvè, il Dio della liberazione e della storia, ma essa veniva sopraffatta dall'immagine di Baal, il dio del ciclo eterno delle stagioni.

    1.5. I Profeti: per un Dio del futuro e della novità

    Si capisce in questo contesto l'intervento spesso sconcertante dei profeti, che alle volte acquista dei risvolti di cruda radicalità. Uomini pieni di zelo per Jahvè e per la vita e il futuro del popolo, essi non potevano sopportare una tale ambiguità.
    Tra tutti spicca Elia, all'epoca del re Acab. Il suo stesso nome era tutto un programma: "El-Jah" significa "Jahvè è Dio!".
    Il suo zelo per la purezza dell'immagine del Dio della storia trova la sua massima espressione nella narrazione della sfida da lui lanciata al popolo davanti ai sacerdoti di Baal, introdotti spudoratamente in mezzo ad esso dalla regina Gezabele, figlia di Et-baal, re dei Sidoni (1 Re 18,20-40) e moglie di Acab.
    La sfida di Elia era rivolta ai sacerdoti di Baal, ma con l'intenzione di provocare il suo popolo: "Fino a quando zoppicherete da due parti? Se il vero Dio è Jahvè, seguitelo; se invece è Baal, seguite lui" (v.21). Il popolo seguì in silenzio lo svolgimento della vicenda. I sacerdoti di Baal non riuscirono a far scendere fuoco dal cielo; il fuoco invocato da Elia, invece, consumò non solo l'olocausto, ma anche la legna, le pietre e persino la polvere, assorbendo l'acqua che riempiva il fossatello costruito attorno (v.38).
    La narrazione biblica finisce laconicamente, con un epilogo per noi raccapricciante: "Elia ordinò loro: 'Prendete i sacerdoti di Baal: non ne scampi nemmeno uno!'. Essi li presero ed Elia li fece scendere presso il torrente Cison, dove li sgozzò" (v.40).
    Forse ci produce ribrezzo il comportamento del profeta. La nostra sensibilità odierna non sopporterebbe cose del genere. Occorre però situarsi nell'epoca per coglierne l'intenzione profonda: si trattava di salvare il futuro del popolo, minacciato dalla sua apostasia dal Dio che l'aveva liberato dall'Egitto in vista di un grande futuro.
    Sullo sfondo di quest'esperienza e rinforzata da essa c'è, quindi, una diversa concezione del tempo. Mentre infatti, come è stato detto, gli altri popoli lo concepivano circolarmente, annullando di conseguenza qualunque possibilità di vera novità, il popolo d'Israele lo concepì escatologicamente, ossia in forma lineare e in tensione verso un futuro aperto al nuovo, all'inedito.
    In tale maniera questo popolo contribuì singolarmente a creare nell'umanità il senso storico, spezzando il circolo fatale del tempo.
    È vero, anche Israele conobbe un "paradiso terreste" situato letterariamente agli inizi del tempo. Le narrazioni del libro della Genesi a cui abbiamo accennato nel capitolo precedente si rifanno ad esso. Ma la concezione che ne ha la Bibbia è molto diversa da quella delle altre mitologie antiche. Per essa, in realtà, quel paradiso terrestre è una specie di profezia del futuro definitivo dell'uomo. Esso è davanti a lui, non dietro.
    Se si legge in profondità tutta la Scrittura, si scoprirà che la prima pagina del Genesi, quella che gli studiosi chiamano la "protologia", e l'ultima pagina dell'Apocalisse, quella che chiamano la "escatologia", coincidono.
    Di questa storia, di questo cammino che si snoda nella creazione e si conclude nella "Gerusalemme celeste", con "i nuovi cieli e la nuova terra", il Dio della Vita è, secondo la fede dell'Antico e del Nuovo Testamento, il Signore.

    2. Dio, gli uomini e la storia

    Quanto abbiamo detto significa che il Dio della Vita rivelato definitivamente in Gesù Cristo è un Dio che, pur essendo al di fuori della dialettica Vita-Morte nel cui seno si dibattono gli uomini, per propria decisione, e in forza della sua assoluta volontà di Vita per essi, si coinvolge in tale dialettica.

    2.1. La maestosa santità di Dio

    Che questo Dio sia di per sé al di fuori della dialettica Vita-Morte, la Bibbia lo sottolinea ad ogni momento.
    Essa è profondamente convinta che Egli è il Vivente, e che la Morte non ha niente a che vedere con Lui. Egli è l'Eterno, colui che vive "per i secoli dei secoli", espressione classica con la quale si esprime la pienezza di Vita senza limiti di nessun genere.
    Un modo caratteristico di affermare questa condizione del Dio Vivente è quello di proclamare che Egli è "santo".
    Nella narrazioni delle chiamate a svolgere una missione a servizio del popolo c'è sempre, sia nell'Antico quanto nel Nuovo Testamento, una forte esperienza di questa santità di Dio.
    Bastano alcuni pochi esempi per confermarlo.
    Nel capitolo terzo del libro dell'Esodo viene narrata la chiamata di Mosè, il grande condottiero del popolo verso la libertà. Tale chiamata è preceduta da un'esperienza che, simbolicamente, viene rappresentata dalla visione del roveto ardente (Es 3,1-6): Mosè lo vede ardere senza consumarsi; la voce di Dio risuona solenne: "Non ti avvicinare! Togliti i sandali dai piedi perché il luogo dove sei è terra santa". La presenza del Dio santo comunicava santità alla terra, la rendeva santa.
    Alla fine dell'esperienza, Mosè viene inviato a liberare il popolo schiavo in Egitto.
    Forse più impressionante ancora è la narrazione della chiamata del profeta Isaia. Egli vede Jahvè seduto sopra un trono alto ed elevato; dei misteriosi esseri alati stanno riverenti davanti a Lui, e proclamano a voce alta: "Santo, santo, santo è Jahvè, Dio dell'universo" (Is 6,1-3). In presenza di questo Dio tre volte santo il profeta si sente "impuro".
    Dopo l'intervento purificatore di Dio, che simbolicamente gli fa toccare le labbra con un carbone ardente, egli viene inviato a comunicare al popolo le parole di Dio.
    Per ciò che riguarda il Nuovo Testamento basti ricordare l'episodio della chiamata di Simon Pietro narrata da Luca (Lc 5,1-11). La pesca miracolosa avvenuta dietro l'ordine di Gesù di gettare le reti in un momento completamente inadeguato per la pesca, fa prendere coscienza a Pietro di essere in presenza di qualcosa di straordinario. Un timore sacro, tipico di chi si trova alla presenza del Dio santo, s'impadronisce di lui: "Allontanate da me, Signore, che sono un uomo peccatore", esclama; ma Gesù lo rasserena: "Non temere, d'ora in poi tu sarai pescatore di uomini" (v.10).
    Attribuire a Dio la santità equivale ad affermare la sua trascendenza. La Bibbia non conosce questa categoria della nostra filosofia occidentale, ma conosce bene la realtà che essa esprime. Il Dio Vivente è "l'Altro", Colui che è "al di là", il "Separato". Egli non è neanche sfiorato dalla Morte che è invece di casa nel mondo degli uomini. Egli è "il Puro", "il Santo", appunto perché è "il Vivente".
    È questa santità del Dio salvatore del popolo e suo alleato ciò che fonda l'esigenza di santità del popolo stesso. "Siate santi perché io sono Santo" (Lv 19,2), è la frase che precede tutta la serie di precetti rituali e morali proposti a Israele. Appartenere al Dio santo vuol dire dover essere santi, separati da ciò che è impuro.

    2.2. Un Dio santo che si cala nella storia

    Ora, secondo la costante testimonianza della Bibbia stessa, questo Dio Santo e Trascendente non ha voluto restare chiuso nella sua eterna pienezza di Vita. Egli ha voluto invece rendersi immanente, entrare nel mondo dell'uomo, calarsi nella antitesi Vita-Morte in cui egli porta avanti la sua esistenza.
    Questa è la grande bella notizia di cui è portatrice la fede biblica. È un vero vangelo già sin dall'Antico Testamento.
    Ciò significa, concretamente, che il Dio della Vita ha voluto liberamente entrare nella storia umana, profondamente ferita di Morte in forza di una libera scelta dell'uomo (Gen 3,1-24), per farla andare verso la risurrezione totale, verso la risoluzione della dialettica Vita-Morte dalla parte della Vita.
    La risurrezione di Gesù Cristo è la massima conferma di quanto stiamo dicendo.
    Come canta una antica composizione poetica della liturgia pasquale, nel momento culminante della vicenda di Gesù di Nazaret "la Vita e la Morte si sono affrontate in un duello colossale; il Condottiero della Vita, per un momento morto, ora regna Vivo".
    S. Paolo, parlando di Gesù morto e risorto, Vivo per sempre, afferma che egli è "l'uomo della fine" dei tempi. È come se dicesse che egli anticipa in sé, per il fatto di essere pienamente Vivente, la meta della storia dell'intera umanità.

    3. Lo spessore divino della storia umana

    Quanto abbiamo detto mette in evidenza anzitutto la densità e lo spessore divino della storia umana.
    Alla luce delle fede nel Dio della Vita e Signore della storia quest'ultima non è il semplice gioco delle libertà umane; è anche, pur rimanendo integra nella sua densità e nella sua autonomia umane, il luogo dove questo Dio e il suo progetto di Vita per l'uomo camminano nel tempo.
    Perché pensavano in questo modo i profeti d'Israele si sforzarono di discernere, in ciò che avveniva nella storia del popolo, la presenza e l'azione di Dio.
    Mosè fu il primo di essi (Nm 12,7). Egli colse, nel complesso avvenimento storico dell'esodo dall'Egitto, la presenza salvifica di Jahvè e aiutò il popolo a percepirla. Per loro l'esodo non fu un avvenimento puramente socio-politico, il gioco di due libertà collettive in conflitto che si risolve con il trionfo della più debole delle due, ma è anche, e in ciò stesso, manifestazione dell'intervento potente del Dio salvatore.
    Dopo Mosè, tutta una schiera di profeti mantennero viva la propria vigilanza e quella del popolo verso quanto accadeva nella sua storia, e anche nella storia di altri popoli, per scoprirvi ciò che conduceva verso la Vita o verso la Morte.
    Elia, Isaia, Amos, Geremia, Ezechiele, Daniele, per non ricordare che alcuni di essi, furono tutti uomini che, pieni di zelo per il Dio Jahvè, servirono il popolo aiutandolo a discernere gli avvenimenti, piccoli o grossi, della sua storia.
    E, all'interno di questo loro discernimento, una preoccupazione resta sempre centrale: la situazione dolorosa e precaria dei più piccoli e poveri. I profeti sono sensibilissimi alla Vita e alla Morte di coloro che nel popolo sono i più deboli, i più emarginati e spogliati, gli ultimi. Sono convinti che il Dio della Vita ha le sue preferenze per essi, appunto perché Egli sa che essi sono coloro in cui la presenza della Morte è più palese. Egli vuole essere la loro difesa, il loro Salvatore.
    Perciò i profeti vigilano sopra le condotte, sopra gli atteggiamenti, sopra i rapporti che si creano all'interno del popolo e dei popoli, sopra gli avvenimenti che ne svelano il senso. Nel nome di Dio essi denunciano tutto ciò che produce la loro Morte.
    Gesù, stando agli scritti del N.Testamento, venne anche ritenuto un profeta dalla gente, anzi come "il Profeta" preannunciato per gli ultimi tempi (Gv 6,14). Ed egli lo fu davvero. Portò avanti la sua missione difendendo nel nome del Dio Vivente la Vita di tutti, ma in maniera del tutto particolare dei più "moribondi", di coloro cioè che la cattiveria e la durezza di cuori degli altri lasciava "semivivi" al margine della strada. Con tanta forza e con tanta veemenza prese partito per essi, che scatenò le ire di coloro che si sentirono toccati nel vivo dalla sua parola profetica e lo misero a morte.
    Egli è anche profeta nel senso che interpreta la storia alla luce di Dio. Lo mette bene in evidenza la narrazione dell'episodio dei due discepoli che, il giorno di Pasqua, se ne andavano tristi da Gerusalemme verso quel paesetto, non molto distante dal luogo della sua morte, chiamato Emmaus (Lc 24,13-32). Gesù, già risorto, si affianca a loro e, facendo strada con essi, li aiuta a cogliere, nell'avvenimento della sua crocifissione e della sua morte, l'intervento salvifico di Dio per eccellenza. La narrazione conclude dicendo che "si aprirono i loro occhi" e videro. Anch'essi colsero lo spessore divino dell'avvenimento storico.

    4. Un Dio "rivoluzionario"

    In tutto ciò appare anche chiaro che il Dio della Vita è il grande Pro-vocatore della storia, Colui che non lascia mai tranquillo l'uomo nella sua conquista di Vita del presente, che lo sollecita costantemente a sottoporre a critica ogni conquista fatta in quanto essa non è ancora il Futuro, con la maiuscola, dal momento che racchiude in sé la presenza della Morte.
    Questo Dio è, per esprimerci in parole oggi facilmente intelligibili, "l'anti-statu-quo" dell'umanità, tanto a livello personale quanto a livello collettivo.
    Più di una volta, invece, attraverso i secoli, il Dio della fede cristiana è stato presentato come una assicurazione del presente, spesso pieno di manifestazioni di Morte sia nei rapporti tra i gruppi umani sia nelle strutture di diversa indole in cui essi si cristallizzano.
    Basti pensare, per esempio, a quei tempi in cui la schiavitù dei negri veniva fondata sulla volontà di questo Dio espressa nella Bibbia, manipolando a tale effetto testi come quelli di Gen 9,25, nel quale la maledizione lanciata da Noè su Cam e i suoi discendenti in ragione del loro peccato, si esprime in termini di schiavitù verso i loro fratelli.
    Altre volte, invece, questo Dio è stato strumentalizzato ai fini di arginare movimenti che si battevano per un profondo e radicale cambiamento di situazioni di ingiustizia, come si è visto nel secolo scorso nei confronti dei movimenti di indipendenza dei popoli dell'America Latina e poi dell'Africa e dell'Asia.
    In realtà, niente di tutto ciò poteva pretendere di trovare giustificazione nel Dio della Vita. Anzi, questo Dio smaschera tali pretese come sconfessava già Baal e il suo culto nell'Antico Testamento. Il Dio Signore della storia è, necessariamente, un Dio tutt'altro che anestetizzante: è una forza colossale di ribaltamento di tutto ciò che non produce Vita tra gli uomini. Così come si è manifestato in Gesù di Nazaret, Egli è perfino un Dio "sovvertitore" del disordine presente, appunto perché vuole il Futuro migliore e diverso, più carico di promesse e di doni di vita, per gli uomini.


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