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    Gesù vivo nella pienezza della vita (cap. 7 di: Gesù di Nazaret)


    Luis A. Gallo, GESÙ DI NAZARET. La sua storia e la sua grande causa per la vita dell'uomo. Elledici 1991


    1. Dopo la croce e la morte

    La causa per la quale Gesù di Nazaret era vissuto con tanta passione sembrò fallire completamente con la sua morte. Dai tetti in giù, infatti, tutto finì in un clamoroso fallimento, simile a quello di un certo Teuda e quello di un certo Giuda il Galileo, ricordati dal prestigioso dottore della legge Gamaliele nel suo discorso riportato in At 5,36-37.
    Gli avversari di Gesù pensarono di averla avuta vinta. Eliminando lui, pensavano di aver eliminato anche la sua scomoda proposta.
    Ma si sbagliarono. A differenza di quanto avvenne nei due casi sopra menzionati, dietro a lui una schiera di uomini e donne, prima del suo stesso popolo e poi di tanti altri popoli nella storia, fecero propria la sua proposta e cercarono di realizzarla.
    Ciò che scatenò questo processo che cammina nella storia dell'umanità da quasi due mila anni, fu la certezza che quel Gesù che avevano visto veramente morire tra le atroci e umilianti sofferenze della croce, era vivo (At 1,3; 25,19; ecc.). E vivo di una vita piena e definitiva.
    Infatti, non molto dopo gli avvenimenti tragici di quel venerdì del mese che i giudei chiamavano di Nisan, il gruppo dei suoi più intimi, di quelli che l'avevano seguito da vicino per le vie della Palestina e che poi per paura lo aveva abbandonato nel momento cruciale (Mc 14,50), cominciò a proclamare con grande coraggio e con travolgente entusiasmo che Dio l'aveva risuscitato dai morti.
    Essi attestavano in molti modi di aver avuto esperienza di ciò che, in una formula condensata, si usa chiamare "l'avvenimento pasquale".

    2. Un avvenimento denso e sconvolgente

    Ciò che diede origine alla nuova situazione dei seguaci di Gesù fu, quindi, l'esperienza di un avvenimento storico straordinario.
    Storico nel senso che esso accadde nella storia dell'umanità e si rapporta, come vedremo, strettamente ad essa.
    Bisogna però rilevare subito che, anche in questo caso, come già in quello della fede d'Israele, non si tratta della semplice esperienza di un avvenimento storico "empirico", controllabile in quanto tale oggettivamente, ma dell'esperienza di un avvenimento vissuto come un fenomeno di schiudimento di senso (disclosure).
    Detto più semplicemente ciò significa che, a differenza di molti altri contemporanei, essi percepirono, in ciò che è avvenuto in quei giorni in Gesù di Nazaret e in loro stessi, e che per gli altri poteva essere un semplice avvenimento umano, risultato dell'intreccio di cause puramente umane, un'altra dimensione.
    La ragione di questa diversa percezione sta nel fatto che, come dice Luca, "si sono aperti i loro occhi" (Lc 24,31).
    Come fanno rilevare in genere gli studiosi della Bibbia, anche le narrazioni che essi ci hanno tramandato nei vangeli su tale avvenimento sono delle "riletture" fatte al servizio della fede concreta delle differenti comunità dei credenti a cui esse sono rivolte. Sono, quindi, espressioni di quella fede che li portò a scoprire l'altra dimensione delle cose di cui dicevamo sopra.
    Ma, indubbiamente, esse si rifanno a qualcosa di realmente avvenuto e che la fede è riuscita a cogliere.
    Questo "qualcosa" viene espresso negli scritti mediante formulazioni molto svariate, che vanno da ciò che viene chiamato il "kerygma", o primo e conciso annuncio, alle confessioni di fede più sviluppate, e dalle narrazioni delle apparizioni del Risuscitato alla constatazione del sepolcro vuoto, ecc.
    Ma l'importante è che tutte queste formulazioni ci tramandano un nucleo centrale, che costituisce veramente la cellula germinale della fede cristiana in quanto tale.

    3. Ciò che avvenne in Gesù

    È chiaro che l'avvenimento pasquale riguarda, in primo luogo, lo stesso Gesù di Nazaret in persona. È qualcosa che successe a lui e in lui anzitutto.
    Ridotto all'essenziale, quanto è accaduto a lui e in lui ricalca lo schema veterotestamentario dell'esodo dall'Egitto, con le carateristiche che gli sono proprie.
    Si configura, infatti, come un processo dinamico attraverso il quale, ad opera di Dio, Gesù di Nazaret esce da una situazione estremamente negativa in cui era andato a finire, verso una nuova situazione inimmaginabilmente positiva.
    Il punto di partenza del processo è la situazione di morte in cui, come abbiamo visto nel capitolo precedente, venne a trovarsi Gesù a un certo momento della sua attività per la causa del regno e a motivo del suo modo di comportarsi e di agire.
    Gli uomini del suo popolo -in realtà e più concretamente i suoi capi politici e religiosi- lo estromisero violentemente dalla società d'Israele, facendolo morire sulla croce della giustizia romana (At 2,23; 3,13b-15, ecc.).
    La sua non fu una morte solo corporale, ma anche psichica, sociale, e in certo senso religiosa, come si può cogliere seguendo con certa attenzione le narrazioni della passione dei vangeli.
    Dio però, il "Dio dei padri", intervenne con la sua "straordinaria potenza" (Ef 1,19-20), mediante la forza del suo Spirito (Rom 1,4), per strapparlo dai lacci dell'Abisso, ossia dal regno della Morte (At 2,24).
    Per esprimere la densa realtà di tale intervento gli scritti che lo descrivono si servono della categorie che i loro autori, riallacciandosi alla tradizione veterotestamentaria, avevano a disposizione. Lo presentano infatti come risurrezione di Gesù dai morti (At 2,24.32); come esaltazione sua alla destra di Dio (At 2,33); come sua glorificazione da parte di Dio (At 3,13); come costituzione di Gesù quale Messia e Signore (At 2,36, ecc.). Sono forme diverse di riferirsi sempre alla stessa realtà.
    Lo sbocco finale di questo intervento divino è la nuova situazione in cui Gesù viene a trovarsi: egli è ora "vivo" (At 1,3); anzi, è "il Vivente per i secoli dei secoli" (Ap 1,17). È "spirito vivificante" (1 Cor 15,45), e su di lui la Morte non ha più nessun potere (Rom 6,20).
    Come si vede, quindi, la risurrezione di Gesù è per i suoi discepoli molto di più della mera rianimazione del suo martoriato cadavere, deposto frettolosamente nel sepolcro da quell'onorevole membro del Sinedrio, Giuseppe d'Arimatea, sull'imbrunire di quel vernerdì tragico (Mc 15,42-47).
    È invece il suo passaggio da una condizione esistenziale ad una altra. S.Paolo dirà più tardi che è il passagio dalla condizione carnale alla condizione della gloria (Rom 1,3-4), e cioè da una esistenza umana abitata ancora dalla morte e, in certo senso, dal peccato che ne è la radice, ad un'altra nella quale si realizza il trionfo pieno e definitivo della Vita sulla Morte.
    Lo esprime molto poeticamente un antico testo liturgico, cantato per secoli nella celebrazione annuale della Pasqua: "La morte e la vita si sono scontrate in un duello formidabile. Il condottiere della vita, vinto dalla morte, ora regna vivo!".

    4. Ciò che avvenne nella comunità dei suoi discepoli e oltre

    Ma se l'avvenimento pasquale fu visto dai discepoli come avvenimento di salvezza, anzi come l'avvenimento di salvezza per eccellenza da parte di Dio, è perché erano convinti che esso non concerneva solo Gesù di Nazaret in persona, ma anche loro stessi e, più in là ancora, tutti gli uomini, l'umanità intera.
    È questa una convinzione profonda che la comunità neotestamentaria esprime in diverse maniere.
    Anzitutto, attribuendo a Gesù risorto una lunga serie di titoli, presi in genere dall'eredità dell'Antico Testamento che, pur nella loro diversità, esprimono tutti lo stesso schema fondamentale. Alcuni di essi erano già stati probabilmente usati dallo stesso Gesù per parlare di sé.
    Così, per esempio, egli viene riconosciuto come il "Messia" atteso per secoli quale re e salvatore; come il "Figlio dell'uomo" preannunziato in Dn 7; come il "Figlio di Dio" che realizza in pienezza la regalità messianica celebrata nei Salmi; come il "Signore" che ha in mano i destini della storia, ecc.
    Dandogli questi e altri simili titoli i primi credenti, tutti di estrazione giudaica e quindi di cultura fondamentalmente semita, non avevano l'intenzione di chiarire concettualmente la qualità dell'essere di Gesù di Nazaret. Volevano piuttosto esprimere l'esperienza di salvezza avuta in lui e grazie alla sua opera.
    Sono quindi titoli che mettono in evidenza piuttosto la funzione svolta da lui nella salvezza dell'umanità e non tanto il suo essere.
    Più tardi, essendo entrata in un'altro universo culturale di tipo ellenistico e in occasione delle discussioni intavolate con gli eretici, la comunità ecclesiale sentirà il bisogno di esplicitare e perfino di formulare dogmaticamente il secondo degli aspetti suaccennati.
    Così arriverà a mettere in evidenza, per esempio, l'uguaglianza nell'essere divino con il Padre che il titolo "Figlio di Dio" comporta.
    La prima comunità proclama, inoltre, Gesù risorto quale "primizia" (1 Cor 15,22-23) e "primogenito tra i morti" (Col 1,18b).
    Sono due immagini molto pregnanti con le quali cerca di tradurre ciò che la sua fede scopre nella nuova situazione di Gesù e nel suo rapporto con l'umanità intera.
    La prima è presa dall'esperienza cultuale degli ebrei. In una delle loro feste, quella detta delle Settimane (Nm 28,26-31), celebrata quando le messi cominciavano ad albeggiare, prendevano le prime spighe mature e le portavano in ringraziamento al Tempio. Per i credenti Gesù è, in forza della sua risurrezione, come la prima spiga matura del campo dell'umanità. Egli preannuncia e anticipa personalmente quanto deve avvenire, secondo il desiderio di Dio, per tutte le altre spighe.
    La seconda ha come sfondo la situazione di morte in cui si trovano gli uomini. Uno tra essi, Gesù appunto, viene per primo generato alla Vita. Dietro a lui, devono venire tutti gli altri. Dio vuole, infati, che egli sia il Primogenito di una moltitudine incontabile di fratelli.
    Un secondo modo con cui la comunità credente esprime la sua convinzione circa la portata dell'avvenimento pasquale, è la proclamazione gioiosa dell'avveramento in esso della Promessa di benedizione fatta da Dio all'inizio del tempo, e portata in grembo alla speranza da Israele per secoli (At 3,25-26).
    I discepoli di Gesù sanno che, all'umanità caduta per propria colpa nei lacci della morte, il Dio Vivente ha promesso, nel suo amore indefettibile, benedizione e vita strarippante (Gen 3,15 e Gen 12,3). Sanno anche che per millenni gli uomini hanno aspettato, consciamente o inconsciamente (At 17,27), la realizzazione di tale promessa. Sono vissuti schiavi della Morte e della paura di essa (Eb 2,15).
    Ora però, dopo secoli di preparazione, Dio ha cominciato a realizzare in pienezza la sua promessa nella persona di Gesù. È lui "la discendenza della donna" che schiaccia il capo del serpente antico, il nemico ultimo dell'uomo: la Morte (1 Cor 15,26).
    Ormai possono essere sicuri: essa non è l'ultima parola sull'uomo, l'ultima parola è invece la Vita.
    Un terzo modo in cui viene espressa la suaccennata convinzione è la certezza con cui la comunità vive le diverse manifestazioni dello Spirito che, attraverso doni ordinari e anche straordinari, avvengono al suo interno.
    I discepoli danno così chiari segni di sentirsi i destinatari dell'effusione dello Spirito di Dio promessa dai Profeti per gli ultimi tempi (Is 44,2; Ez 36,27; Gl 5,1-3).
    Nel libro degli Atti, vengono attribuite a Pietro nel suo primo discorso, il giorno della Pentecoste, queste parole: "Questi uomini non sono affatto ubriachi, come voi pensate... Si realizza invece quello che Dio aveva annunziato per mezzo del profeta Gioele!" (At 2,1-4, ecc.).
    C'è un bel testo del vangelo di Giovanni che lo mette in evidenza. Vi si racconta che, l'ultimo giorno della festa delle Tende, mentre si faceva il rito con cui si implorava la pioggia per i campi e si ricordava il miracolo dell'acqua viva sgorgata durante la marcia del popolo nel deserto, Gesù si mise in piedi e gridò: "Se uno ha sete si avvicini a me, e chi ha fede in me beva! Come dice la Bibbia: da lui sgorgheranno fiumi di acqua viva" E spiega l'evangelista: "Gesù diceva questo, pensando allo Spirito di Dio che i credenti avrebbero poi ricevuto. A quel tempo lo Spirito non era stato ancora dato, perché Gesù non era ancora stato innalzato alla gloria" (Gv 7,37-39).
    La glorificazione di Gesù, quindi, avvenuta con la sua risurrezione, comportò la "spiritualizzazione" totale del suo essere. Non nel senso di una negazione della sua corporalità, ma in quello di una totale presenza in lui dello Spirito. Tanto che Paolo, in una delle sue lettere, arriva ad affermare: "Il Signore [cioè Gesù risorto] è lo Spirito" (2 Cor 3,17). Egli è, di conseguenza, forza divina vivificante per tutti.
    Ormai però lo Spirito vivificante non è proprietà solo di Gesù, ma viene comunicato "ad ogni carne" (At 2,17).
    E la presenza dello Spirito produce tra altri effetti nei discepoli una gioia indicibile, anche in mezzo alle più incalzanti difficoltà. Il libro degli Atti ripete ad ogni momento, infatti, quasi come un ritornello, che essi erano "pieni di gioia" (2,46; 8,8.39; 13,48.53; 16,34).
    La comunità dei discepoli manifesta, ancora, la sua convinzione sul significato di salvezza della risurrezione di Gesù mediante una nuovo stile di vita.
    Essi cercano, infatti, di avere tra di loro "un cuor solo e un'anima sola", e di mettere "tutto in comune" affinché tra di loro "non ci sia nessun bisognoso" (At 4,32-35).
    È un modo con cui intendono vincere la morte. Quella della solitudine, con la cordiale convivenza fraterna; e quella della privazione materiale, con la condivisione dei loro beni.
    La solidarietà che Gesù aveva proclamato stando con loro come valore primordiale del regno, ora, nella sua assenza visibile, la vivono intensamente. Essi sono, in miniatura, l'ideale del regno.
    Infine, è anche espressione importante della loro convinzione sul significato della Pasqua, l'impegno attivo, provocato e sostenuto dallo Spirito, nell'azione rivolta a salvare gli uomini dalle diverse forme di presenza della Morte.
    Essi infatti, come narrano gli Atti degli Apostoli, guariscono ammalati dalle loro infermità, liberano gli oppressi dagli spiriti maligni, ecc. (At 3,1-9; 5,15-16, ecc.).
    Risulta molto significativo, in questo contesto, il racconto della guarigione dello storpio del Tempio, realizzata da Pietro e Giovanni (At 3,1-9). Significativo perché, prendendo per mano lo storpio e rialzandolo per farlo camminare, Pietro in qualche modo lo risuscita. Come a dire, emblematicamente, che tutto l'agire dei discepoli si condensa in questo: risuscitare i morti, dare loro la vita.

    5. Centralità dell'avvenimento pasquale

    Questo avvenimento, che abbiamo cercato di sviscerare nelle sue principali implicanze, occupa indiscutibilmente, negli scritti e nella realtà del Nuovo Testamento, il posto che l'esodo dall'Egitto occupava nell'Antico: ne è il centro indiscusso, e allo stesso tempo costituisce la cellula germinale tanto della fede quanto delle comunità neotestamentarie.
    Da una lettura pur veloce di tali scritti risulta chiaro che per i primi cristiani esso costituisce il nucleo dell'annuncio che gioiosamente cercano di fare all'intero popolo d'Israele prima, e fino ai confini della terra poi (cf At 1,8).
    Inoltre, analogamente a come faceva il popolo dell'Antico Testamento nei riguardi dell'esodo, essi lo proiettano verso il passato, ossia verso la vita e l'attività del Gesù storico, ma anche, al di là di essa, verso l'intera storia di Israele, e perfino verso la creazione stessa del mondo e, ancora più in là, verso la misteriosa vita intradivina.
    Infatti, dapprima la vita e l'attività del Gesù storico sono lette alla luce della situazione postpasquale della comunità. Uno dei tanti esempi è quello della narrazione della nascita di Gesù in Lc 2,8-11: al bimbino appena nato a Betlemme vengono già dati i titoli "Cristo e Signore", che in realtà sono propri del Gesù risorto (cf At 2,36).
    Ma poi anche l'Antico Testamento viene letto in ottica cristologica. I vangeli sono pieni di affermazioni in cui, come una specie di ritornello, si dice che, esplicitamente o con formule equivalenti: "ciò avvenne perché si adempisse la scrittura che dice ..." (cf Mt 1,22-24; 2,5-6.15.17-18.23; ecc.). È che, per essi, tutto l'Antico Testamento è una lunga preparazione alla risurrezione di Cristo. Egli è già in qualche modo presente in ognuna delle sue pagine.
    Classico, a questo riguardo, il testo di Paolo nella 1 Cor 10,4, nel quale l'Apostolo, parlando dei membri del popolo ebreo nel suo cammino per il deserto, afferma: "Tutti bevettero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti alla stessa pietra spirituale che li accompagnava. Quella roccia era il Cristo".
    Che poi la creazione stessa sia stata attribuita al Cristo pasquale lo si trova in Col 1,15 e Eb 1,12.
    Infine, sulle affermazioni della preesistenza eterna del Cristo si trovano tracce, almeno secondo alcuni biblisti, nel prologo del vangelo di Giovanni (1,1-2), nell'inno cristologico di Fil 2,6-7, e in Eb 1,3.
    Oltre a prendere l'avvenimento pasquale come luce per leggere il passato, le prime comunità lo proiettano anche verso il futuro, ossia verso ciò che, con una parola greca allora molto conosciuta, viene chiamato chiamato "la parusia (presenza, ritorno) del Signore". Si tratta della fine della storia, del suo compimento totale secondo i piani di Dio.
    Esso sarà, secondo diversi scritti neotestamentari, la realizzazione piena, in chiave collettiva e anche cosmica, della Pasqua di Cristo (cf soprattutto Ap).
    I cristiani degli scritti neotestamentari dimostrano quindi di avere un modo pasquale di ragionare.
    Ne è una conferma il modo in cui cercano di risolvere i problemi che vanno sorgendo in seno alle comunità appellandosi, più o meno esplicitamente, all'avvenimento pasquale e al suo significato per la vita.
    A modo di esempio basti citare il ragionamento che Paolo fa ai Filippesi per convogliarli a vivere nella concordia fraterna (Fil 2,1-11): è il mistero della morte e dell'esaltazione di Gesù Cristo a fare da fondamento a tutto.

    6. Risurrezione e regno di Dio

    Il grande e gioioso annuncio dei primi cristiani e, quindi, questo: Gesù è vivo!
    Ma, allora, il loro annuncio è diverso da quello di Gesù? non era il suo un annuncio tutto centrato sul regno di Dio? non li aveva raccolto attorno a sé per inviarli ad annunciare, come lui, la vicinanza imminente del regno? hanno essi cambiato il contenuto della "causa" che Gesù visse, proclamò e propose, e per la quale anche morì? hanno forse tradito la sua intenzione di fondo spostando l'attenzione da essa alla sua persona?
    Se si leggono superficialmente i testi neotestamentari si può arrivare a quella conclusione. L'espressione "regno di Dio" appare, infatti, pochissime volte negli scritti che narrano la vita e la missione dei discepoli dopo la Pasqua. Sono invece pieni della presenza del Cristo risorto.
    Se si leggono invece in profondità, questi stessi testi portano a cogliere la continuità che esiste tra la missione svolta de Gesù e dagli stessi discepoli prima della Pasqua e dopo di essa.
    Anzitutto si coglie da essi una profonda certezza dei primi credenti: Gesù risorto è personalmente la realizzazione del regno di Dio da lui annunziato e ricercato. Ciò che egli ha desiderato ardentemente e cercato con tutte le sue forze per gli altri, cioè la pienezza della vita, lui stesso l'ha raggiunto, e per sempre, con la risurrezione.
    Come amava dire un grande cristiano dei primi secoli, Origene, Cristo risorto è personalmente il regno di Dio.
    E lo è appunto perché in lui ormai il Dio della Vita regna sovrano e definitivamente. La Morte non ha più niente ha che vedere con lui per sempre (Rom 6,20).
    Ma una seconda certezza sprizza da ogni pagina del Nuovo Testamento: ora Gesù porta avanti con maggior efficacia ancora che quando era visibilmente tra gli uomini la causa del regno di Dio, e accompagna con la sua Forza vivificante, che è lo Spirito, lo sforzo di coloro che la fanno propria. Egli è con loro a questo scopo "fino alla fine dei tempi" (Mt 28,20)
    Uno degli effetti della Pasqua era stato precisamente quello di convertire Gesù in "Spirito che dà vita" (1 Cor 15,45). Ciò che egli aveva cominciato a essere parzialmente durante la sua attività in ordine al regno di Dio, ora lo è in forma piena, totale.
    È questa certezza ciò che muove i discepoli a impegnarsi nella causa della "risurrezione dei morti". Essi sanno, perché lo hanno imparato stando gomito a gomito con lui, che egli continua con potenziata capacità ad amare appasionatamente la vita in pienezza di tutti gli esseri, e soprattutto degli uomini, e specialmente dei più piccoli e deboli.
    Perciò annunciano gioisamente la sua risurrezione. Come un annuncio di speranza e come una proposta di impegno per tutti.
    Di speranza, perché sono convinti che il trionfo della Vita sulla Morte è possibile, dal momento che è già avvenuto, totale e definitivo, in uno della nostra razza umana.
    Di impegno perché sanno che tale speranza diventerà realtà se ci sarà chi, come lui, si darà da fare perché ciò avvenga.


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